  Sono passati quarant&rsquo;anni esatti dal tramonto dell&rsquo;ultima Brm di Formula Uno. Praticamente la speranza conclusiva e ben presto sfumata d&rsquo;una revivescenza dolce, di un hurr&agrave; di commiato atteso e mai avvenuto e che, a questo punto, mai pi&ugrave; accadr&agrave;. Dietro tutto, una storia strana, particolare, come sempre accade quando muore nel declino una gloriosa Casa da corsa, un intreccio dalla trama fitta, quasi sconosciuta, po&rsquo; poetica e un po&rsquo; struggente. Il 1979 &egrave; anno strano,  di snodo e trasformazione per i Gran Premi. In pieno svolgimento c&rsquo;&egrave; un&rsquo;era tecnologica nuova, quella delle wing car, le macchine- ala create e portate al successo la stagione precedente da Colin Chapman con la sua Lotus 79 che sbanca il mondiale in versione nero e oro, col lanciatissimo Mario Andretti al volante, sfidato e coadiuvato dal grande Ronnie Peterson, fino a che lo svedese trover&agrave; la morte per le conseguenze del crash al primo via del Gp d&rsquo;Italia a Monza.    Proprio a Monza, un anno prima, nel 1977, s&rsquo;era vista per l&rsquo;ultima volta in pista nel mondiale la gloriosa Stanley-Brm, guidata dal belga Teddy Pilette, che aveva mancato tristemente la qualificazione nell&rsquo;affollatissima gara italiana, al volante della datata e non competitiva P207. La vera fine della storia per il marchio british in Formula Uno? S&igrave;, ma anche no. Perch&eacute; tutto il resto appartiene a una strana mitografia sottotraccia e dal fascino archeologico, che in pieno quarantennale imperante &egrave; il caso d&rsquo;andare a narrare e riscoprire, magari per sorprendersi e sorprendere una volt&agrave; di pi&ugrave;. Ma procediamo con ordine e cominciamo da capo, narrando a chi non sa o permettendo di ripassare l&rsquo;alba della leggenda Brm a chi la conosce gi&agrave;.  &nbsp;  &nbsp;    L&rsquo;importanza della Brm nelle corse  Quella della Brm (sigla che sta per British Racing Motors) &egrave; storia meravigliosamente seria. Concepita nel 1947, proprio come la Ferrari, la Casa nasce da un consorzio d&rsquo;industrie britanniche - in un momento in cui gli inglesi in monoposto non hanno ancora vinto praticamente niente -, allo scopo di suonarle in pista a tutti grazie a un fantomatico motore a 16 cilindri. A met&agrave; Anni &rsquo;50, il team viene rilevato dalle solidissime industrie Rubery Owen e nel 1962 Graham Hill su Brm diventa iridato F.1 (col motore 8 cilindri a V) e lo sarebbe pure due anni dopo se non fosse per una tamponata di Bandini Lorenzo, che regala il titolo al compagno ferrarista Surtees.  Ma la Brm &egrave; un mito che s&rsquo;ostina a farsi tutta la F.1 in casa, proprio come la Ferrari, alternando solidit&agrave; a coraggio telescopico e avveniristico, visto che che a met&agrave; Anni &rsquo;60 corre addirittura insieme alla Rover alla 24 Ore di Le Mans con un propulsore a turbina. E, non paga, poi realizza addirittura un complicatissimo ma affascinante motore 16 cilindri per la Lotus F.1, oltre a dare propulsori alla Matra endurance. Nei Gran Premi il declino &egrave; gi&agrave; realt&agrave; a inizio Anni &rsquo;70, anche se non mancano giorni di gloria, grazie a piloti come Jo Siffert, Pedro Rodriguez e Peter Gethin, quest&rsquo;ultimo al top in volata nell&rsquo;indimenticabile Gp d&rsquo;Italia 1971. L&rsquo;ultimo vero hurr&agrave; &egrave; comunque quello di Jean-Pierre Beltoise, a segno nel bagnatissimo Gp di Monaco 1972 al volante della Brm nella sponsorizzatissima livrea Marlboro, gi&agrave; simbolo della neomodernit&agrave; danarosa nella F.1 che sar&agrave;.  &nbsp;  &nbsp;    La decadente saga di Lord Stanley  A met&agrave; Anni &rsquo;70 la Brm, ormai gestita da Lord Stanley ben maritato con lady Jean Owen, vanta nella sua antica e gloriosa bacheca un mondiale piloti, due trofei Costruttori e 17 Gp vinti, pi&ugrave; un&rsquo;aura di tifo patriottico superata solo dalla devozione che i pi&ugrave; provano per la Ferrari. Poi la catastrofe. Il Lord &egrave; eccentrico ma non prodigo, cos&igrave; i suoi si devono arrangiare nello sciagurato 1977 con 300.000 sterline di budget dovendosi costruire telaio, motore e cambio, quando i top team veleggiano sereni a 900.000. In quell&rsquo;anno il pilota designato Larry Perkins riesce a prendere il via solo nel Gp del Sudafrica e poi la Brm scompare per sempre dalle griglie di partenza iridate, confinandosi alla serie Aurora Afx per il 1978 con Pilette. Pare la fine.  Eterno ritorno  E invece no. Nel 1979 inizia appunto un processo strano, affascinante, nella sua complessit&agrave; e frammentariet&agrave; unico nel mondo delle corse, col primo di una serie di tentativi di revivescenza del marchio che finiscono puntualmente per trasmettere un&rsquo;impressione di vulnerabile, struggente ma sostanziale ed entusiastica immortalit&agrave;. La Brm quasi non esiste pi&ugrave;, ma c&rsquo;&egrave; una vettura completata da Aubrey Woods, la P230, in piena era wingcar.  Ci prova a guidarla l&rsquo;allora 22enne Neil Bettridge, che si esibisce in uno shakedown a Donington, ma i tempi sono da vettura Turismo. Anzi, scendiamo nei particolari. La vettura viene realizzata a Ferndown dalla CTG Racing dove Cyril Maylem completa il progetto sotto la supervisione di Alan Challis e Aubrey Woods. In realt&agrave; lo stesso Neil Bettridge, primo e unico tester designato, anni dopo confessa di aver percorso solo un paio di giri veri, prima del cedimento di un braccetto all&rsquo;altezza delle curve Craner. Cosa che consiglia la squadra di impacchettare tutto e lasciare perdere qualsiasi idea di sviluppo a breve termine.  Annunciata al via della Corsa dei Campioni, per tornare a sfidare come ai tempi d&rsquo;oro la Ferrari, stavolta guidata dall&rsquo;astro nascente Gilles Villeneuve, la fantomatica P230 non sar&agrave; mai utilizzata in una qualsiasi gara. Il giorno della Race of Champions, con i programmi aperti sulla pagina degli iscritti, migliaia di tifosi attendono invano di apprezzare fattezze e ruggito dell&rsquo;annunciata P230, ma niente da fare. Nessuno vedrai mai pi&ugrave; la monoposto Brm nei suoi eroici e classici colori da guerra. N&eacute; in pista n&eacute; in nessuna altra parte. Perch&eacute;? Cosa &egrave; accaduto di cos&igrave; dirimente e irreversibile? E, soprattutto, che cavolo di fine ha fatto la quasi invisibile P230?  &nbsp;  &nbsp;    Legal thriller sull&rsquo;ultima Brm  E qui scoppia un vero e proprio legal thriller, perch&eacute;, dopo lo shakedown di Donington, la Brm finisce i quattrini e il pap&agrave; di Neil Bettridge, creditore dalla Brm stessa dei soldi che aveva speso per finire il telaio, parcheggia la P230 nei capannoni della sua officina a Melksham. Ma cambio e motore appartengono ancora alla Stanley-Brm, cos&igrave; vengono smontati e rispediti nella gloriosa sede di Bourne. Il caso finisce per vie legali e finalmente Stanley e Bettridge senior arrivano a un accordo, che prevede la restituzione della P230 al Lord, il quale la vorrebbe poi cedere col pacchetto del materiale che ha messo in liquidazione, ma alla fine sar&agrave; costretto a una vendita disgiunta.  