Ci sono volte in cui vedo aprirsi il dibattito sui temi pi&ugrave; caldi e interessanti del mondo delle corse e improvvisamente provo una sensazione di acuta manzanza di qualcosa e poi mi rendo conto che in realt&agrave; &egrave; proprio il senso dell&rsquo;assenza di qualcuno. E neanche uno solo, ma tanti. Fateci caso. Quando si parla di presente e futuro del mondo racing, gli autorevoli, gli espertoni, i guru sono pochi e perlopi&ugrave; decisamente improbabili, compresi noi giornalisti, mentre nell&rsquo;aria s&rsquo;avverte una specie di triste e malinconica lacuna. Il silenzio, dico io, di chi dovrebbe parlare, dirci, illuminarci e invece non pu&ograve;. Non so se &egrave; il caso o il destino, per&ograve; l&rsquo;automobilismo da corsa &egrave; la disciplina che pi&ugrave; avverte il lutto intellettuale vedovile di generazioni di campioni precocemente assenti o forzatamente muti e questa &egrave; una delle pi&ugrave; grandi sfortune del nostro Sport.  L&#39;automobilismo rimasto senza i Campioni del passato  Sinceri: tutte le volte in cui si tratta un argomento sensibile del pianeta racing di chi vorreste conoscere l&rsquo;opinione, l&rsquo;orientamento, il consiglio e la presa di posizione?  Il pi&ugrave; delle volte ascolto chi prova a dire la sua e resto deluso, perch&eacute;, per quanto mi riguarda, godrei come un riccio a sentire cosa ne pensa Jim Clark, oppure, che so, Graham Hill, James Hunt, Niki Lauda o Mike Hailwood.  Meglio ancora, mi chiedo a che livelli sarebbe arrivata la coscienza critica di un campionissimo quale Ayrton Senna. Dove allignerebbe ora? Sarebbe capo di stato? Ambasciatore Onu per il volontariato? E un Michael Schumacher, in condizioni di salute accettabili, quanto avrebbe potuto dare all&rsquo;automobilismo e al motorsport in veste di padre spirituale, di autorit&agrave; pensante?  E, sinceramente, su, quanto manca Alessandro Zanardi? Quale sarebbe stato il posizionamento dell&rsquo;automobilismo italiano nello scacchiere internazionale, se avesse potuto contare sull&rsquo;autorevolezza di Michele Alboreto? Oppure al giorno d&rsquo;oggi in veste di opinionista e fonte d&rsquo;esperienza quanto avrebbe spostato uno come Elio De Angelis? E Andrea De Cesaris? E i fratelli Rodriguez, Pedro e Riccardo? Dai, con un pizzico di sfortuna in meno pure gli svizzeri Clay Regazzoni e Jo Siffert sarebbero ancora dei nostri.  I custodi dei principi racing non ci sono pi&ugrave;  E invece no. Chi per un motivo, chi per l&rsquo;altro, chi volato via e chi ancor presente ma allo stesso tempo forzatamente muto e lontano, nessuno di loro pu&ograve; essere dei nostri. Ebbene io vi dico che non c&rsquo;&egrave; Sport al mondo pi&ugrave; vedovo e orfano dell&rsquo;automobilismo da corsa.  Gli altri, tutti gli altri, hanno le loro icone vive e vegete, i loro santoni, i padri spirituali, le coscienze critiche a formare un vero e proprio senato immaginario che nobilita calcio, ciclismo, atletica, tennis, motociclismo e quant&rsquo;altro.  L&rsquo;automobilismo no. Da noi non tutti dei grandi ma tanti, troppi, non ci sono pi&ugrave; e non solo perch&eacute; un tempo la mortalit&agrave; in gara era quella che era. No, tra i silenti e i silenzi forzati ce ne sono molti che semplicemente hanno avuto sfortuna nella vita e la loro, di sfortuna, &egrave; anche la nostra: quella di non poterli ascoltare pi&ugrave;.  Da questo punto di vista il pianeta car racing &egrave; penosamente, tristemente, dolorosamente e collettivamente orfano di una classe pensante purtoppo venuta a mancare.&nbsp;L&rsquo;intellighenzia, nelle corse, in gran parte &egrave; perduta e resta soprattutto la nomenklatura.  Tendenzialmente da noi pochi possono portare con dignitosa decenza il potere del pensiero e a esprimersi &egrave; soprattutto chi ha il pensiero del potere. Peccato, maledizione. Quando vedo tanto smarrimento e perdita d&rsquo;identit&agrave; della Formula Uno che viene stirata come la pelle dei cosiddetti, indebitamente forzata e mutata con cambiamenti da circo Barnum, quando noto l&rsquo;endurance soffrire per le storture del BoP, tutte le volte in cui mi rendo conto che i teatri di gara pi&ugrave; belli e affascinanti quali l&rsquo;Osterreichring, l&rsquo;Hockenheimring lungo, Brands Hatch, Imola senza varianti, Zandvoort pre-amputazione, ma anche Interlagos prima versione, be&rsquo; ecco, dicevo, in tutti questi momenti mi viene da pensare che da noi, nel nostro mondo, tanti di quelli che avrebbero potuto battere i pugni e dire la loro per difendere l&rsquo;essenza pi&ugrave; dura e pura del racing world, sono irrimediabilmente e credo per sempre condannati al silenzio. Da noi i grandi custodi dell&rsquo;istinto da corsa e dei princ&igrave;pi racing non ci sono pi&ugrave;. E ormai Jackie Stewart &egrave; un po&rsquo; stanco, Bernie Ecclestone, quando parla, parla quasi solo per fare casino e Mario Andretti e Aj Foyt si occupano soprattutto d&rsquo;America, perch&eacute; &egrave; giusto cos&igrave;, mentre Jackie Ickx si &egrave; perfin stufato di dire frasi sagge, ch&eacute; troppe ne ha pronunciate senza nessuno che gli desse ascolto.  La solitudine degli appassionati di F.1  C&rsquo;&egrave; una storia indicativa e terribile che a volte mi mette i brividi. E risale all&rsquo;11 settembre 2001, al giorno maledetto dell&rsquo;attentato alle Torri Gemelle. Il secondo aereo s&rsquo;&egrave; appena schiantato. I danni sembrano ingenti ma gestibili e nei due grattacieli vengono irradiati appelli a stare fermi, a non muoversi, perch&eacute; l&rsquo;evacuazione inizier&agrave; in tempi compatibili e con la dovuta disciplina.  Tanti stanno fermi, aspettano e sar&agrave; proprio questo che li fregher&agrave;. Invece c&rsquo;&egrave; un cieco, tirato da un cane, che non d&agrave; ascolto a nessuno. Esce, non resta sotto le macerie, perch&eacute; il cane lupo stesso, forte del suo istinto, lo trascina via, lo porta all&rsquo;esterno pochi secondi prima che tutto si sfaldi. Che nulla resti in piedi, travolto dalla distruzione. Ecco, molte volte quando ascolto dibattiti importanti sul futuro delle corse mi sembra di sentire quei vuoti annunci di stare tranquilli, di non preoccuparsi, che &egrave; tutto a posto e perfettamente sotto controllo. Tutti gli appassionati sono, anzi siamo, quelli che non vedono abbastanza, che vanno a tentoni, ispirati solo dalla passione, dalla nostalgia e poco possono. A mancare, appunto, sono proprio loro, quei grandi che col loro istinto racing, con classe, esperienza e autorevolezza avrebbero potuto aiutarci a preservare il pianeta racing, facendolo restare un mondo migliore.  Per questo, quando si celebrano giubilei e anniversari della scomparsa o della mancanza di questo o quel campione del volante, si certifica solo la met&agrave; visibile del danno subito. Poich&eacute; tutti costoro non solo sono forzatamente mancati alle corse, ma per tutti gli anni a venire e per sempre, le loro menti illuminate non potranno darci luce. Per questo, se Enzo Ferrari diceva che nelle corse la sfortuna non esiste, io dico che di sicuro ha ragione lui, ma, al di fuori della situazione gara, nell&rsquo;universo racing la sfortuna &egrave; esistita eccome e - per cause ben diverse da quelle naturali -, ci ha lasciato privi dei pi&ugrave; grandi, in pista e nella vita.  E adesso, altro che annoiati dalla F.1 monocorde: la verit&agrave; &egrave; che ci sentiamo sportivamente, umanamente e intellettualmente, tanto soli.  F1 2023, i 5 temi del Campionato 

Ci avete fatto caso? I campionissimi che potevano diventare dei vecchi saggi se ne sono andati o son silenti quasi tutti...

L&rsquo;automobilismo da corsa &egrave; un mondo vedovo

Discorso semplice. L&rsquo;automobilismo da corsa e il motorsport in genere spopolano da inizio &rsquo;900 in poi per il culto della velocit&agrave; estrema, della sfida, del rischio e per il conseguente carisma dei partecipanti, ritenuti eroi coraggiosi e virtuosi, oltre che intelligenti e vincenti, nonch&eacute; adorabilmente simpatici. Irraggiungibili sull&rsquo;asfalto ma approcciabili nella vita. Perch&eacute; chi rischia la pelle sa valorizzare le cose belle, sorrisi e socializzazione minima annessa.  Imola al lavoro per restare in F.1 anche nel 2026  La F.1 moderna? Fredda e inavvicinabile  L&rsquo;idealizzazione e l&rsquo;adesione conseguenti portano per decenni e decenni la massa degli appassionati a sognare e a godere di gare, campioni e macchine, con la F.1 in testa a tutto e a tutti. Fino a che, dai e dai, le condizioni offerte cambiano e il patto tacito tra corse e racing fans muta clima, climax e percezione. I GP e la F.1 ora costano all&rsquo;appasionato medio quanto una multa dell&rsquo;ufficio entrate, le gare non hanno sconti ma restano scontate solo nella trama, le vince tutte la stessa macchina con lo stesso pilota, il rischio &egrave; tendente a zero, i circuiti asettici e la competizione apparentemente tesa ma di fatto aderente a una scala di valori delineata fin dal primo chilometro del primo test stagionale.  Poi, se per disgrazia, da spettatore paghi e metti il naso a due passi dalla zona di gara devastandoti l&rsquo;iban, trovi tutto blindato, semielettrificato, freddo, invalicabile, gelido e snob, come il cimitero privato di una banca svizzera retto da un guardiano di cattivo umore. Scherzo. Scherzo? Ma anche no. La sporca verit&agrave;? Se non hai l&rsquo;American Express platinata, l&rsquo;amante tacco 16 a capello vaporoso pi&ugrave; la vita da vespa e non puoi permetterti il paddock club, la F.1 dal vivo lasciala stare, ch&eacute; in troppi GP, tutti quelli pi&ugrave; glamour, &egrave; una via di mezzo tra una purga, un salasso e una barzelletta moscia.  Minardi Days, la F.1 vicina alla gente  Detto questo, capire il motivo per cui tanti se non tutti da anni e anni vanno pazzi per i Minardi Days &egrave; facile come affettare il burro col laser. Perch&eacute; l&rsquo;evento ideato, creato, sperimentato e lanciato negli anni da Gian Carlo Minardi e dai suoi fratelli - compreso il compianto Nando -, brilla per incarnare l&rsquo;esatto contrario algebrico della F.1 cresciuta tanto e male. L&rsquo;opposto siderale. Che spazza via difetti della massima formula di oggi invertendone il trend, col ritorno allo spirito originario. Utilizzando, per dirla con patron Gian Carlo, un modo antico per riavvicinarsi al mondo dei Gran Premi. Quando il paddock era aperto, perforabile, frequentabile e i campioni pi&ugrave; sereni, avvicinabili, non scortati da famuli, bodyguard o, peggio ancora, perch&eacute; te li raccomando, da alcuni presunti addetti all&rsquo;informazione, non dico mica tutti ma quasi, che di solito non informano e stanno l&igrave; solo per creare barriere e problemi interminabili a chi dovrebbe informare davvero, cio&egrave; i liberi giornalisti.  In un panorama del genere, i Minardi Boys hanno creato i Minardi Days tornando ai giorni in cui erano tutti nel paddock dei GP quelli veri, a far correre con le monoposto faentine piloti - tanti italiani -, che altrimenti non sarebbero mai arrivati nei Gran Premi e, parallelamente e neanche tanto segretamente, a far entrare nel paddock del Circus fans che altrimenti non avrebbe neanche potuto lontanamente avvicinarcisi. Come? Mettendo in rotazione frenetica 20 pass disponibili per consentire gratis ad almeno trecento persone a Gran Premio di gustare atmosfera e fascino della F.1. Capitavano cose cos&igrave;, ecco. Sono diciotto anni che la Minardi non corre pi&ugrave; nei GP ma la famiglia porta addosso quell&rsquo;esperienza infinita, bella, calda ed entusiasmante, restituendone dal 2016 a oggi il senso, il gusto dello show e dell&rsquo;opportunit&agrave;, uniti al piacere di vivere ore preziose in un ambiente amichevole e anche amico.  Con tanti conosciuti campioni che parlano e si intrattengono in compagnia degli appassionati, i quali godono dei rombi, dei colori e degli odori di F.1 e auto da corsa che diventano simboli di una nostalgia appagata, ad avvolgere un paradiso ritrovato. E se chiedi a patron Gian Carlo le tre emozioni pi&ugrave; grandi in questa quasi-decade di Minardi Days, lui dice: &quot;La prima, l&rsquo;affetto immenso della gente nella prima edizione, che cos&igrave; tanto mi sorprese e mi commosse. La seconda, il secondo anno, nel vedere tutta la collezione delle Minardi esposta, grazie a Toro Rosso. La terza, il prossimo weekend, perch&eacute; so che vedere tutti i tifosi che si godono il nostro evento &egrave; sempre un gran bell&rsquo;andare e mi lascia a bocca aperta quanto felice&quot;. E dagli gi&ugrave; con incontri dibattito, aste, presentazioni di libri, esposizioni, speech, performance teatrali, giri di pista a go-go, monoposto in azione e in bella mostra, sfreccianti o statiche, all&rsquo;interno di un ambiente disponibile, gustabile, avvolgente, accogliente e morbido. E colto di corse, mica frivolo.  Minardi Days, il terzo GP italiano  Ecco perch&eacute; per il tifoso di F.1 duro e puro i Minardi Days non sono solo la Goodwood di noialtri ma il vero e proprio terzo Gran Premio italiano della stagione, accanto a quello dell&rsquo;Emilia Romagna &amp; del Made in Italy e al canonico appuntamento di Monza. In fondo uno che ama davvero le corse, desidera godere con gli occhi, sentirsi benvenuto, poter ascoltare, interagire, girare, scegliere, muoversi e provare la piacevole sensazione d&rsquo;essere parte di un tutto pulsante, educato e benvenuto.  Senza confini quasi militarmente invalicabili ed aree in cui entrano solo quelli coi dan&eacute;. Ovvero motorhome faraonici, dai vetri ambrati, proibiti ma, vi assicuro, tristissimi anche solo a metterci piede. Niente di tutto ci&ograve;: i Minardi Bros rispondono ospitando stand di libri, modellini, merchandising di una volta e, soprattutto, furgoncini con la piada e i panini, altro che storie. E se in giro incontri e riconosci gente come Beppe Gabbiani, Emanuele Pirro, Bruno Giacomelli, Dindo Capello, Piero Martini, Riccardo Patrese, Arturo Merzario, Miguel Angel Guerra, Alessandro Nannini e tanti, tantissimi altri che in F.1 o a Le Mans non ci sono andati per caso, fermali pure, chiedigli un autografo e sparatici un selfie e due battute. Perch&eacute; il senso vero delle corse, dello Sport e anche della vita, &egrave; anche questo.  La vita &egrave; l&rsquo;arte d&rsquo;incontrarsi, diceva il poeta Vinicius de Moraes, e i Minardi Bros sono di nuovo pronti ad accoglierci tutti in un evento ricco d&rsquo;opere semoventi e ispirati creativi, non meno degli Uffizi. Morale della favola? Viva l&rsquo;automobilismo che non se la tira. Anche quest&rsquo;anno ci si vede l&agrave; e, se vorrete, faremo due chiacchiere insieme, molto volentieri. Buon divertimento a tutti e in bocca al lupo, desiderati e desiderabili tifosi degli amatissimi Minardi Days.  Formulino, addio al gatto-mascotte del circuito di Imola   

La F.1 se la tira e costa troppo? No problem, c&rsquo;&egrave; lo zio Gian Carlo!

Minardi days, il terzo Gran Premio italiano

Cinquant&rsquo;anni fa nel Gp d&rsquo;Olanda 1973 se ne andava tra le fiamme Roger Williamson, malgrado i tentativi eroici di salvarlo del compagno di marca e di March, David Purley. L&rsquo;ho scritto poco tempo fa e lo riscrivo pure, perch&eacute; ha senso assai ribadirlo. La tragedia si consum&ograve; in mondovisione, davanti a commissari in braghe corte ed estintorini che sembravano bottiglie di Coca-Coca da un litro. Una squallida e indignante vergogna, insomma.  Gli organizzatori di Zandvoort ne uscirono a pezzi, come immagine, e anche non senza ragioni, bench&eacute; quella fosse una F.1 tutta da cambiare e mettere in sicurezza, mica solo in Olanda. Passa mezzo secolo e i Paesi Bassi - la raccomandazione delle autorit&agrave; a livello internazionale &egrave; di non usare pi&ugrave; il termine Olanda, sostituendolo preferibilmente con quello di cui sopra - per ironia della sorte si ritrovano in una posizione centrale nel mondo della F.1. Olandese, anzi, neerlandese, come si dice ora, &egrave; il pluricampione del mondo in carica,  F1 2023, le pagelle di met&agrave; srtagione: le squadre  F.1 sempre pi&ugrave; Olanda-centrica  Max Verstappen, candidato e ormai sicuro vincitore del terzo titolo consecutivo. Olandese - scusate, ma a neerlandese mi ci devo ancora abituare -, &egrave; lo zoccolo duro di tifosi che pi&ugrave; d&rsquo;ogni altro ceppo segue il beniamino orange gara per gara, con epicentro in Europa: erano in 50mila a Zeltweg e saranno ogni giorno 70mila a Zandvoort - ma potrebbero essere il decuplo, se ci fosse posto a casa -, e con tendenza a espandersi in tutti i Gran Premi del Pianeta.  E olandesissimo &egrave; il supermegasponsor ufficiale della F.1, ovvero la Heineken, che a inizio giugno ha ufficializzato l&rsquo;estensione della partnership globale col Circus iridato fino al 2027. Heineken e F.1 a ogni gara creano esibizioni spettacolari dentro e fuori la pista, nelle quali si trova spesso coinvolto Martin Garrix, la superstar olandese DJ e imprenditore.  A questo &egrave; bene aggiungere che la partnership dell&rsquo;olandesissima Shell - l&rsquo;azionista di maggioranza &egrave; la famiglia reale -, con la Scuderia Ferrari &egrave; la pi&ugrave; longeva e di pi&ugrave; grande successo della storia del Motorsport. Orange al top della F.1 in tutti i sensi, quindi. Per risultati sportivi, seguito, investimenti pubblicitari, presenze complessive e immagine. Incredibile. I Paesi Bassi, per patrimonio netto medio sono il quarto paese pi&ugrave; ricco del mondo, dopo Stati Uniti, Svizzera e Danimarca. Sul piano commerciale mercantile vantano una tradizione che affonda le radici nei fasti del diciassettesimo secolo, dalla fondazione della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, nel 1602, in Asia, alla Compagnia Olandese delle Indie Occidentali, con interessi in Africa, Nord America, Brasile e Caraibi. E adesso, c&rsquo;&egrave; poco da fare, la colonizzazione arancione interessa il circo della F.1, con tutto ci&ograve; che ne consegue.  Orange al top anche fuori dalla F.1  E Verstappen, certo, &egrave; motore tutt&rsquo;altro che immobile e volano della faccenda, la quale ormai sta acquisendo contorni che vanno ben al di l&agrave; del semplice successo sportivo di un pilota. Col circuito di Zandvoort che dopo un timido approccio biennale ha rinnovato l&rsquo;accordo per ospitare il Gp fino al 2025.  Parallelamente, gli orange sono sugli scudi anche nel ciclismo, perch&eacute; Mathieu van der Poel, figlio di Adrie van der Poel e nipote di Raymond Poulidor, si &egrave; aggiudicato la scorsa settimana il mondiale su strada disputato a Glasgow, in Scozia, confermando d&rsquo;essere diventato il pi&ugrave; grande atleta di gare ciclistiche incentrate su una giornata. Bingo. In due dei tre sport pi&ugrave; popolari a casa loro, gli olandesi schizzano al top. E pure nel calcio non scherzano. La nazionale olandese ha vinto il campionato europeo nel 1988 e ha raggiunto per tre volte la finali del campionato mondiale, (1974 e 1978 e 2010), venendo sconfitta in tutte le occasioni. Inoltre, ha raggiunto la finale della prima edizione della Uefa Nations League (2018-2019), uscendone sconfitta.  Ecco il punto. Paradossalmente le illusioni e le delusioni della fatata era Cruijff-Neeskens e dei cicli calcistici seguenti, grazie alle discipline a due, tre e quattro ruote hanno subito la trasformazione in gloriosa realt&agrave; disintossicante ed entusiasmante. Nel motomondiale il primo olandese iridato fu Jan De Vries nel 1971 in classe 50 cc, in sidecar Egberg Streuer, al top tre volte, nel 1984,1985 e 1986. Quanto alla F.1, anni fa parlavo con Gijs van Lennep, 80enne decano dei piloti olandesi, il quale mi spiegava: &quot;La verit&agrave; &egrave; che fino all&rsquo;era Verstappen la cronica mancanza di finanziamenti appropriati ha sempre tarpato le ali a tutti noi. Ho vinto le Mans nel 1971, su Porsche 917 con Helmut Marko, quindi ho fatto il bis nel 1976 con Jacky Ickx, sempre su Porsche, una 936, ma non &egrave; successo mai niente. Sono anche andato a punti in F.1 nel 1975, giungendo sesto con l&rsquo;Ensign al vecchio Nurburgring, ma i miei piccoli sponsor mi dissero che potevo fare meglio. Semplicemente, i tempi non erano maturi&quot;.  I 16 piloti olandesi del Circus  A conti fatti, compresi i Verstappen padre e figlio e il neogiubilato De Vries, sono 16 gli olandesi che hanno corso in F.1. A met&agrave; Anni &rsquo;80 uno di loro, il non irresistibile Huub Rothengatter (tra i primi ad aver appoggiato Max da manager, quando il baby era ancora kartista), pubblic&ograve; un annuncio sui quotidiani nazionali dicendo d&rsquo;essere l&rsquo;unico sportivo olandese in grado di poter pubblicizzare in tempo reale a livello globale un marchio commerciale a 2 miliardi e mezzo di persone. Sarebbe bastato appoggiarlo in F.1. In realt&agrave; si stava rivolgendo alla Philips, che per&ograve; non recep&igrave;. Come non recepirono altri potenziali megasupporter negli anni successivi, lasciando spazio solo a piccoli investimenti per gli altri piloti tulipani, peraltro mai al top.  Adesso con Max tutto &egrave; cambiato. I Paesi Bassi sono al centro del ring F.1 e, proprio come ai tempi epici delle due mitologiche Compagnie delle Indie, mostrano di saper fare affari girando il mondo e perfino divertendosi. Attenti, quindi, quando vedete i fumogeni arancioni, vietatissimi ma comunque ora pi&ugrave; che mai in auge, nei Gran Premi. Perch&eacute; dietro tutto quel fumo c&rsquo;&egrave; una immensa, calda e sostanziosa montagna d&rsquo;arrosto.  Leggi anche:&nbsp; 

<p class="p1" style="margin: 0px; font-variant-numeric: normal; font-variant-east-asian: normal; font-stretch: normal; font-size: 12px; line-height: normal; font-family: Helvetica; -webkit-text-stroke-color: rgb(0, 0, 0); color: rgb(0, 0, 0);">Sulla scia di Verstappen un&rsquo;intera nazione &egrave; alla conquista del Circus

L&rsquo;irresistibile ascesa dell&rsquo;Olanda in F.1

Si pu&ograve; dire o qualcuno si offende? Il mese di marzo 2023 mi &egrave; sembrato il pi&ugrave; rivoluzionario negli ultimi decenni di Motorsport, perch&eacute; ha riproposto in chiave destabilizzante un dualismo antico. Quello tra F.1 ed Endurance, esaltando in prospettiva tutte le caratteristiche del mondiale di durata, rispetto alle tendenze e ai difetti dei solo apparentemente sfolgoranti Gran Premi di oggi.  Ferrari in gran rialzo dopo il WEC: il borsino del dopo Sebring  F.1 e WEC, mondi opposti  La F.1 propone una sfida gi&agrave; risolta, con una Red Bull anni luce avanti su tutti. Poi tutti chi? Altri due top team, Mercedes e Ferrari, che escludono gli altri, fatta salva l&rsquo;Aston Martin di Alonso &amp; Stroll, unica scheggia positivamente e benignamente impazzita del mucchio selvaggio. La F.1 ha non solo un re, ma anche un dittatore, perch&eacute; Max Verstappen non vuole noie, nel suo locale. La F.1 vanta dieci squadre immutabili e inamovibili, come cardinali a un conclave infinito, che ormai stanno facendo trionfare il principio dell&rsquo;esclusivismo e della porta chiusa verso nuovi ingressi, vedi Andretti. La F.1 &egrave; tutta lusso &amp; show, con prezzi folli, location da film di Jerry Cal&agrave; e minacce tutt&rsquo;altro che velate nei confronti dei circuiti storici, che se spariscono &egrave; meglio. Per fare posto a scenari da sogno quali Atlantide, Mu e dopodomani Vetralla, se domani scoprono il petrolio a Vetralla.  La F.1 &egrave; un insieme di cose intelligentissime gestita in modo spesso stupido e offerta in pasto a costi folli a gente potenzialmente sempre pi&ugrave; superficiale.  Il Wec, nome peraltro orribile per definire il glorioso Mondiale Sport Prototipi, invece, propone tutto il contrario. Si corre sui tracciati tosti, cazzuti e gloriosi tipo Sebring, Spa, Le Mans e Monza. Il principio &egrave; quello della porta aperta, perch&eacute; chi &egrave; in regola coi dettami d&rsquo;ingresso, paga, accende le macchine e corre, punto. Isotta Fraschini compresa, speriamo. Le macchine sono una ben diversa dall&rsquo;altra, financo con due possibilit&agrave; e filosofie costruttive, in seno all&rsquo;Hypercar, a seconda se vuoi farti tutto da solo, stile LMH, o prendere telaio e componentistiche al supermercato, in salsa LMDH. Lusso zero, show tanto. Competizione in prospettiva mutevole, nella scala dei valori perch&eacute; la Toyota per adesso sta davanti ma ben presto potrebbe risentire dei colpi ai fianchi di Ferrari, Cadillac e Porsche.  Ferrari tra GP ed Endurance  Gi&agrave;, la Ferrari. La Ferrari di Coletta - mo&rsquo; Antonello legge e s&rsquo;incazza, perch&eacute; lui dice che la 499P &egrave; la Ferrari della Ferrari, per&ograve; il suo ruolo di umile e concreto agitatore di uomini va ribadito e sottolineato, senn&ograve; tacendolo si scrivono bugie -, dicevo, la Rossa del ritorno sta diventando un potentissimo catalizzatore di sogni, passioni altrove deluse e voglie di rivincita ormai antiche. Le quali profumano pure delle sigle dei prototipi pi&ugrave; belli ed entusiasmanti nella storia delle corse all&rsquo;italiana, tipo P4, PB e 333 Sp, che per tanti di noi son lettere e numeri a formare il codice fiscale del godimento immaginifico al tramonto di Mulsanne. Poi chi ha capito ha capito e chi non capisce s&rsquo;informi. Perch&eacute; endurance, a differenza della F.1 d&rsquo;oggi, &egrave; anche cultura delle corse e conoscenza iniziatica di una disciplina complessa, alla quale ci si introduce anche con studi, letture e sessioni ripetute di visione del film di e con Steve McQueen sulla 24 Ore di Le Mans.  Perch&eacute; il mondiale endurance ha, appunto, la maratona della Sarthe a fare da palo del tendone del circo. Gara che vale una vita e che &egrave; quella che conta di pi&ugrave;, come nel ciclismo lo &egrave; il mondiale su strada in prova unica. Eppoi il Wec, grazie a Dio, non ha stupide sprint race, ma le corse pi&ugrave; lunghe del mondo. L&rsquo;endurance non ci infligge il pestilenziale DRS per favorire sorpassi finti, ma fa vincere chi dura andando il meno piano possibile, senza possibilit&agrave; di robe da wrestling. Certo, c&rsquo;&egrave; il BoP, ma speriamo siano onesti nel maneggiarlo, ecco, anche se lo usano dei tecnici politici e mica i piloti.  La notte di Le Mans &egrave; vera, quella del Bahrain o di Singapore &egrave; pi&ugrave; finta degli occhiali che fanno vedere le donne nude: chi leggeva le pubblicit&agrave; di Diabolik e Kriminal negli Anni &rsquo;70 sa a cosa mi riferisco, gli altri acquistino gli arretrati, please.  La Rossa traina il Wec (e Monza)  Volete argomenti ancor pi&ugrave; seri, per la WecMania? Proprio mentre Antonio Fuoco incendiava gli sportivi in Florida, Monza metteva in vendita i biglietti per la gara mondiale del prossimo 9 luglio. Be&rsquo;, non ci crederete: per la corsa brianzola dello scorso anno l&rsquo;incasso complessivo era stato a fine festa di soli 170mila euro, mentre in pochissimi giorni, subito dopo la zampata Rossa a Sebring, l&rsquo;incasso istantaneo della prevendita on-line &egrave; schizzato a 190mila euro d&rsquo;incasso. Cio&egrave;, l&rsquo;aspettativa vale gi&agrave; di pi&ugrave; dell&rsquo;evento precedente, con una prospettiva di ottimo afflusso di pubblico sull&rsquo;autodromo, per salutare in estate la Ferrari che torna alle origini. E di piacere a chi le corse le mastica respirandole e non le cerca solo per spararsi due aperitivi con gamberetti in paddock club, facendosi bello con l&rsquo;amante, a 5000 euro a weekend. Di pi&ugrave;. L&rsquo;altra sera ero a cena con Guido Meda, il quale mi ha confermato che su Sky il Wec a Sebring &egrave; andato okay, in termini di seguito. E lo stesso Coletta - ecco, adesso si pu&ograve; nominare in prima persona senza farlo incazzare -, in un&rsquo;intervista rilasciata nel pre-Sebring al Direttore di As Andrea Cordovani, ha rivelato che apposite indagini condotte tra le fasce interessate dimostrano una sorprendente fascinazione per il Wec tra i giovani, a rendere ancora pi&ugrave; completo il nuovo quadro della faccenda.  Mi vien da ridere solo a pensare che anni fa, quando dicevo e scrivevo che contro la noia della F.1 moderna l&rsquo;unico antidoto immaginabile era la riscoperta del fascino endurance delle grandi classiche come nell&rsquo;era d&rsquo;oro delle corse, mi si rispondeva che il passato &egrave; passato e indietro non si torna.  Qui in atto &egrave; un ritorno al futuro, altro che al passato. E per fare cose belle e intelligenti si &egrave; sempre in tempo. Anche perch&eacute; i veri appassionati di motorsport, ferraristi compresi, se vogliono evitare l&rsquo;overdose massacrante di doppiette Red Bull in F.1, da qui alla fine del&rsquo;anno come raro e prezioso antidoto hanno solo il Wec, Le Mans e la mai abbastanza invocata e applaudita Ferrari 499P.  L&#39;editoriale del Direttore: una Ferrari a due volti   

Contro il logorio della F.1, tutti pazzi per l&rsquo;endurance. Ecco come e perch&eacute;

Sterzi a parte: per 499P che tu sia, &egrave; gi&agrave; Wec mania!