L&rsquo;incredibile trasformazione della P207 in Can-Am  I ricambi, la scocca, la sola realizzata, e il progetto stesso della sofferta P230 vengono quindi acquisiti dall&rsquo;ex pilota di salite David Hepworth, che ha un&rsquo;officina nello Yorkshire - guarda caso lo stesso che a inizio Anni &rsquo;70 aveva corso con una Brm privata nell&rsquo;Interserie -. Hepwoerth la spedisce nella sede della BS Fabrication di Bob Sparshott e la trasforma per la Can-Am, espiantando l&rsquo;amatissimo, antico e glorioso - oltre che sfiatato -, 12 cilindri per fare posto a un sacrilego Chevy 5000 cc. Cosa sta succedendo alla vettura inglese di F.1 pi&ugrave; classica e invocata di fine Anni&rsquo;70?  Una cosa semplicissima. Hepworth tenta di vendere la belva al magnate George Garvin Brown III, erede della premiatissima company Brown-Forman, i cui brand a disposizione includono il whisky Jack Daniel&rsquo;s.  &nbsp;  &nbsp;    L&rsquo;ultimo crash  Garvin Brown nelle corse &egrave; un romantico. George Garvin III, che alle spalle un matrimonio con la comasca Antonella Mandelli, gi&agrave; bravissima rallista, segue la carriera di un altro virgulto del Kentucky, Danny Sullivan, che dopo essere arrivato fino alla F.2 con la modesta Toj di Jorg Obermoser, ha fatto ritorno negli Stati Uniti e punta proprio sull&rsquo;aiuto del re del whisky per risollevare le sue sorti agonistiche.  L&rsquo;ex Brm P230, ora pomposamente ribattezzata Hepworth Gb1 - le iniziali di Garvin Brown -, &egrave; attesa in gara per il finalone della Can-Am 1980 a Laguna Seca e Riverside, ma non verr&agrave; mai schierata. Perch&eacute; in prova non si mostra n&eacute; competitiva n&eacute;, tantomeno, affidabile, tanto che tira una gran botta a rovinare la scocca, pare irrimediabilmente.  La parallela storia della vecchia P207  Nel frattempo le antiche P207 - in realt&agrave; con un solo esemplare viaggiante e un altro cannibalizzato -, finiscono invece nelle mani dell&rsquo;appassionato racer John Jordan (nessuna parentela con Eddie), che le schiera collezionando spettacolari fumate del V12 nelle gare di F.Libre britannica, con l&rsquo;inglese Tony Trimmer e lo statunitense David Williams. Nel 1983 l&rsquo;avventura della P207 termina per sempre, a Oulton Park, come al solito al primo giro di gara, quando Trimmer &egrave; fuori con la pressione dell&rsquo;olio a zero. &Egrave; il 1&deg; aprile e forse non &egrave; mica un caso.  &nbsp;  &nbsp;    L&rsquo;incredibile resurrezione a Goodwood 2016  Ma la storia non finisce mica qui. Perch&eacute; dopo mesi di lavoro per un restauro conservativo praticamente perfetto, la Hepworth Gb1 nata Brm P230 torna alla ribalta e alfine, dopo quasi quattro decadi, si presenta al grande pubblico britannico in occasione del Festival of Speed a Goodwood 2016, guidata dall&rsquo;erede Andrew Hepworth.  Cos&igrave;, con quasi quarant&rsquo;anni di ritardo, la monoposto si prende i primi e meritatissimi applausi scroscianti della sua lunga e non pi&ugrave; oscura storia, sublimando ci&ograve; che resta della fantomatica Brm a effetto suolo. La ex P230 che finalmente ormai modificata, distrutta, abbandonata e ricostruita, torna in perfetta forma vivendo un non immeritato momento di gloria, di fronte al pubblico pi&ugrave; competente, innamorato e preparato del mondo. &nbsp; 