Il caso Lancia &egrave; unico all&rsquo;interno dell&rsquo;epopea delle corse e, soprattutto, nella percezione del marchio nell&rsquo;animo degli appassionati, oltre che&nbsp;nella storia dell&rsquo;imprenditoria italiana e non solo.&nbsp;Lancia &egrave; tutto ci&ograve; che gli altri non sono mai stati, un&rsquo;industria&nbsp;importante ma mai elefantiaca e sempre dotata di un piglio caratterizzante&nbsp;e fascinoso, di classe ma non necessariamente da ricchi, ricconi o&nbsp;riccastri, capace di carezzare il fascino discreto della borghesia&nbsp;realizzando con la stassa lucentezza coup&eacute;, berline, presidenziali,&nbsp;camion, Formula Uno, prototipi e macchine da rally. Sempre cogliendo nel&nbsp;segno e dando un segnale di carattere, originalit&agrave; e spessore.&nbsp;Lancia in Formula Uno &egrave; sinonimo della leggendaria D50 a serbatoi&nbsp;laterali, nata, cresciuta e ammirata per una manciata di Gran Premi tra il&nbsp;1954 e il 1955, prima di finire vittima dell&rsquo;addio alle corse della Casa e&nbsp;per questo ceduta alla Ferrari nei suoi esemplari costruiti. Per&nbsp;trasformarsi e riconverstirsi in creatura del Cavallino Rampante, capace&nbsp;di vincere il mondiale Piloti 1956 con Juan-Manuel Fangio, nel suo unico&nbsp;anno di permanenza a Maranello.  Ma Lancia &egrave; anche e soprattutto sinonimo di rally e sfide e vittorie&nbsp;epiche in tutti gli angoli del Pianeta. Se Alberto Ascari con la D50 aveva&nbsp;sperimentato financo la navigazione marittima nel porto di Montecarlo, con&nbsp;le Lancia nei rally si va dalle nevi alle savane, alle meteore greche fino&nbsp;ai salti finlandesi attraversando gli asfalti della Corsica e i percorsi&nbsp;misti del Sanremo che fu, fino all&rsquo;epopea africana, la vittoria sempre&nbsp;negata al Safari e infine colta e ripetuta dal grande Biasion, con la&nbsp;Delta Gruppo A.  Lancia, diciamolo, &egrave; tante cose. Di forma e sostanza. &Egrave; il richiamo&nbsp;romantico della Fulvia di Munari al Montecarlo 1972,&nbsp;ma anche l&rsquo;avvento&nbsp;della Stratos, la belva nata per vincere, che cambia letteralmente la&nbsp;storia delle competizioni a note navigate, esplodendo in faccia e nel&nbsp;cuore ai race fans di tutto il mondo con la sua eterna linea&nbsp;ininvecchiabile, innamorante e vasocostrittrice: perch&eacute; da inizio Anni &rsquo;70&nbsp;a oggi, quando vedi una Stratos in Tv, sul telefono, o, rarissimamente per strada, se hai almeno un bicchiere di sangue nelle vene, si alza la&nbsp;pressione, il cuore ti manca un colpo e provi emozione, punto.  Si dice che perfino alla 24 Ore di Daytona e alla 12 Ore di Sebring dei&nbsp;Seventies, quando il privato Anatoly Arutunoff schierava la sua Stratos&nbsp;assolutamente indipendente e priva di supporto, quindi senza alcuna&nbsp;possibilit&agrave; di ben figurare e certa d&rsquo;essere innocua pluridoppiata nelle&nbsp;notti della Florida, i race fans la festeggiassero a ogni passaggio a&nbsp;bordo pista, dando vita comunque una deliziosa festa mobile per occhi e&nbsp;orecchie.  E la 037? Due sole ruote motrici contro la sempre pi&ugrave; imperante trazione integrale dell&rsquo;Audi, ma cosa importa, quando una vettura sa essere inno di italianit&agrave;, potenza, gestione geniale e trionfi a raffica?  Okay, Munari, Alen, Rohrl, Biasion, magari pure &ldquo;Tony&rdquo; con quel successo&nbsp;proprio da privato al Sanremo 1979, ma pure Darniche non scherza in salsa&nbsp;Chardonnet... Potremmo dirne tante, leggerne infinite di note dolci per&nbsp;suonare questo violino, ma c&rsquo;&egrave; un nome e pure un cognome che tutto&nbsp;assomma, tanto spiega e ogni cosa incarna, ovvero Cesare Fiorio.  Il Grande Cesare. Perch&eacute; molto, anche se non tutto, in Lancia, trae linfa e motivazioni dal suo impeto infinito d&rsquo;agitatore d&rsquo;uomini, d&rsquo;avvelenatore mentale d&rsquo;avversari e dal battitore di piste prima inesplorate. Da pioniere tattico di comunicazioni, strategie, alchimie, pieghe&nbsp;regolamentari e scelte stretegiche. Con un genio vivissimo, creativo,&nbsp;ottimizzante mezzi e budget ma anche culturalmente e meravigliosamente&nbsp;italiano. Nostro. Nostrissimo.  S&igrave;, per la sostanza tecnica, le caratteristiche, il motore Ferrari per la&nbsp;Stratos, il Volumex per la 037, le esasperazioni terrificanti della S4&nbsp;Gruppo B e il ritorno al rallismo dal volto umano con la Delta nelle sue&nbsp;molteplici versioni, a portare a casa una mitragliata impressionante di&nbsp;titoli mondiali, senza trascurare neanche le stordenti Ecv e Ecv2, attrici&nbsp;mai tifate e non sfreccianti del mai nato Gruppo S...  A latere la mini-saga endurance, con l&rsquo;arrivo della Lancia Beta Montecarlo&nbsp;a fine Anni &rsquo;70 che dapprima fa bingo nella categoria minore e poi con&nbsp;furbe scorribande, disturbando la Porsche nella classe di pi&ugrave; alta&nbsp;cilindrata, coglie la chance di andare a vincere e rivincere il mondiale&nbsp;endurance, riuscendo anche a far suo il campionato tedesco sport con Hans&nbsp;Heyer, col cappellino alla tirolese.  Prestando il fianco all&rsquo;arrivo della Lc1 Gruppo 6 nel 1982 e quindi della&nbsp;Lc2 fino a Le Mans 1986, a dare un segnale di vitalit&agrave; e anche un senso&nbsp;all&rsquo;intera categoria delle corse di durata, finendo per ingaggiare il&nbsp;veterano Bob Wollek accanto alla pattuglia degli italiani&nbsp;neoprofessionisti lodevolmente e meravigliosamente allevati da Fiorio&nbsp;medesimo, tra i quali brillano Alboreto, Patrese, Fabi, Martini, Nannini,&nbsp;De Cesaris, Ghinzani, Gabbiani e Barilla.  LEGGI ANCHE:&nbsp;Clamoroso torna la Lancia Delta nel Mondiale Rallycross  Dai, Lancia non &egrave; solo un marchio, ma il nome attribuito a un modo&nbsp;bellissimo d&rsquo;esercitare passione, talento e italianit&agrave; nelle competizioni&nbsp;pi&ugrave; estreme e affascinanti, con le livree pi&ugrave; belle mai viste nel mondo&nbsp;delle corse, prime su tutte quelle Alitalia e Martini. E, poche storie, il punto, nei decenni, non &egrave; pi&ugrave; solo questo ed &egrave;&nbsp;diventato un altro.  Da tre decadi Lancia &egrave; anche il nome e il sinonimo che gli sportivi pi&ugrave; duri e puri danno al dolore che d&agrave; la nostalgia. A quella mal&igrave;a pungente&nbsp;che assale pensando a cosa sono - e soprattutto a cosa non sono pi&ugrave; - ora&nbsp;i rally, anche a causa della perdurante, ammorbante e dolorosa assenza&nbsp;della Lancia.  Marchio che - da inno alla presenza, all&rsquo;attacco, allo spirito e&nbsp;all&rsquo;energia dirompente e dionisiaca applicata alle corse - &egrave; diventato&nbsp;progressivamente un grido strozzato di assenza, di mancanza, di vuoto&nbsp;rimpianto. Parliamoci chiaro, le corse non devono e non possono&nbsp;sopportarte ancora per molto il cratere mortifero che la Lancia ha&nbsp;lasciato volando via chiss&agrave; dove.  In un mondo delle corse in cui gli scenari sono sempre pi&ugrave; addomesticati, i tracciati amputati e le sfide rese meno odissea e pi&ugrave; reality show,&nbsp;s&rsquo;avverte un disperato bisogno di tracce antiche di credibilit&agrave;, di&nbsp;ricorso a nomi laicamente divini in grado di far tornare magia e&nbsp;sospensione d&rsquo;incredulit&agrave; tutte le volte in cui s&rsquo;accenna a un duello, a&nbsp;un campione o al suo bolide.  La Ferrari sta tornando nell&rsquo;endurance e questo &egrave; un gran bene, perch&eacute; cos&igrave; facendo viene a colmarsi una lacuna parallela e non pi&ugrave; sopportabile. Gi&agrave;, &egrave; proprio questo il centro della questione. Ora il processo di rinascita, di ricongiunzione e di ricreazione&nbsp;d&rsquo;un&rsquo;epicit&agrave; condivisa non pu&ograve; non interessare anche il nome Lancia.&nbsp;Lancia da sempre significa - guardando a ritroso a come e a dove se n&rsquo;&egrave;&nbsp;andata -, storie spezzate, lasciate malinconicamente l&igrave;, vicende d&rsquo;amore&nbsp;finite che andavano bene, alla grande e non certo male.  E quando le storie d&rsquo;amore finiscono mentre stavano trionfando, poi si&nbsp;fanno ricordare per sempre con inguaribile rimpianto, ecco. E allora, ci risiamo, vero, vecchi, inguaribili e ultimi romantici?  La verit&agrave; &egrave; che non solo gli italiani e i race fans ne hanno torturante bisogno, di questo ritorno, ma tutto il mondo delle corse. Perch&eacute;&nbsp;qualunque rally in ogni parte del mondo &egrave; pronto a tornare appetibile,&nbsp;bello e indimenticabile, a patto che ci sia una Lancia in controsterzo&nbsp;pronta a fare la sua parte.  Bottas: &quot;Pi&ugrave; sereno da quando ho firmato con l&#39;Alfa Romeo&quot; 

L&rsquo;assenza dolorosa e ripetuta della Casa italiana dalla disciplina dei traversi non &egrave; pi&ugrave; n&eacute; prorogabile n&eacute; sopportabile!

Se c&rsquo;&egrave; un dio dei rally, la Lancia deve tornare!

Altro che Ferrari contro tutte le altre. Macch&eacute;, la faccenda stavolta si pone in maniera completamente diversa, perch&eacute; le sottotrame del Cavallino quest&rsquo;anno appaiono intriganti tanto quanto il solito, trito e ritrito tema principale, ossia Ferrari vs Mercedes. Dai, c&rsquo;&egrave; ben altro sotto la buccia, a livello intracuteneo, tanto da risultare addirittura emozionante e allo stesso tempo ansiogeno, perch&eacute; quella tra il capitano di lungo corso Sebastian Vettel e il neopromosso Charles Leclerc si presenta come una convivenza cortese, tra due ragazzi simpatici separati da dieci anni d&rsquo;et&agrave; e da due situazioni che pi&ugrave; diverse non potrebbero essere.  Ma questo &egrave; niente. Anzi, ce lo lasciamo per la fine. Perch&eacute; l&rsquo;emozionante, l&rsquo;esaltante e l&rsquo;attesissimo confronto s&rsquo;annida addirittura all&rsquo;interno di ciascun alfiere della Ferrari. Laddove Vettel si misurer&agrave; e combatter&agrave; anzitutto contro una certa idea di Vettel e parimenti Leclerc dovr&agrave; fare i conti contro una particolare accezione di Leclerc. Ma cominciamo da Sebastian, per scaldare l&rsquo;aria. Il gi&agrave; tetracampeao Red Bull &egrave; alla fatidica quinta stagione in Ferrari. Attenzione, alla quinta annata con la Rossa, Schumi colse il primo fatidico titolo piloti, contando che l&rsquo;anno prima era arrivato il mondiale Costruttori e sarebbe giunto senz&rsquo;altro pure quello conduttori, se un&rsquo;avaria al freno non l&rsquo;avesse fatto andar dritto alla Stowe, a Silverstone 1999, fregandogli gamba e iride.  Tutto questo per dire che se Vettel vuol fare vedere d&rsquo;essere ancora una specie di salvatore rossovestito, &egrave; adesso che deve cominciare improrogabilmente a dimostrarlo coi fatti, punto. Gi&agrave;, ma il punto medesimo &egrave; un altro. Vettel quale? Quello dei primi anni in Ferrari, che sembrava un fenomeno, un fuoriclasse in paziente attesa di avere per le mani un ferro decentemente competitivo per tutto l&rsquo;arco del campionato, o quello del 2018, da Baku in poi pasticcione, impreciso, emotivo e troppo spesso inefficace? In altre parole lo scorso anno a un certo punto, a inizio settembre, scrissi che il peggior nemico di Vettel non era mica Hamilton ma Vettel stesso.  Cosa che lui, subito dopo, disse in conferenza stampa. Ora siamo a un&rsquo;evoluzione di quella situazione, perch&eacute; in ballo c&rsquo;&egrave; anche, vicino al Vettel-buono, il Vettel-cattivo, il doppelg&auml;nger, il sosia perfido che in pista ha fretta, a volte s&rsquo;impapera e fa qualche casino. Ecco, quale dei due scender&agrave; nell&rsquo;agone per la stagione 2019? Di certo, la sfida per stabilire la prevalenza tra i due Vettel &egrave; quella pi&ugrave; psichicamente vibrante di questo mondiale, perch&eacute; da questa specie di spareggio interno tanto dipende nell&rsquo;ottica del confronto diretto con la Mercedes e la sua punta di lancia Lewis Hamilton. Poi c&rsquo;&egrave; il discorso anagrafico. Seb ha trentadue anni. Pochissimi per essere bollito ma se perde contro se stesso diventano troppi per tramutarsi in leggenda. In altre parole, il tedesco &egrave; a un bivio terribile nella sua carriera. Se non riesce a rigettare via la sua parte vulnerabile, &egrave; fregato contro Hamilton e pu&ograve; andare in difficolt&agrave; nel confronto con Leclerc. E a quel punto, direbbe Raul Casadei, Ciao Mare.  Se andiamo a vedere il profilo e la situazione di Charles Leclerc, i bar di pressione psicologica interna calano, ma non poi di cos&igrave; tanto. Anche Charles - il quale, detto per inciso, ha tutto per essere stimato e apprezzato perch&eacute; ragazzo molto intelligente, di personalit&agrave; e anche con una certa filigrana di decisa e belloccia dolcezza che proprio non guasta -, s&igrave;, perfino il monegasco deve sfidare se stesso, un altro doppio infido, la proiezione fastidiosa di un&rsquo;idea scomoda di Charles Leclerc medesimo che va fugata e spazzata via prima possibile.  Quale? Andiamo con ordine e facciamo un altro ragionamento, per capire come di Charles a oggi esistano due possibili interpretazioni ologrammatiche. Da una parte c&rsquo;&egrave; il ragazzo sensazionalmente veloce, efficacissimo e travolgente in pista, capace di spazzare via tutti e subito in Gp3 e in F.2, salvo poi confermarsi bravissimo al debutto nel mondiale con l&rsquo;Alfa-Sauber, peraltro sempre pi&ugrave; nel corso della stagione monoposto ideale per fare belle figure, vista la crescita costante e il rendimento in crescendo. Ecco, se ci avete fatto caso, da anni Leclerc fa grandissime cose dimostrandosi stupefacente, ma &egrave; anche vero che in passato vincere in Gp3 e in F.3000, Gp2 o F.2, in formula cadetta, insomma, proprio non ti portava da nessuna parte. Non garantiva che t&rsquo;avrebbero notato e dato una chance.  Charles Leclerc, invece, la Ferrari di F.1 l&rsquo;ha provata per la prima volta ufficialmente nel luglio 2016 a Silverstone, da pupo della Academy, quando ancora aveva addirittura solo diciotto anni e correva in Gp3. A un&rsquo;et&agrave; nella quale di solito a Maranello non ti fanno toccare neanche la cancellata d&rsquo;ingresso, altro che la F.1. In altre parole, la domanda &egrave; semplice: quanto ha contato, oltre al suo indubbio, comprovato e indiscusso talento, per salire in fretta i gradini che portano all&rsquo;abitacolo di titolare della Rossa, oltre all&rsquo;immensa stima di Sergio Marchionne, anche l&rsquo;avvedutissima gestione di Nicolas Todt, figlio di Jean e titolare della gloriosa e premiata ditta All Road Management (ARM)? Discorso semplice, quindi: Leclerc &egrave; allo stesso tempo un ragazzo fortissimo, favoloso al volante e, parallelamente, non a caso - diciamo pure proprio per questo meritocraticamente - ben simpatico a certi poteri forti. In fondo il bravo Nicolas nelle corse &egrave;, come dire, il figlio del preside, no?  Quindi, tirando le righe e andando alle somme, lo stesso Charles deve - e sinceramente pu&ograve;, perch&eacute; i numeri li ha e le qualit&agrave; le possiede tutte, ma proprio tutte - dimostrare d&rsquo;essere altolocato negli schieramenti quanto altolocato di certo &egrave; chi ne cura la carriera. A rendere pi&ugrave; sbilanciata l&rsquo;analisi, tanto vale aggiungere anche un pronostico, tanto per far capire che su Charles crede anche Autosprint, eccome. La sensazione &egrave; che il baby monegasco potr&agrave; fare grandi cose, tanto da non far affatto rimpiangere il pi&ugrave; amatissimo e ancora fresco race winner Kimi Raikkonen. E ben presto potrebbe diventare un possibile beniamino del pubblico Rosso e non solo quello. Ma attenzione, la posta in palio &egrave; alta &egrave; l&rsquo;idea laterale di Leclerc-aiutato contro la quale il Leclerc-sensazionale dovr&agrave; anzitutto combattere si promette comunque almeno all&rsquo;inizio fastidiosa. Pertanto, ti inviamo un fortissimo, trascinante e torrenziale in bocca al lupo, gar&ccedil;on. Anche perch&eacute; - leggendolo sotto un&rsquo;altra lente d&rsquo;ingrandimento, pi&ugrave; romantica ma comunque attendibile -, Leclerc &egrave; finalmente il ragazzo allevato dalla Rossa, come ai bei tempi di Enzo Ferrari, il quale amava scommettere su giovani virgulti venuti praticamente - ma meritocraticamente - quasi dal nulla. Anche in questo caso, comunque la si interpreti, vietato sbagliare, guai deludere, compatibilmente e relativamente, ovvio, alla competitivit&agrave; del mezzo a disposizione.  Tutti sono concordi su di un punto: per Seb Vettel, Charles Leclerc in pista, a partire dal giro secco e culminando nelle situazioni gara, sar&agrave; ben pi&ugrave; ostico e coriaceo di Kimi Raikkonen, parlandone da ferrarista. Quando, quanto e come, si vedr&agrave;. Di certo, Seb non pu&ograve; permettersi di farsi schiacciare la punta del naso frequentemente dal baby, come si diceva. E lo stesso cucciolo non contempla uno scenario in cui &egrave; relegato al ruolo di seconda guida regolarmente battuta, gestita e addomesticata. Quale sar&agrave; poi la realt&agrave;, &egrave; fin da ora stuzzicantissimo tentarlo d&rsquo;indovinare. Di certo questo &egrave; uno dei primi anni da tanto a questa parte in cui si punter&agrave; la sveglia del Gp d&rsquo;Australia col dubbio di chi sar&agrave; il ferrarista pi&ugrave; veloce incuriosente tanto quanto il nome del futuro vincitore assoluto.  Se poi dovessero coincidere, apriti cielo, stavolta verrebbe gi&ugrave; il teatro. In altre parole, il cartello del torneo F.1 2019 prima ancora che una finalissima contro Hamilton e la Mercedes, vede in Ferrari non meno che tre spareggi interni: Vettel contro Vettel che affronter&agrave; il vincente di Leclerc contro Leclerc, in un&rsquo;annata mai cos&igrave; lunga, intensa e logorante ma proprio per questo sulla carta straordinariamente esaltante nei contenuti, tecnici, psicologici e squisitamente umani.  Non sembra solo un mondiale di F.1, questo del 2019, ma un vero e proprio tritacarne spirituale. Altra particolarit&agrave;, questa, che rende ancora pi&ugrave; motivante il compito in plancia di comando di Mattia Binotto, che di titolari in squadra di fatto ne avr&agrave; quattro, col primo target di far salire in macchina il Vettel migliore e il Leclerc stupendo che tutti conosciamo, lasciando a piedi le rispettive proiezioni, il Seb 2018 e un Charles simpatico ai potenti, dimostrando una volta per tutte che appartengono solo al mondo dei timori, dei rumors maliziosi quanto orrendi e delle paure infondate. In ogni caso, muoversi in una gradazione del genere, tra pressione e temperatura, in questa F.1 per la Rossa sar&agrave; come correre dentro un altoforno. E comunque vada, ci sar&agrave; da soffrire. Mica poco. La scelta non offre requie o cose facili, bisogna metterci l&rsquo;anima e sopportare di farsela graffiare. Per vincere o bevi o affoghi. I grandi romanzieri la chiamano l&rsquo;alternativa del diavolo 

In casa Ferrari ci si prepara al lancio della nuova monoposto di F.1, con i piloti ben concentrati su una sfida mai cos&igrave; difficile e entusiasmante. Ecco le implicazioni di ciascuno

La grande sfida di Leclerc e Vettel

Volevo andare per un attimo oltre la cover che dipinge la prossima 24 Ore di Daytona - peraltro giustamente -, come il grande assalto di Fernando Alonso alla vittoria all&rsquo;interno del team di Wayne Taylor, grazie anche a una Cadillac e un equipaggio di prim&rsquo;ordine. In effetti sar&agrave; bello vedere Nando lottare con un altro ex di F.1 Christian Fittipaldi - pure lui al volante di una Cadillac ma schierata da Action Express -, che cerca il poker nella maratona&nbsp;in quella che sar&agrave; l&rsquo;ultima gara della sua carriera. Poi ovvio, in GTLM, dove punta al bersaglio grosso la Ferrari di Risi Competizione, la vera guest star &egrave; il nostro Alessandro Zanardi al volante di una Bmw M8 ufficiale.   Eppure, al di l&agrave; dei pronostici sempre difficili, c&rsquo;&egrave; anche un altra chiave di lettura per questa maratona - prevista da sabato 26 gennaio a domenica 27 -, comunque vada a finire.  Perch&eacute; a ben guardare, tre delle marche di prototipi pi&ugrave; all&rsquo;attacco vedono coinvolti altrettanti boss ultraottantenni: l&rsquo;ingegnere Giampaolo Dallara, classe 1936, la cui factory di fatto realizza le Dpi marchiate Cadillac che da due stagioni si aggiudicano l&rsquo;assoluta, quindi Reinhold Joest, classe 1938, la cui Mazda ha fatto segnare il miglior tempo assoluto nella Roar Before, e infine Roger Penske, il leggendario Capitano dell&rsquo;automobilismo Usa, classe 1937, che vuole gustarsi le sue Acura in pista, dotate di una bella e evocativa livrea vintage.  Tra l&rsquo;altro mica &egrave; scritto da nessuna parte che sar&agrave; una delle loro vetture a vincere, ma sta di fatto che alla vigilia sono le loro creature a suscitare pi&ugrave; interesse e aspettative delle altre. Poi si vedr&agrave;.  Intanto colpisce che personaggi cos&igrave; leggendari, dotati di storie agonistiche tanto diverse e variegate e accomunati dal fatto di non aver fortunatamente pi&ugrave; nulla da dimostrare, continuino per pura passione a prendere parte al gioco che pi&ugrave; ha caratterizzato le loro intensissime vite agonistiche. Cos&igrave; in un motorsport di piloti sempre pi&ugrave; giovani, nell&rsquo;era del baby boom, dell&rsquo;elettronica e delle simulazioni sempre pi&ugrave; fantascientificamente reali, da Daytona arriva un segnale in controtendenza, retr&ograve;, genuino e ricco di autenticit&agrave;.   Tre tra i pi&ugrave; grandi personaggi dell&rsquo;automobilismo moderno, ciascuno col suo fiero cipiglio, sono l&igrave;, pronti a vivere un fine settimana speciale, cercando la vittoria e come minimo trovando un&rsquo;altra occasione di piacere, l&rsquo;ennesima, sulla scia di vicende motoristiche apparentemente senza fine. Dallara, Joest e Penske: tre storie solide, antiche e prestigiose, che nella notte immensa di Daytona promettono di sublimarsi ancora una volta in un&rsquo;unica, ammaliante poesia. 

Cadillac by Dallara, Mazda e Acura in lotta per l&rsquo;attesa 24 Ore della Florida, ossia l&rsquo;ingegnere parmense contro Reinhold Joest e Roger Penske: 243 anni d&rsquo;et&agrave; in tutto!

Daytona, &egrave; sfida tra ultraottantenni!

E alla fine il mezzo miracolo &egrave; avvenuto. Decine e decine di appassionati in fila per entrare all&#39;inaugurazione della mostra fotografica dedicata ad Ayrton Senna, &quot;Simply the best&quot;, nel pomeriggio di domenica 16 dicembre a Castel San Pietro, in provincia di Bologna.  Per gustare circa 80 scatti preziosi, la maggior parte dei quali a oggi inediti, raffiguranti altrettanti ritratti del campionissimo brasiliano che sembra rivivere tridimensionalmente nelle sue espressioni pi&ugrave; intense ovvero casuali e quotidianamente tali da riproporlo affascinante e nello stesso tempo tremendamente e dolcemente vicino. E gli appassionati hanno risposto da subito, stanno rispondendo e risponderanno al richiamo delle opere di Angelo Orsi e Mirco Lazzari, entrambi storici fotografi di Autosprint, con Angelone in grado di rappresentare un punto di riferimento e anche il compagno ideale e complementare per Mirco, nel tracciare un percorso dedicato a Senna che tocca i momenti principali della carriera e soprattutto l&#39;intimo, le sensazioni e le emozioni pi&ugrave; che i prodigi di guida.  Un taglio che ha suscitato da subito lo stupore e l&#39;entusiasmo dei visitatori mettendo al primo piano il feeling istintivo e il sentimento puro, il tutto riportando Angelo Orsi nel ruolo che gli spetta di amico vero di Ayrton Senna e di profondo conoscitore delle vicende sportive e umane del campionissimo brasiliano.  Insieme a loro domenica si sono ritrovati ad accogliere il pubblico subito dopo il taglio del nastro avvenuto alla presenza del Sindaco di Castel San Pietro, Gian Carlo Minardi, ex Costruttore di F.1, il vignettista Matitaccia, il direttore dell&#39;autodromo di Imola Roberto Marazzi e il dottor Domenico Salcito, medico che prest&ograve; i primi soccorsi allo sfortunato pilota nel primo pomeriggio del 1. maggio 1994, prendendo atto della situazione ormai compromessa.  I due reporter si ritrovano quindi per una rassegna che celebra stupendamente &ldquo;Beco&rdquo; proprio in vista dell&rsquo;entrata del 2019, anno nel quale cadr&agrave; il venticinquennale dalla scomparsa. Un bell&rsquo;omaggio anche rispettoso dei trascorsi di Ayrton, che nei giorni dei test e nei weekend dei gloriosi Gp imolesi amava soggiornare proprio a Castel San Pietro. La rassegna, supportata dalla locale amministrazione comunale, si tiene appunto a Castel San Pietro presso la sala d&rsquo;arte contemporanea sita in via Giacomo Matteotti, al numero civico 79.  Il 19 dicembre, mercoled&igrave;, &egrave; previsto un incontro con gli autori presso la sede dell&rsquo;iniziativa, alle ore 20,30. La mostra &egrave; aperta tutti i giorni dalle 16,30 alle 19,00, eccetto le date del 24 dicembre e del 1&deg; gennaio. La durata si protrarr&agrave; fino al giorno 31 gennaio 2019. A giudicare dall&#39;avvio, la mostra &egrave; destinata a registrare un afflusso ben al di l&agrave; delle comunque ottimistiche previsioni e il muro sul quale i visitatori sono chiamati a lasciare la propria firma accanto a un bellissimo ritratto di Ayrton rischia di dover essere oggetto di un felice ampliamento.  In ogni caso, domenica pomeriggio si &egrave; avuta una visione rarissima, data da un numero incredibile di race fan italiani ordinatamente e appassionatamente in fila per entrare in una mostra. Anche di questo e per questo va reso grazie fin da ora a Angelo Orsi, a Mirco Lazzari e al loro talento cos&igrave; felicemente espresso. 