<p>Nata P230 in piena era wing car, il parto finale della BRM per i GP di F1, vive una vicenda ai confini della realt&agrave;, tra legal thriller, incidenti, restauri e un&#39;inattesa ed entusiastica resurrezione. Questa la trama di un vero e proprio giallo da corsa.&nbsp;</p> 

La strana storia dell&#39;ultima BRM di Formula 1

<p>Con la Ferrari, la BRM &egrave; una delle case pi&ugrave; antiche e gloriose della Formula 1. Ma il prestigioso e al tempo stesso austero marchio inglese vive il suo ultimo e oscuro capitolo in chiave GP nell&rsquo;ormai lontano 1979, quando d&agrave; vita alla fantomatica P230 effetto suolo. Vettura contesa, poi riciclata in Can-Am, distrutta e scomparsa, ma anche ricostruita e rinata di recente</p> 

BRM P230 l'ultima Formula 1 di una delle più prestigiose case automobilistiche al mondo

Una doppia emorragia cerebrale &egrave; stata fatale per Jean-Pierre Beltoise mentre si trovava in vacanza nei dintorni di Dakar (la citt&agrave; in Senegal, non il raid in corso proprio in questi giorni). All'et&agrave; di 76 anni, lascia la moglie Jacqueline (sorella di un altro pilota francese, Francois Cevert) e i figli Anthony e Julien.  Beltoise era stato uno dei protagonisti delle gare F1 e Sport negli anni '60-'70, contribuendo alla popolarit&agrave; delle serie in Francia. Dopo gare in moto e formule minori, in F1 corse per Matra e BRM e vinse a Montecarlo nel 1972. Ben pi&ugrave; numerosi i successi fra i prototipi: con questi si annoverano le 1000 km del N&uuml;rburgring, di Brands Hatch e di Buenos Aires, oltre a una 6 Ore di Watkins Glen.  In questa categoria fu per&ograve; anche la causa dell'incidente in cui perse la vita Ignazio Giunti nel '71, quando nella gara in Argentina tampon&ograve; violentemente la vettura che Beltoise stava spingendo verso i box perch&eacute; rimasto senza carburante. Una manovra non inusuale nelle gare Endurance di quegli anni, ma che in quel caso si risolse tragicamente: Beltoise venne comunque ritenuto responsabile e gli venne sospesa la licenza per un mese.  Maurizio Voltini      

Il campione francese degli anni '60-'70 si &egrave; spento all'et&agrave; di 76 anni

Ci ha lasciato Jean-Pierre Beltoise

Immaginate di vedere Niki Lauda con la Ferrari 312T2 del 1975 tirare la staccata all'ultima curva del Red Bull Ring a Gerhard Berger con la Lotus 49 ex Rindt del 1970 e ad Alexander Wurz sulla Benetton del 1998. E poi Helmut Marko, l'uomo forte della Red Bull e scopritore di Vettel, seguirli in scia sulla sua Brm P160 F1 del 1972. Ecco, questo &egrave; lo splendido spettacolo che hanno potuto ammirare gli spettatori del Red Bull Ring prima del gran premio di Formula Uno.  Una fantastica esibizione di F1 degli ultimi 40 anni guidata da tutti i migliori piloti austriaci della storia e non solo di F1. Un revival perfetto che ha reso lucidi dall'emozione gli occhi di chi queste bellissime F1 storiche e quei piloti li ha visti correre sull' aereo tanti anni fa.  Tra gli altri c'erano anche Dieter Quester con una splendida Surtees Ts16 degli anni 70, Frisacher con la Minardi e in pista s'&egrave; vista pure la prima Red Bull F1 della storia, la Rb1 guidata da Christian Klien. Berger invece &egrave; l'unico che si &egrave; alternato su due monoposto: la sua Ferrari F1 turbo del 1988 e la Lotus 49 che era stata portata al successo dal compianto Jochen Rindt. Le auto appartenevano a collezionisti privato (compreso Ecclestone) che le hanno messe a disposizione.  Persino Vettel ha voluto esibirsi anche lui con la Brm del 1972 di Marko. Chi si &egrave; perso quell'epoca si rifaccia gli occhi con queste foto.  

Una stupenda parata ha animato il tracciato, capeggiata dai top driver austriaci di sempre: Lauda, Berger, Marko e tanti altri rispettivamente su Ferrari 312T2, Lotus 49 e Brm P160 F1

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Nostalgia d’Osterreichring