La rassegna fotografica letteralmente presa d&#39;assalto dai fans di Senna e non solo

Fa&nbsp; il pienone la mostra su Ayrton di Orsi e Lazzari

Non &egrave; un bel periodo per Fernando Alonso. Dopo aver annunciato il suo ritiro dalla F.1 a fine anno, lo spagnolo pur vincendo la prova del Wec di Silverstone con Buemi e Nakajima, &egrave; stato tolto di classifica nelle verifiche del dopo gara. In altre parole, a parte i trionfi a Spa e soprattutto a Le Mans, non &egrave; che le cose gli stiano andando cos&igrave; bene. Ed &egrave; un vero peccato, perch&eacute; la sua classe &egrave; intatta e anche in F.1, con un ferro giusto in mano, potrebbe ancora competere al top. Eppure la sua recentissima, annunciata e ufficializzata uscita di scena dopo 17 stagioni di corse nei Gp - una in meno di Graham Hill -, non ha niente a che vedere con l&rsquo;anzianit&agrave; di servizio o il logorio della vita di top driver, che comunque dal 2019 andr&agrave; in caccia della Indy 500 e della leggendaria Tripla Corona.&nbsp; No, la fuga dalla F.1 &egrave; una semplice risultanza della totale assenza della prospettiva di riavere in tempi ragionevoli una macchina vincente, essendo le sue chance nulle coi tre team di alto rango, ossia Mercedes, Ferrari e Red Bull. Certo, qualche colpa ce l&rsquo;ha pure lui, peggio, se l&rsquo;&egrave; andata un po&rsquo; a cercare, perch&eacute; negli anni s&rsquo;&egrave; dimostrato a pi&ugrave; riprese individualista, ben poco conciliante e non proprio votato al concetto di squadra e collettivo. Ma questo &egrave; solo un aspetto della questione, ben pi&ugrave; complessa e illuminante non solo sul carattere dello spagnolo ma soprattutto sulle dinamiche discutibili di selezione della Formula Uno di oggi, che peraltro non riguardano mica solo lui. Su, diciamocelo serenamente: il Circus ha, anzi, aveva o avrebbe a disposizione due personaggi con storie assolutamente uniche e con una caratura umana e psicologica da urlo, tali da fare la felicit&agrave; di qualsiasi media management: Fernando Alonso e Robert Kubica. Attenzione, non importa quanto siano competitivi o in grado o meno di vincere titoli. Quel che conta, &egrave; che due cos&igrave; sulla macchina giusta sono in grado di raccontare leggende in diretta e di creare attenzione, tensione e battage pi&ugrave; di qualsiasi Drs o genialata regolamentare astrusa. Invece no. Alonso &egrave; stato messo in condizioni d&rsquo;andarsene e Kubica da oltre un anno non viene posto nelle condizioni d&rsquo;entrare davvero. Perch&eacute; Nando ha la carriera bruciata dai leader del team vincenti che al fianco vogliono solo degli assistman, mentre Robert a oggi ha avuto le porte sbarrate soprattutto perch&eacute;, specie alla Williams, c&rsquo;&egrave; gente che paga meglio e pi&ugrave; di lui. Gregari semibolliti, trottapiano sborsanti, figure sbiadite ovvero raccomandate: dietro rarissimi campioni e ottimi piloti in crescita qualche falla da cui far rientrare per benino lo spagnolo e il polacco ci sarebbe, ma il sistema se ne frega. E cos&igrave; le due vicende umane pi&ugrave; belle del mazzo, salvo miracoli, sono gi&agrave; nell&rsquo;archivio della Storia o quasi. Guardandosi attorno e pescando indietro c&rsquo;&egrave; da provare tanto rimpianto per microcivilt&agrave; agonistiche assai pi&ugrave; a misura d&rsquo;uomo di questo turbo-ibrido Circus, quali la F.1 Anni &rsquo;60 e la IndyCar Anni &rsquo;70. I Gp erano strapieni di gente over 35 che aveva litigato con mezzo mondo o dal carattere difficile, quasi impossibile, eppure le maglie selettive erano cos&igrave; larghe da permettere di proliferare a orsi tipo Jack Brabham o Denis Hulme, ovvero a tipini di classe ma belli rognosetti quali John Surtees. Poi, se uno faceva fatica a stare in un team e ad assoggettarsi, poteva pur sempre costruirsela, la sua F.1 vincente. E pure nella IndyCar Anni &rsquo;70 v&rsquo;era gente che rischiava una mezza scazzottata tutti i giorni, con Andretti, i fratelli Unser, Rutherford, Johncock, Sneva e Foyt che aveva promesso botte a mezzo mondo e che poteva correre dai trenta in su solo per conto suo, con l&rsquo;autocostruita Coyote. Ma il sistema permetteva pure a tutti loro una chance infinita, indipendentemente dalla presunta insopportabilit&agrave; dei caratteri. Ecco il vero problema. La F.1 delle macchine sciape e finte, macina e eietta gli Uomini Veri. Non perch&eacute; siano lenti, ma perch&eacute; sono scomodi.&nbsp; Non servono. Impicciano. Intralciano l&rsquo;ordine sovrano. Come in ufficio, a scuola, in fabbrica e in ogni dove, chi sa tacere, calcola e lecca, serve.&nbsp; Va, vale e dura di pi&ugrave; di chi pensa e ragiona di testa sua. Peccato. Peccato sul serio. Alonso che se ne va dalla F.1 non &egrave; il solito campione che vicino ai quaranta pensa alla famiglia o alla salute. No, sul piano tattico-esistenziale siamo di fronte all&rsquo;esecuzione sommaria in chiave sportiva - anzi, antisportiva -, di uno ritenuto fortissimo ma rompicoglioni assai. Ed &egrave; cos&igrave; che questa Formula Uno privata da Matador non &egrave; pi&ugrave; bella n&eacute; pi&ugrave; brutta di prima nella lotta per l&rsquo;iride, ma complessivamente somiglia sempre pi&ugrave; a un posto di lavoro qualsiasi, coi suoi criteri selettivi, normalizzatori e autoregolanti, decisamente burocratici e malinconici. Magari Alonso e Kubica sono bolliti e del tutto e inutili - ammettiamolo per assurdo e mero esempio di scuola - ma una F.1 che mette in condizioni due cos&igrave; di starsene o finire ai margini, lass&ugrave; in tribuna, insieme a mio zio Raniero, ha ben poco da stare allegra. E se oltre a ritrovare il lume della ragione un bel giorno ritrova pure se stessa, di certo fa un brutto incontro.  &nbsp; 

Al di l&agrave; del suo carattere non facile, lo spagnolo non meritava un benservito del genere dalla F.1. Sui cui criteri di selezione ci sarebbe, anzi, c&rsquo;&egrave;, molto da dire...

In difesa di Fernando Alonso

Lewis Hamilton ha trentatr&eacute; anni e mezzo, quattro titoli mondiali in pancia e 67 Gran Premi iridati vinti. Comanda la classifica mondiale con buone e ragionevoli possibilit&agrave; di vincere il quinto titolo, raggiungendo Juan-Manuel Fangio, a un livello fino a tre lustri orsono ritenuto pressoch&eacute; ineguagliabile. Poi nel mirino pu&ograve; esserci solo sua maest&agrave; Michael Schumacher, con sette. Di pi&ugrave;. Tre settimane fa ha rinnovato con la Mercedes fino al 2020, quindi, in un panorama tecnico-politico-agonistico-regolamentare all&rsquo;insegna della stabilit&agrave; turbo-ibrida rettificata, Lewis ha la certezza di poter contare su un supertop team e di disporre di materiale vincente fino a trentacinque anni d&rsquo;et&agrave;. Anche se per lui l&rsquo;offerta non finisce mai perch&eacute; poi magari l&rsquo;attende una mega-proposta per finire la carriera in Ferrari, da LH44 che diventa il CR7 della F.1 in chiave tricolore.  &nbsp;  In poche parole, come Fangio - e a differenza di Schumi all&rsquo;arrivo in Ferrari - potr&agrave; disporre di materiale vincente per tutta la carriera. In altre e poche parole, Lewis Hamilton sta svoltando. Da campioncino giovane, sensazionale e sorprendente, a stella di prima grandezza nel firmamento del Motorsport e semidio della F.1. Spostando cos&igrave; il piano di riscontro e individuando un target di valore assoluto e epocale: assommare in carriera pi&ugrave; vittorie di chiunque altro, sia a livello di titoli che nei Gran Premi. Per diversi buoni motivi, validi pi&ugrave; adesso che mai.  &nbsp;  Primo, &egrave; il pi&ugrave; grande pole-sitter della storia. Nella F.1 moderna del dopo Senna (Ayrton lasciamolo stare) nessuno s&rsquo;&egrave; mai dimostrato pi&ugrave; perfetto e letale di lui, sul giro secco.  &nbsp;  Secondo, &egrave; il pi&ugrave; grande sorpassatore della sua generazione. E ben al di l&agrave; di Drs, undercut e cineserie del genere: pi&ugrave; semplicemente, Lewis resta uno staccatore formidabile, che ha in Daniel Ricciardo, presumibilimente, il suo pi&ugrave; grande e meritorio concorrente specifico, anche se l&rsquo;australiano non &egrave; mai stato follemente imbattibile in qualifica.  &nbsp;  Terzo, Lewis sul bagnato ora &egrave; re incontrastato. Solo vedere come ha asfaltato i rivali a Hockenheim - dove Vettel &egrave; saltato tristemente alla Sachs -, girando due secondi e mezzo al giro pi&ugrave; veloce dei rivali nei momenti pi&ugrave; critici su gomme inadatte, o come ha saputo approfittare dell&rsquo;acqua in Q3 all&rsquo;Hungaroring, sono aspetti che rafforzano una leadership morale e meritocratica che fa di lui un punto di riferimento ineludibile in questa F.1.  &nbsp;  Quarto, l&rsquo;anglo-caraibico ha colmato quella che sembrava poter essere la sua sola lacuna o, a conti fatti, l&rsquo;unico teorico punto debole: una certa vulnerabilit&agrave; in fase di partenza, che l&rsquo;aveva reso attaccabile, per esempio, dal compagno Nico Rosberg, nell&rsquo;ultima parte della convivenza in squadra col tedesco.  &nbsp;  Quindi, Lewis Hamilton non &egrave; mai stato cos&igrave; forte come ora. Non solo fa quasi tutto bene, ma non sbaglia niente, non sbaglia pi&ugrave;. Male che gli va, nei weekend pi&ugrave; bioritmicamente bui, non ghermisce la pole e va a podio, ma nulla di peggio &egrave; possibile per lui, affidabilit&agrave; Mercedes permettendo. In altre parole, gli anni l&rsquo;hanno reso semplicemnte mostruoso nel livello di rendimento. S&igrave;, tuttora Seb Vettel &egrave; un gran brutto cliente e la Ferrari di pi&ugrave;, ma ad oggi Lewis resta il peggior avversario immaginabile che chiunque possa incontrare nella corsa iridata.  &nbsp;  Quinto, Lewis Hamilton non &egrave; mai stato cos&igrave; sereno, gioioso e psicologicamente tranquillo oltre che corazzato. Maturando, vanta una spiritualit&agrave; profonda, complessa anche se di fatto dai dosaggi e dalle implicazioni culturali e psichiche ben differenti rispetto a quella di Ayrton Senna. &ldquo;Beco&rdquo; era d&rsquo;un misticismo pi&ugrave; permeante e integralista, biblico, socialmente impegnato e quasi dolorosamente consapevole dell&rsquo;importanza esclusivizzante della fede e del rapporto con Dio, capace di sfociare in estasi mistiche e fiananco in annunciate visioni. &ldquo;Hammer&rdquo;, per parte sua sembra aver costruito una sorta di sincretismo a esoscheletro potenziato, di sensibilit&agrave; religiosa spirituale pi&ugrave; flessibile e trasversale, sorridente e a tratti volutamente gaudente. Una filosofia elastica, d&rsquo;una leggerezza e una levit&agrave; caraibica ben amalgamata con istanze giocose, modaiole, fashion victim, tattoo fan, jet set chic e da travelling star quale lui &egrave; e sar&agrave;. In poche parole, il Lewis Hamilton che esce dalla graticola del bel mezzo dell&rsquo;estate 2018 &egrave; una goiosa macchina da guerra usa a sognar tacendo, a sorridere e sviare, a vincere senza proclamare.  &nbsp;  Ma dentro di s&eacute; i target stanno mutando, crescendo, progressivamente ingigantendosi. La sua carriera sta diventando un universo Marvel a plurirealt&agrave;, all&rsquo;interno del quale in uno scenario narrativo sta lottando con Vettel per il titolo 2018 - ancora mica vinto, lo ripeto - ma nell&rsquo;altra sta gi&agrave; minacciando Fangio, strizzando l&rsquo;occhio a Schumi, a proposito dei sette titoli e dei 91 Gp vinti. In fondo uno che ne ha fatti suoi 67 e che ne vince sette-otto l&rsquo;anno di media, nel giro di tre stagioni, a Dio piacendo, potrebbe aver chiuso la pratica, riscrivendo encliclopedie, Wikipedie e libri di storia, se ancora esisteranno. E occhio, dentro di s&egrave; Lewis &egrave; molto meno cauto che nelle sue dichiarazioni mediamente misuratissime e paraculissime.  &nbsp;  L&rsquo;erculea serenit&agrave; con cui si sta cannibalescamente muovendo in questo mondiale lo dimostra. Lui ha fame di trionfi. E il languorino &egrave; inesauribile. Aver visto sfuggire due titoli, il primo da rookie nel 2007 e il secondo da veterano, nel 2016 con Rosberg, gli ha solo aumentato motivazioni e appetiti. E ora ha tutto per completare un arco narrativo globale in grado di scolpire traguardi epocali nella storia della F.1. Sar&agrave; bene esserne consapevoli. In questo strano universo d&rsquo;eroi piccoli e grandi che &egrave; la F.1, ciascuno sta lottando nel suo mondo, compenetrandosi in altri. Vettel e la Rossa vogliono onorare il ciclo Marchionne, Alonso pensa sempre pi&ugrave; alla tripla corona e Hamilton, come un Muhammad Ali semovente a 300 all&rsquo;ora, comincia a carezzare, con quieta ma vorace volitivit&agrave;, l&rsquo;idea di poter diventare numericamente Il Pi&ugrave; Grande. 

Altro che mondiale 2018, Lewis sta combattendo su pi&ugrave; universi paralleli, come un supereroe della Marvel impegnato in un&rsquo;intersezione di fronti spazio-temporali.

Hamilton &amp; l&rsquo;universo Marvel

E cos&igrave; siamo al giro di boa del mondiale, con dieci Gp disputati su ventuno. E i prossimi due appuntamenti, a una settimana l&rsquo;uno dall&rsquo;altro, particolarmente infuocati, perch&eacute; arrivano nella fase di massima tensione tra la capofila Ferrari col battistrada Vettel e i nobili inseguitori Hamilton e Mercedes.  Ma il punto &egrave; un altro. Una delle fasi pi&ugrave; tese e appassionanti dell&rsquo;apertissimo mondiale celebrer&agrave; le sue vicende, tristemente, su due dei circuiti pi&ugrave; brutti, deturpati e meno significativi dell&rsquo;intero campionato. Cio&egrave; rispettivamente il tagliatissimo e ormai insignificante Hockenheim, sede del Gp di Germania, e l&rsquo;orrendo quanto cunicolare Hungaroring, da pi&ugrave; di trent&rsquo;anni sorta di pedaggio strutturale che la F.1 deve pagare alla spinta commerciale verso Est.  Cos&igrave;, incredibilmente, la categoria che vanta pi&ugrave; proposte di nuove sedi per ospitare Gran Premi, il marchio pi&ugrave; conosciuto all&rsquo;interno dello sport, &egrave; costretto a celebrare alcuni tra i pi&ugrave; importanti, seguiti e sacrali dei suoi riti su due teatri di gara tutt&rsquo;altro che probanti e capaci d&rsquo;emozionare o, tutt&rsquo;al pi&ugrave;, di mettere in evidenza le reali capacit&agrave; di guida dei suoi protagonisti.  Macch&eacute;. Ingredienti grossolani &amp; filosofia spicciola. Quintalate di downforce, grip a go go, sudare, soffrire e pedalare. Da quando a Hockenheim &egrave; stata abolita l&rsquo;autostrada nella foresta, col raccordo strepitoso e maligno della Ostkurve, ci&ograve; che resta &egrave; la passerella del Motodrom, sorta di stadio ormai affacciato su uno squallido megakartodromo, cio&egrave;, essenzialmente, sul nulla.  Quanto all&rsquo;Hungaroring, correrci &egrave; un offesa al concetto d&rsquo;agonismo, perch&eacute; trattasi di toboga infernale, claustrofibica graticola a uso e consumo di masochisti semoventi. Pista preziosa solo per l&rsquo;apertura politico-commerciale che sottende. Praticamente un Gp di Montecarlo senza case, cose e casi e senza senso, giustificato solo dal culto danaroide di quella che gli intellettuali tedeschi in ben altri contesti definivano Drang nach Osten - in lingua italiana Spinta verso l&rsquo;Est - a indicare i movimenti e l&rsquo;espansionismo verso l&rsquo;Europa orientale. Diciamo pure che un Gran Premio all&rsquo;Hungaroring diventa bello e spettacolare solo se piove, ma ci&ograve; avviene con la stessa frequenza con la quale un tuareg ha bisogno del bagnino sul moscone. Memorabili restano comunque le due vittorie acquee di Button, nel 2006 su Honda e nel 2011 su McLaren-Mercedes.  In altre e sentite parole, i prossimi due Gran Premi sembrano tanto le corse giuste sui posti sbagliati.  Perch&eacute; mai Liberty Media non comincia a considerare l&rsquo;ipotesi di togliere dalle scatole mica tutti ma perlomeno i peggiori tra i circuiti pi&ugrave; insignificanti all&rsquo;interno di un panorama mediamente assai piatto e sconfortante? Che senso ha correre gare fondamentali su posti del genere? Allora tanto vale nello stesso weekend fare due bei garoni a Spa e due a Monza - il successivo, fantastico e credibilissimo doppio appuntamento in programma nel calendario 2018 -, allora s&igrave; che ci sarebbe da prendere del bromuro per calmare gli animi elettrizzati.  Ma ci&ograve; non sar&agrave; mai. L&rsquo;opera si canta e si celebra alla Scala e la F.1 corre troppo spesso nei sottoscala, con due tenori quali Vettel e Hamilton capacissimi di acuti indimenticabili ma costretti, in posti del genere, a cantar canzonacce sgangherate alla meno peggio. Cari di Liberty Media, regalate piste credibili alla F.1 e la F.1 vi dar&agrave; in cambio Gran Premi indimenticabili. Intanto, turiamoci naso, occhi e bocca e prepariamoci a questi due delicati weekend.  Vinca il migliore, malgrado i tracciati peggiori. 

Hockenheim e Hungaroring sono circuiti degni di Gp? Anche no. Ed &egrave; ora di fare qualcosa

F.1 da urlo su tracciati tristi. Ha senso?

Passano le ore e la vera novit&agrave; di met&agrave; stagione, quella che si proietta nel futuro prossimo del campionato, non &egrave; tanto nel risultato del Gp di Gran Bretagna - lietissimo per Vettel e la Rossa -, ma nel clima piuttosto rovente instauratosi nel post Silverstone, tra la Challenger Ferrari e la Defender&nbsp;Mercedes.  In verit&agrave; son bastate due toccate, la prima di Vettel a Bottas dopo il via a Le Castellet e la seconda di Raikkonen a Hamilton alla terza curva della gara di Silverstone - peraltro in entrambi i Gp asetticamente e dovutamente sanzionate da altretanti penalty della direzione gara -, per scatenare una vera e propria bufera mediatica semiufficiale da parte di rappresentanti della Stella a Tre Punte, a turno apparsi pi&ugrave; o meno piccatissimi.  Prima il tecnico James Allison, ex Ferrari, a Sky inglese, quindi lo stesso Hamilton nel dopo gara, sulle prime poco incline a accettare qualsiasi tentativo di chiarimenti o scuse da parte di Raikkonen - tanto che &egrave; gi&agrave; epico l&rsquo;intevento su Instagram di Minttu, moglie di Iceman, rivolta a Lewis con un bel &ldquo;Se piangi come una ragazza quando perdi, datti al balletto #tantoperdire&rdquo; -.  In ultimo, meno male, Hammer &egrave; sembrato molto pi&ugrave; sereno e pronto a archiviare la faccenda. Infine, lo stesso Toto Wolff, timoniere del team argenteo nei Gp, per una volta &egrave; parso meno brillante, signorile e gentleman del solito, anche se poi ha fatto di tutto, con intelligenza, per smentire che ci sia un accusa diretta e ufficiale d&rsquo;intenzionalit&agrave; da parte della Mercedes circa i comportamenti in pista dei piloti ferraristi, in particolare di quello di Raikkonen a Silverstone.  Meglio cos&igrave;, perch&eacute; in un campionato di ventuno gare non sar&agrave; certo una toccata all&rsquo;ottavo e al decimo Gran Premio a risultare decisiva. Al contrario, sarebbe proprio il mettere in dubbio la credibilit&agrave; del rivale a minare il fondamento stesso di una sfida peraltro a oggi tesa, vibrante e bellissima. In poche parole, il team Mercedes in questa faccenda presumibilmente e legittimamente ha qualcosa da recriminare, ma anche nulla da insegnare agli altri. A parte le frequenti intemperanze di Verstappen il quale in F.1 fa caso a s&eacute;, se c&rsquo;&egrave; stata una squadra che in pista non &egrave; riuscita a disciplinare e a tenere a freno i suoi piloti, quella &egrave; stata proprio la Mercedes. Con vari contatti rusticani tra i suoi stessi alfieri e una vera e propria odissea di volute intemperanze tra Rosberg e Hamilton, culminata col finalone di Abu Dhabi 2016, quando tra Lewis e il suo muretto ci fu una totale assenza di dialogo e una secca discordanza d&rsquo;intenti, mentre il mondiale scivolava, peraltro senza demerito, nelle mani di Nico Rosberg. Il quale, stufo del clima insostenibile nel team e pago dell&rsquo;iride in saccoccia, s&rsquo;affrettava, pochi giorni dopo, a salutare la compagnia per sempre, piantando baracca, iride e burattini.  In altre parole, Toto Wolff farebbe bene a mostrare ai suoi il secondo giro del Gp Belgio 2014, quando Rosberg attacca il compagno Hamilton al termine del rettifilo del Kemmel e la vettura del tedesco tocca la gomma posteriore sinistra dell&rsquo;inglese, forandola, mentre Nico ne esce col muso danneggiato. Niente male il harakiri di Barcellona 2016 con entrambe le Mercedes che fanno l&rsquo;autoscontro finendo la gara subito ammaccate a bordo pista, rientrando a contatto gi&agrave; in Austria, nello stesso anno (10&rdquo; di penalit&agrave; a Rosberg).  Poi l&rsquo;anno scorso si va a Baku e, pronti-via, Bottas butta a muro il ferrarista Raikkonen, mentre Hamilton - lui, gi&agrave; spettacolare investitore a fine corsia box di Raikkonen medesimo in Canada 2008, quando Kimi il Rosso sceso di macchina si limit&ograve; glaciale a indicargli il semaforo rosso - fa l&rsquo;elastico provocatore a Vettel sotto safety, che abbocca, lo tampona, parte per la tangente e gli rifila una botta laterale, a mo&rsquo; di fallo di frustrazione. Apriti cielo. Cio&egrave;, dai. Non facciamo i perfettini e i verginelli, che vergini in F.1 manco lo si &egrave; al debutto, su. Chi &egrave; senza peccato scagli il primo nolder.  Per questo Maurizio Arrivabene &egrave; stato l&igrave; l&igrave; per sbottare ai microfoni di SkySportF1 ed &egrave; per tale motivo che le polemiche inutili, il clima invivibile e l&rsquo;atmosfera di terrore da Cid - nel senso di modulo assicurativo, non di Campeador nella guerra coi mori -, non devono rovinare un mondiale sempre pi&ugrave; appassionante e incertissimo. Siamo a dieci Gp corsi su ventuno e in questo momento la sola cosa da non mettere in dubbio &egrave; la credibilit&agrave; della sfida e dei comportamenti dei principali protagonisti.  Fino a prova contraria, Kimi Raikkonen pu&ograve; avere anche delle colpe in vita sua, chiss&agrave;, ma non certo quella d&rsquo;essere provocatore, speronatore seriale in pista o pilota capace d&rsquo;andare avanti a forza di dolose fallosit&agrave;. Men che meno Vettel, che dagli autoscontri ha tutto da perdere, e la stessa Ferrari di Arrivabene, da sempre sinonimo filosofico di testa bassa &amp; pedalare, senza mettere la pompa in mezzo ai raggi a nessuno. Quanto alla Mercedes della premiata ditta Lauda &amp; Wolff, il blasone del team e dei rispettivi curricula rende certi che i due sapranno assumere gli atteggiamenti pi&ugrave; giusti e adeguati, quand&rsquo;anche il ruolino assicurativo turboibrido dei loro piloti, passati e presenti, non li autorizzi a far prediche o a intentar reprimende.  Buon mondiale a tutti.&nbsp; 

Le polemiche dopo il contatto tra Raikkonen e Hamilton ci possono stare, ma a Silverstone il team di Wolff a caldo &egrave; parso fin troppo incline al vittimismo aggressivo

Per favore, niente prediche in F.1 dai Mercedes boys

Strana giornata di Motorsport, quella di domenica scorsa, a proporre un confronto terribile, a pochi minuti di distanza, tra due grandi classiche dei rispettivi repertori MotoGp Vs F.1: Dutch TT a due ruote vs Gp d&rsquo;Austria a quattro.&nbsp;Compito improbo per la F.1, sulla carta. Visto che la classe maggiore del motomondiale ad Assen d&agrave; vita a uno degli spettacoli pi&ugrave; belli della storia recente delle corse.&nbsp;Poco importa chi vince e chi perde. Quello interessa solo le fazioni. Ci&ograve; che conta &egrave; la trama avvincente, l&rsquo;agonismo meraviglioso, al di l&agrave; del finale che &egrave; solo un particolare, un orpello, ovvero il giusto premio al vincitore.  Poi tocca alla F.1.  Partenza bella tosta, ma dopo qualche giro le tessere del mosaico sembrano andare a posto. A quanto pare, sar&agrave; un monologo delle evolute Mercedes Ham-Bot, con le Ferrari malinconicamente lontane, forse perfino dal podio. E invece no.&nbsp;Bottas &egrave; out, la Virtual Safety car mal gestita mette in crisi Hamilton e infine pure Lewis rompe. Entrambi, seppur con sintomi diversi, accusano lo stesso tipo di allarme, vale a dire problemi che marcano l&rsquo;inizio della rottura del motore. E tutto si sconvolge.  Badate bene, lasciamo stare che ci abbia guadagnato la Ferrari e perso la Mercedes, non &egrave; questo il punto. Anzi, onore a Wolff &amp; C., &egrave; solo un episodio e il mondiale &egrave; abbastanza lungo da riservarsi verdetti ben pi&ugrave; complessi e strutturati.  Il fatto &egrave; un altro: la F.1 riscopre a Spielberg la crudelt&agrave;, l&rsquo;imprevedibilit&agrave; e la soggettivit&agrave; di un esito che improvvisamente torna a mettere in primo piano il fattore un tempo pi&ugrave; capriccioso, instabile e terrorizzante:&nbsp;quello dell&rsquo;affidabilit&agrave;. Con possibili conseguenze da scontarsi non solo in gara ma anche in quelle a venire.  Ecco, la prima, quella del ritiro d&rsquo;un top team in completo default tecnologico, &egrave; roba d&rsquo;altri tempi. Di quando la F.1 non era tutta elettronica e infallibilit&agrave; computerizzata, ma rivelava spesso la sua fallibilit&agrave; ciccia &amp; brufoli.  Tanto che Jim Clark sapeva bene che con quella Lotus cos&igrave; fragile presumibilmente non avrebbe mai vinto il Gp di Montecarlo - e mai lo vinse -, perch&eacute; troppo massacrante per vederlo alla fine al top.&nbsp;In fondo fino alla fine degli Anni &rsquo;80 la F.1 ammetteva fisiologicamente dei risultati da scartare, proprio ritenendo fisiologica una certa quota di rotture meccaniche e evitando cos&igrave; che diventassero determinanti ai fini dell&rsquo;assegnazione del titolo.  In poche parole, quella di domenica &egrave; stata una giornata strana e spiazzante, nella quale la F.1 ha finito col pareggiare complessivamente il conto con la MotoGp, riscoprendo il suo volto pi&ugrave; antico e nostalgicamente andato: quello della totale imprevedibilit&agrave; che sconvolge una trama altrimenti, come spesso accade, fin troppo banale. Mentre di converso la MotoGp ha proposto un narrato meraviglioso con un finale che ha visto il solito Marquez fare un boccone di tutti quanti i rivali.  E allora scatta la nostalgia di quando la F.1 era tanta, se non tutta cos&igrave;. Di quando potevi essere bravo quando volevi ma alla fin fine dipendevi dai capricci del motore e della pompa della benzina, che potevano salvare o distruggere carriere intere. Rendendo Chris Amon e Jean Pierre Jarier sfortunieri incredibili e lasciando intendere che gli altri, i pi&ugrave; blasonati, oltre che la classe, avevano anche il culo dalla loro parte.&nbsp;  Tempi in cui l&rsquo;imperfezione umana era il contraltare scenico della genialit&agrave; creativa e l&rsquo;imponderabilit&agrave;, i gremlins in agguato, una risultante necessaria.&nbsp;Tanto da far germogliare una civilt&agrave; mediatico-informativa che al nostro Matitaccia faceva dipingere sulle pagine a vignetta dell&rsquo;Autosprint dei dopoGp che furono, il grande Mario Poltronieri a mo&rsquo; di gufo pronto, appunto, a gufare involontariamente contro questo o quello al grido di&ldquo;Fuma! Fuma!&rdquo;.  In poche parole, nel momento pi&ugrave; inatteso, quando la lotta stessa per il mondiale 2018 sembrava ormai ammosciata e andata, in Austria la F.1 ha fatto la sua bella figura e ha retto il colpo, andando ad attingere a trame, sensazioni e colpi di scena d&rsquo;altri tempi.  Rifacendo navigare i tifosi pi&ugrave; d&#39;antan su mari in cui, ancora una volta, naufragare &egrave; stato dolce. 

Il&nbsp;kappa&ograve; Mercedes rende il Gp d&rsquo;Austria non meno spiazzante e avvincente del Dutch TT della MotoGp

La F.1 riscopre il fascino della fallibilit&agrave; tecnologica

Intendiamoci,&nbsp;sempre meglio vincere&nbsp;che perdere. Tuttavia, se Seb Vettel si mettesse a sostenere la tesi d&rsquo;aver volutamente speronato Valtteri Bottas alla prima frenata del Gp di Francia proprio per evitare il podio e l&rsquo;obbrobrio offerto per premio, qualche fondamento di tesi difensiva l&rsquo;avrebbe. Perch&eacute;, bench&eacute; l&rsquo;estetica per definizione mai si giovi di giudizi oggettivi e assoluti, quel che s&rsquo;&egrave; visto offerto alla premiazione &egrave; ben peggio di una tapirata di Staffelli. Anzi, il Tapiro medesimo in confronto ai gorilla urlanti del Ricard sembra disegnato dal Bernini e rifinito da Burri.  Eppure l&rsquo;opera &egrave; stata realizzata&nbsp;dal celebre scultore francese&nbsp;Richard Orlinski. Ma al di l&agrave; del pedigree, dire che sia adatta e consona al vincitore di un Gran Premio &egrave; quantomeno opinabile, se non&nbsp;sconcertante.&nbsp;  Ma che succede, in F.1? Okay, la bruttezza dei premi, l&rsquo;imbarbarimento progressivo&nbsp;del concetto di trofeo sono una realt&agrave; da anni, ma quando&nbsp;si va oltre il limite&nbsp;- e non &egrave; mica la prima volta - &egrave; bene suoni un campanello d&rsquo;allarme, che in questo caso andrebbe trasformato&nbsp;in un grappolo di campanili con campanoni suonati a distesa da sacrestani sudati.  C&rsquo;erano una volta coppe che valevano quanto il trionfo, oltre a simbolizzarlo.&nbsp; Il Trofeo&nbsp;George Vanderbilt, vinto da Nuvolari nel 1936, era talmente bello, grandioso, solenne e prezioso, che quasi sovrastava il Mantovano Volante nelle foto ricordo. Non a caso &egrave; stato acquistato dal Museo Nicolis a imperituro ricordo dell&rsquo;impresa e dell&rsquo;immensit&agrave; del campione, perch&eacute; raffigura ampiamente entrambe, pi&ugrave; d&rsquo;ottanta anni dopo.  Da sempre, nella storia delle corse, la spartizione dei premi e l&rsquo;assegnazione dei medesimi rappresenta uno dei motivi di vibrante contrattazione preventiva tra piloti e Case.&nbsp;  Ron Dennis negli anni d&rsquo;oro della McLaren ha sempre tenuto a conservare in sede tutte le coppe vinte, mentre un campione come Graham Hill non ha mai dato troppa importanza a medaglie e onorificenze. Tanto che non era infrequente per gli amici andare a trovare a casa il &ldquo;Baffo Volante&rdquo; e notare che il piccolo Damon stava giocando sulla sabbia col trofeo d&rsquo;un qualche prestigioso Gran Premio.&nbsp;  Opinioni. Scelte.&nbsp;Diverse sensibilit&agrave;. Ma da sempre - chiedere a&nbsp;Vincenzo Florio&nbsp;- organizzare una corsa prestigiosa era un tutt&rsquo;uno con lo scegliere e il predisporre un premio financo artisticamente adeguato.  Adesso no. Non pi&ugrave;. Mai pi&ugrave;. Vinci una gara iridata di F.1 e ti danno un&nbsp;bambolotto&nbsp;che perfino&nbsp;un giostraio si vergognerebbe&nbsp;a rifilarti dopo un tiro a segno felice con le palle di pezza, il venerd&igrave; sera agli autoscontri.  Dai, cos&igrave; non va. Non &egrave; tanto&nbsp;sgomento da social, levata di scudi e di fischi per il cattivo gusto, ma qualcosa di pi&ugrave; grave e profondo.&nbsp;  Perch&eacute; sotto la patina dell&rsquo;estetica e del buon gusto in pericolo alligna di peggio e ben altro. La&nbsp;svalutazione del concetto di sfida, il Gran Premio desacralizzato, commercializzato,&nbsp;lunaparkizzato, bonificato dal senso di pericolosit&agrave;, di sfida, di sacralit&agrave; del rischio che imponevano una solennit&agrave; plastica anche nel simbolo della vittoria da consegnare al vincitore.&nbsp;  E, restando nell&rsquo;ambito della comparativit&agrave; tra manifestazioni che contano sempre meno e, viceversa, le&nbsp;vere perle del Motorsport&nbsp;ancora tutelate e adamantine, val la pena ricordare che le tre corse pi&ugrave; antiche, prestigiose e rischiose, continuano invece a rispettare con salmodiante devozione i rispettivi rituali, alla faccia delle festicciole sciatte della F.1.  Alla&nbsp;Indy 500&nbsp;dal 1936 si beve latte in Victory Lane, vezzo inaugurato dal triplo vincitore Louis Meyer e poi formalizzato, accanto all&rsquo;esistenza dell&rsquo;imponente&nbsp;Borg Warner Trophy&nbsp;che riporta i volti stilizzati di tutti i vincitori della classicisima dell&rsquo;Indiana.  Di stile completamente diverso il trofeo assegnato ai vincitori della&nbsp;24 Ore di Le Mans, ma comunque simbolo d&rsquo;un potere antico e di una tradizione forte, scintillante e radicata.  Addirittura magnificente il&nbsp;Mercurio Alato&nbsp;del&nbsp;Tourist Trophy&nbsp;dell&rsquo;Isola di Man - ideato e messo in palio dal marchese de Mouzilly St.Mars - che dal 1907 premia il vincitore della Senior race.  In poche e altre parole, ovunque nel mondo delle corse a due, tre e quattro ruote la capacit&agrave; di&nbsp;difendere i valori&nbsp;fondanti del motorismo passa anche attraverso la&nbsp;tutela formale dei rituali. Laddove a Le Mans e sull&rsquo;Isola di Man esistono ancora le premiazioni con le bellissime corone d&rsquo;alloro, le amatissime e mai altrove abbastanza rimpiante &ldquo;garland&rdquo;, ovunque abolite, dalla F.1 in primis perch&eacute; aborrite dagli sponsor, in quanto impallavano le scritte da mostrare in mondovisione. Capito che tristezza?  Quindi l&rsquo;avvento dei&nbsp;gorilla lilla in F.1&nbsp;&egrave; solo l&rsquo;ennesimo calcio sul sedere&nbsp;al concetto di sacralit&agrave; e solennit&agrave; della categoria, la metafora buffa e fuori contesto del fatto che, perdendo sempre pi&ugrave; il culto della sostanza, parallelamente si finisce per smarrire financo il decoro della forma. 

Altro che ambita coppa: i premi della F.1 in Francia sembravano punizioni, tanto erano brutti

Vinci un Gp e ti tirano un obbrobrio

Che poi le storie d&rsquo;altri tempi esistono ancora. Basta solo avere modo e voglia di scovarle e gustarle tra appassionati di vero Motorsport, che non ne possono pi&ugrave; di gare finte, sorpassi di plastica, livelli di sicurezza da spa (con la minuscola, quindi non Francorchamps, ma da centro benessere) e vicende mosce, grigine e pericolosamente uguali l&rsquo;una all&rsquo;altra. Ebbene, quella recente di Sebastien Bourdais non lo &egrave; affatto. Perch&eacute; gli occhialini da vista e l&rsquo;aspetto timido e cortese nascondono un cuore grande e un palmo di pelo sullo stomaco.  Francese, 39anni, 27 Gp in F.1 tra il 2008 e il 2009 su Toro Rosso con due settimi posti come migliori risultati, il Seb originario di Le Mans e figlio d&rsquo;arte, 4 volte al top della Champ Car in Usa dal 2004 al 2007 con Newman-Haas, lo scorso anno a Indy, mentre le attenzioni di tutti erano giustamente puntate su Alonso, &egrave; stato vittima in prova di un crash terrificante.  Era accaduto di sabato, il 20 maggio, mentre Seb appariva nettamente il pi&ugrave; veloce in pista - stava girando ormai da due tornate bello costante a 231 miglia orarie di media (oltre 370 all&rsquo;ora) - finendo col perdere il controllo della sua Dallara alla curva 2 e schiantandosi in un agghiacciante impatto frontale contro le barriere a pi&ugrave; di 330 all&rsquo;ora, con tanto di ribaltamento e successivo principio d&rsquo;incendio. Risultato sconfortante per il pilota: fratture multiple al bacino e all&rsquo;anca destra. Nella notte Seb era stato operato d&rsquo;urgenza all&rsquo;Indiana University Methodist Hospital.  E qui inizia l&rsquo;incredibile. Il giorno successivo all&#39;intervento, appena sveglio, Seb dice al suo team manager Dale Coyne di tenersi pronto, perch&eacute; intende fare il suo ritorno in gara in occasione della prova finale della serie, a Sonoma. Tempo pochi giorni e il francese &egrave; gi&agrave; in piedi e si ripresenta stampellato, dimagrito, pallidissimo ma sorridente a Indianapolis, anche se per almeno cinque settimane non pu&ograve; far forza sulla gamba destra, quella pi&ugrave; offesa nel crash.  Lui dice secco: &laquo;Fino a pochi giorni fa non avevo idea di cosa fosse il dolore, mentre nelle cinque ore e mezzo successive all&rsquo;impatto col muro ho imparato molte cose, della vita&raquo;. Abbastanza cose per mantere i suoi propositi e cos&igrave; tante da rivelarsi addirittura molto pi&ugrave; forte. Seb in realt&agrave; torna prima di Sonoma, perch&eacute; &egrave; gi&agrave; in gara a Gateway il 26 agosto, incredibilmente tre mesi dopo l&rsquo;incidente, e per non farsi mancare niente corre anche sul terribile Watkins Glen. Quindi a Sonoma, che diventa la terza corsa del come-back 2017, &egrave; ottimo nono, a sancire il suo re-ingresso purgatoriale ma felice in top ten. E nella pi&ugrave; americana delle resurrezioni agonistiche, ieri, nell&rsquo;apertura della Indycar 2018, Bourdais attacca alla grande per tutta la corsa nel drappello di testa, approfittando di un contatto nel finale tra Wickens e Rossi che si stanno giocando la gara: cos&igrave; riesce a cogliere l&rsquo;attimo, andando a prendersi la pi&ugrave; commovente, inattesa e sorprendente delle vittorie. In fondo per Dale Coyne a St.Petersburg lui aveva vinto anche l&rsquo;anno scorso...  Cos&igrave; Seb, alla soglia dei 40 anni, dimostra di aver superato il pi&ugrave; spaventoso degli incidenti con capacit&agrave; di recupero - sia sul piano fisico che su quello psicologico - assolutamente prodigiose. E adesso non gli resta che puntare al colpo grosso, avendo nel mirino quella Indy 500 che in carriera gli &egrave; sempre sfuggita. Questo, ora, sembra chiedergli la sua storia, ripartita dopo l&rsquo;apocalisse di Indy 2017 quasi facendo un semplice spegni-riaccendi, in un&rsquo;anima che per&ograve; appartiene a un uomo, mica all&rsquo;hard disk di un computer. Un quasi 40enne, un pilota, un campione che in questi mesi ha dimostrato d&rsquo;avere nerbo, palle, capacit&agrave; di soffrire e classe pi&ugrave; di chiunque altro, percorrendo a piedi scalzi i carboni ardenti e trovando l&rsquo;uscita nobile dal suo inferno personale. Tanto che quella parola diventata in un attimo crudele il suo incubo pi&ugrave; deprimente torna a rassomigliare a un sogno possibile e a essere la sfida pi&ugrave; bella per il futuro non lontano: Indianapolis. Comunque vada, sei stato e sarai grande. Tieni gi&ugrave; il piede e provaci ancora, Seb. 

Le storie d&rsquo;altri tempi esistono ancora. Vedi la resurrezione trionfale di Bourdais in Indycar, dal terrificante crash invalidante di Indy 2017 al trionfo di St.Petersburg

Provaci ancora, Seb

Caro Alessandro Zanardi, Anzi, semplicemente, caro Alessandro. Forse &egrave; sbagliato leggere nelle date, nei numeri o nelle coincidenze dei segnali, dei colpi di specchio che lanciano messaggi in codice quasi magici quanto affascinanti. Dai, forse &egrave; solo colpa della fantasia. Eppure oggi fa un certo effetto pensare che il tuo compleanno viene festeggiato proprio il giorno dopo del podio negato a Max Verstappen in Texas, per aver superato illegittimamente i track limits nella sua lotta con Kimi Raikkonen. In fondo, se fosse possibile riassumere la carriera di un campione con un sorpasso, la tua - bypassando mille altre prodezze -, potrebbe essere sintetizzata e zippata in qualcosa di filosoficamente simile, ossia tutta in quell&rsquo;infilata mitologica a Bryan Herta, nel finale della gara Cart a Laguna Seca 1996.  Cavolo, c&rsquo;&egrave; tanto Zanardi da Castelmaggiore in quel gesto. Creativit&agrave;, coraggio, precisione da killer, voglia pazzesca di vincere, autoconsapevolezza di poterselo permettere, fame d&rsquo;affermazione meritocraticamente accertata e giustificabile, attitudine all&rsquo;impresa e perfino una certa dose di menefreghismo delle possibili conseguenze. Niente di relativo alla sicurezza, no, ma solo dedicato alla possibile incazzatura che Chip Ganassi avrebbe potuto far pesare in caso di fallimento clamoroso della manovra. Della serie, se va, va e se non va, in fondo - per dirla alla Raz Degan dei bei tempi andati - sono solo fatti miei. Poi tanti citano Valentino su Stoner al Corkscrew 2008, dimenticando che infilare una Reynard in un fuoripista in contropendenza &egrave; un pochino pi&ugrave; scomodo che fare lo stesso con una moto, anche se a vantaggio di Vale va riconosciuta alla grande la magia di non aver perso l&rsquo;equilibrio nell&rsquo;atto di piazzare la volatile prodezza su due ruote iperansiogene.  In ogni caso, le eliche del dna di Alex Z stanno nel colpaccio al Cavatappi. Magari il Corkscrew, avvitato com&rsquo;&egrave;, somiglia a un&rsquo;elica del dna di Alex Z, chiss&agrave;. Anche perch&eacute;, si diceva, quella vecchia storia di Laguna Seca &egrave; la metafora di una vita. Cio&egrave;, il tempo a disposizione sta per finire, tu saresti anche bravino ma di questo passo col cavolo che vinci e, sul pi&ugrave; brutto, t&rsquo;inventi una magia cos&igrave; il film che ti vede protagonista cambia genere a poche scene dai titoli di coda. Sembrava un documentario su uno momentaneamente con un po&rsquo; di sfiga e si tramuta last minute nel biopic su un eroe che spiega spettacolarmente al mondo d&rsquo;esserlo. A volte, per chi conosce Alessandro Zanardi da decenni, tutta la rimonta umana dal dramma del Lausitzing in poi, &egrave; solo l&rsquo;estrinsecazione esistenziale di ci&ograve; che il soggetto aveva gi&agrave; agevolmente mostrato di poter fare in pista. Curve quali sinonimi di difficolt&agrave;, rivali metafore di problemi, classifica sconfortante a mo&rsquo; di simbolo di possibile depressione da evitare in fretta. E Alex Z via che rimonta. Come a Long Beach 1998.  Lui vincitore uscente che piomba ultimo e doppiato ma improvvisamente si scorda d&rsquo;esserlo dando vita a una rimonta sconcertante, che lo porta negli ultimi giri a attaccare Herta e Franchitti andando a vincere tra decine di migliaia di facce sbigottite. Occhio, nella leggenda di Alex Z c&rsquo;&egrave; sempre una fregatura involontaria e sportivamente lecita da tirare a Bryan Herta. Certa &egrave; come l&rsquo;omino piccolo e baffuto perennemente buggerato dalla Pantera Rosa. O Mario Castellani quando fa la spalla nei film di Tot&ograve;. Va be&rsquo;, non divaghiamo. Tutto questo per dire che il pilota Alessandro Zanardi aveva gi&agrave; vissuto le corse come simulazione della vita, specializzandosi in America con un Master nella gestione costruttiva e epicizzante dell&rsquo;improbabile. Poi il resto, brutto e quindi meraviglioso. Da l&igrave; il suo alzarsi in piedi la sera dei Caschi d&rsquo;Oro 2001 davanti a un pubblico sbigottito e il successivo, progressivo, inarrestabile elevarsi a icona del saper vivere all&rsquo;interno di sfide sempre nuove. Non pi&ugrave; Laguna Seca, ma Wtcc, Gt, handbike, Tv, Iron Man e chiss&agrave; cos&rsquo;altro, in prospettiva.  Vita vera, insomma. Con un ragazzo che &egrave; restato sempre e comunque stupendamente lo stesso. Spontaneo quanto costantemente lieve e educato. Dai tempi in cui, a met&agrave; Anni &rsquo;90, dopo i primi timidi, validi ma sfortunati assaggi in F.1 sembrava un pilota finitissimo e telefonava in redazione perch&eacute; aveva piacere si pubblicasse la notiziola del suo anonimo quanto estemporaneo ritorno in gara al volante di una Lotus Gt. Ecco, per chi lo conosce la cosa straordinaria &egrave; che Alex Z, se chiede o se d&agrave;, lo fa sempre con la stessa pura e squisita delicatezza. E festeggiarlo oggi, appunto nel giorno dopo della bocciatura del sorpasso fuoripista di Verstappen a Raikkonen, magari &egrave; un altro segno del destino. Il quale ci spiega che certe cose potevano accadere una volta e ora no. Mai pi&ugrave;. Perch&eacute; l&rsquo;infilata di Zanna a Herta al Cavatappi 1996 ormai &egrave; come quando andavamo al cinema e fumavamo o filavamo in motorino senza casco o sfrecciavamo in macchina senza cinture. Cose che si facevano e non si fanno pi&ugrave;. No, mica te le fanno pi&ugrave; fare.  E se solo t&rsquo;azzardi a riprovarci ti penalizzano togliendoti dal podio. Per carit&agrave;, evitiamo nostalgie, soloniche tirate o zaffate felpate di reducismo. Semplicemente il mondo &egrave; diventato questo. Fittissimo di regole, sicurezze soffocanti e divieti ammoscianti. Cio&egrave; di stradine gi&agrave; tracciate e finali scritti in anticipo. Tanti anni sono passati da quando eri solo un giovane pilota, Alessandro Zanardi. Ed &egrave; sempre un piacere seguirti. Starti vicino anche solo col pensiero. Perch&eacute; mentre il mondo cambia e spesso peggiora tu resti il vero, originale, sano e entusiasmante simbolo protagonista di una meravigliosa serie a sfondo umano. Capace di proporre a ogni finale di stagione un colpo di scena che rende orgogliosi di starti vicino per seguire l&rsquo;inizio della prossima. Buon compleanno, Alessandro. 

Letterina d&rsquo;auguri per Alessandro Zanardi, che oggi compie i suoi primi 51 anni.&nbsp;

Buon compleanno, Alex Z!

Domenica prossima si corre il Gp d&rsquo;Italia e il pi&ugrave; grave errore che potrebbe compiere un vero appassionato sarebbe quello di ritenere la cosa normale e perfettamente scontata.&nbsp;Perch&eacute; non c&rsquo;&egrave; pista al mondo che ha sofferto e soffre di pi&ugrave; per garantire la sua - peraltro applaudita, gloriosa e meritatissima - sopravvivenza.&nbsp;Storicamente e curiosamente &egrave; uno dei primi circuiti permanenti nel mirino per problemi di sicurezza, col culmine della polemica nel 1933, causa la terribile bloody sunday in cui morirono Campari, Borzacchini e Czaikowski.  Non a caso &egrave; il primo tracciato in cui si interviene sull&rsquo;onda emozionale di un&rsquo;immane tragedia, prendendo, in vista dell&rsquo;edizione 1934, un provvedimento draconiano: praticamente spezzare il tracciato a met&agrave;, introducendo complesse e castranti chicane e creando cos&igrave; una sorta di corto e ammosciante tilkodromo ante litteram.&nbsp;Mica finisce qui, perch&eacute; nel 1960 scoppia la grana dell&rsquo;uso del banking per le F.1, che fa inferocire i team inglesi, i quali non senza ragioni ritengono che l&rsquo;uso delle Sopraelevate favorisca oltremodo la Ferrari, preferendo cos&igrave; boicottare e disertare la corsa.  L&rsquo;anno dopo, una toccata tra von Trips e Clark a inizio Gp provoca uno degli incidenti pi&ugrave; gravi nella storia della F.1, con la fine istantanea del campione tedesco la cui Ferrari semina morte tra la folla, appena prima della Parabolica.&nbsp;Eppure Monza resta inestricabilmente il tracciato pi&ugrave; rappresentativo, sfavillante e grandioso della F.1.&nbsp;Ricettacolo delle imprese pi&ugrave; belle, appunto, il Tempio della Velocit&agrave;.&nbsp;In tempi moderni Abu Dhabi versa fiumi di dollari per garantirsi il fregio di Gp d&rsquo;epilogo del mondiale.&nbsp;Negli anni pi&ugrave; intensi e iconici della F.1 questo onore toccava a Monza, qual diritto onorario acquisito dal suo stesso sussistere, aristocraticamente ma non sdegnosamente al di sopra di tutto e tutti.  Tanto che nel 1966 il regista John Frankenheimer nel suo &ldquo;Grand Prix&rdquo;, film affresco praticamente definitivo sull&rsquo;epopea dei Gran Premi ruggenti, sceglie proprio Monza quale luogo e evento catalizzatore dell&rsquo;entusiasmente e drammatico epilogo della trama.&nbsp;Rispolverando spettacolarmente la Sopraelevata, su cui a fine Anni &rsquo;50 i migliori piloti di scuola europea avevano gi&agrave; sfidato in due riprese gli assi della F.Indy nel leggendario &ldquo;Trofeo dei due Mondi&rdquo;, laddove i fortunati tifosi ebbero il privilegio di veder sfrecciare - e soprattutto udire - la mostruosa e assordante quanto mitologica Novi. Gli statunitensi vinsero entrambe le edizioni, Jimmy Bryan nel 1957 e Jim Rathmann nel 1958, ma poco importa, le prodezze di Luigino Musso e una delle ultime apparizioni agonistiche - peraltro fulminea quanto sfortunata - di Juan-Manuel Fangio, restano fiori all&rsquo;occhiello di un repertorio d&rsquo;alta gioielleria.  Eppure esattamente quarant&rsquo;anni fa, diciamo verso la fine degli anni &rsquo;70, precisamente nel 1978, l&rsquo;autodromo sembra giunto alla fine dei suoi giorni.&nbsp;La stessa lunghissima telecronaca Rai del sempre sorvegliato e preciso Mario Poltronieri, sembra quasi la diretta di un lungo addio, ormai quasi ineluttabilmente in atto.&nbsp;Polemiche politiche, istanze ambientaliste e nuove e feroci correnti desiderose di far chiuder baracca dopo l&rsquo;incidentone al via del Gp d&rsquo;Italia che segna indirettamente la fine di Ronnie Peterson - a fare purtroppo il paio con la devastante edizione 1973 del motomondiale che vede la fine di Pasolini e Saarinen al Curvone -, tutto sembra spingere verso la fine di Monza e la perdita dello status di Gp d&rsquo;Italia.  Non a caso nel 1980 il Gp d&rsquo;Italia stesso emigra a Imola e l&rsquo;autodromo per antonomasia deve accontentarsi come main event di un&rsquo;edizione della pur gloriosa 1000 Km in tono minore e delle F.1 della serie Aurora Afx, con le Williams di Giacomo Agostini e Emilio De Villota quali protagoniste di una domenica ormai diventata quasi qualsiasi. Questo caccia il convento, insomma.&nbsp;Ma nel 1981 il Gp d&rsquo;Italia ritorna a Monza e da allora l&igrave; resta, ottemperando progressivamente ai dettami dei pi&ugrave; moderni canoni di sicurezza, cambiando maquillage ma mai perdendo la sua intima identit&agrave;.  Malgrado pretese a tratti economicamente quasi insostenibili di Bernie Ecclestone, malgrado gestioni passate non al riparo delle penetranti attenzioni della magistratura, perfino malgrado episodici attacchi di quegli amanti della natura troppo spesso volutamente ciechi nel non voler vedere che la pista all&rsquo;interno del Parco Reale resta la garanzia pi&ugrave; bella della tutela ambientale di quest&rsquo;ultimo, piuttosto che il presupposto per il suo degrado.  E perfino malgrado quelli che vorrebbero abbattere gloriosi tratti superstiti della stupenda sopraelevata, ignorando come solo gli ignoranti possono placidamente ignorare, che sull&rsquo;autodromo tutto ci&ograve; che non &egrave; cronaca e presente rappresenta monumentalmente un passato meraviglioso che sol per questo va tutelato, carezzato, ammirato e salvaguardato, visto che incarna ed &egrave; patromonio che l&rsquo;intero mondo del Motorsport adora e ci invidia.  Resto dell&rsquo;avviso che la pista pi&ugrave; bella del mondiale sia Spa-Francorchamps, eppure penso, e non sono certo e mica il solo, che l&rsquo;atmosfera, l&rsquo;allure e la filosofica lucentezza corsaiola di Monza restino impalpabili, storicissime, eterne e magiche caratteristiche, del tutto uniche nell&rsquo;universo mondo dell&rsquo;automobilismo da corsa.&nbsp;Per questo, nel prossimo weekend, a prescindere da chi sar&agrave; il vincitore, magari fatelo un po&rsquo; pi&ugrave; lungo, il vostro l&rsquo;applauso, e dedicatelo a quel nostro tesoro al quale non dobbiamo mai scordarci di volere un bene immenso.&nbsp;S&igrave;, dedichiamolo a Monza. 

Domenica si corre il Gp d&rsquo;Italia sull&rsquo;autodromo pi&ugrave; classico della F.1. Patrimonio grandioso, di cui andare orgogliosi. Per favore, non diamolo per scontato.

Monza, il nostro tesoro pi&ugrave; bello

Caso strano, nell&rsquo;anno in cui il Pontefice ha deciso di utilizzare sempre meno la papamobile schermata, la Fia continua a insistere sulle protezioni al pilota per le monoposto di Formula Uno.  Evidentemente a fronte di chi coraggio ne ha da vendere, c&rsquo;&egrave; pure chi si suppone ne abbia sempre di meno. Anche se, visti i ruoli, la capacit&agrave; di sopportazione dell&rsquo;indice di rischio tra Papa e top driver dell&rsquo;automobilismo dovrebbe essere ben diversamente distribuita.  Comunque la notizia dell&rsquo;ultim&rsquo;ora &egrave; che l&rsquo;adozione della protezione stessa - nella riunione del Gruppo Strategico svoltasi a Ginevra prima del&nbsp;weekend di Hockenheim -, &egrave; stata rimandata al 2018, in modi e forme ancora tutte da stabilire.&nbsp;  Pertanto il cosiddetto Halo, che sembrava favoritissimo per la scelta, fino a poco fa, adesso torna in discussione, con tanto tempo davanti per riflettere e prendere una decisione per confermarlo, modificarlo o metterlo definitivamente da parte.&nbsp;  E meno male, perch&eacute; delle varie soluzioni ipotizzate, dati alla mano - a confronto con gli studi Fia della cellula di protezione e della canopy di matrice Red Bull -, la meno adeguata, la pi&ugrave; discussa e allo stesso tempo perfino la scientificamente pi&ugrave; attaccabile, &egrave; proprio quella dell&rsquo;Halo.  Tanto per cominciare, l&rsquo;Halo, oltre a rappresentare un rallentamento nell&rsquo;uscita dall&rsquo;abitacolo in caso d&rsquo;emergenza, non riesce a proteggere in nessun modo il pilota da oggetti vaganti aventi meno di 7 centimetri di ampiezza.&nbsp;    Come minimo, ci&ograve; significa che nel malaugurato ripetersi di un caso simile a quello di Felipe Massa nelle qualifiche del Gp d&rsquo;Ungheria 2009, quando fu colpito da un detrito della BrawnGp di Barrichello, le conseguenze dell&rsquo;impatto del detrito col casco o la visiera del pilota stesso sarebbero egualmente molto gravi.  Non a caso Andy Green di Force India ha depositato da tempo un dossier presso la Fia nel quale emerge che l&rsquo;Halo stesso potrebbe avere conseguenze addirittura letali per il pilota in caso di incidente dalla particolare dinamica.  Non bastasse questo, il punto della faccenda &egrave; un altro.&nbsp;  Il dispositivo risulta fonte di problemi anche in normali condizioni di guida.&nbsp;  Un apprezzato oculista, specializzato nelle problematiche racing, a una prima dettagliata analisi dell&rsquo;Halo, dichiara senza mezzi termini: &laquo;Siamo di fronte a una struttura che risolve in parte alcuni problemi eventuali, causandone altri certi e costanti. A seconda della statura del pilota, lo sguardo pu&ograve; risultare pi&ugrave; o meno intralciato dalla struttura centrale verticale della protezione. Il ragionamento &egrave; semplice e alla portata di tutti: quanto maggiore &egrave; la velocit&agrave;, tanto pi&ugrave; si restringe il campo visivo, concentrandosi lo sguardo stesso sul punto di fissazione sempre pi&ugrave; lontano. Ad altissime velocit&agrave;, il campo visivo utile si restringe con un&rsquo;ampiezza centrale di non pi&ugrave; di 45-50 gradi. Quindi il campo visivo centrale diventa pi&ugrave; importante con l&rsquo;aumentare della velocit&agrave;. La sua riduzione provocata dall&rsquo;Halo - relativamente alla barriera verticale -, porta a un&rsquo;inibizione rilevante della parte centrale della focalizzazione che, date le altissime velocit&agrave; della F.1, diventa estremamente penalizzante. Molto meglio sarebbe poter sfruttare un arco di protezione comunque rinforzato ma privo del supporto verticale, per far s&igrave; che la soluzione non crei i gravi problemi sopra menzionati, in quanto lo stesso Halo, cos&igrave; come realizzato, a conti fatti non risulta un sistema privo di problematiche indotte&raquo;.  Bingo. Una volta tanto la decisione del Gruppo Strategico che ha posticipato la scelta della struttura di produzione &egrave; solo da applaudire. Finalmente una scelta forse involontariamente sensata.  Statisticamente, una volta su cento pu&ograve; anche succedere. 

L&rsquo;adozione della struttura di protezione dell&rsquo;abitacolo &egrave; stata posticipata al 2018. Meglio cos&igrave;

L&rsquo;Halo &egrave; peggiore dei mali che intende curare

Vogliamo dire le cose come stanno? Non so voi, ma io ieri per seguire tutto il Gp d&rsquo;Ungheria in Tv ho fatto sforzi semplicemente sovrumani. Concentrati all&rsquo;altezza delle palpebre destra e sinistra, per cercare - peraltro fortunosamente riuscendoci -, di non chiuderle per un paio d&rsquo;ore filate, diciamo dalla terza curva del Gran Premio fino alla cerimonia del podio, interviste del dopocorsa comprese.  Eppure la F.1 l&rsquo;adoro da sempre, l&rsquo;automobilismo fa parte del mio dna e il Motorsport gira con le di lui eliche fin dal giorno della mia nascita. Chiaro, tale e quale a quello di tutti voi, in questo siamo tutti gemelli omozigoti, penso.  Il punto &egrave; un altro. QUESTA F.1 proprio non la reggo. &Egrave; un insulto agonistico e mediatico al concetto di sopportabilit&agrave; scenica e narrativa.  Intendiamoci, la noia &egrave; il meno. Sostenere che la F.1 dell&rsquo;era ibrida &egrave; noiosa, sarebbe superficiale e - uso il prossimo aggettivo facendo finta di schifarmi, perch&eacute; fa tanto chic e regala un tocco di finta e sdegnata saggezza -, populista, s&igrave;, ecco, sarebbe tremendamente populista.  In fondo Alberto Moravia ci spiega mirabilmente che la noia &egrave; un problema cosmico, lo stesso Dio cre&ograve; l&rsquo;uomo e, a cascata, suppongo perfino Bernie Ecclestone, la F.1 e noi davanti alle Tv, perch&eacute; si annoiava, porello.&nbsp;  Lo stesso Ennio Flaiano ricorda che i giorni indimenticabili della vita di un uomo sono cinque o sei in tutto, gli altri fanno volume. Tanti altri, da Oscar Wilde a Romano Battaglia, pi&ugrave; o meno la pensano allo stesso modo, mentre il cantante e poeta George Moustaki conclude paraculo che nell&rsquo;esistenza di un uomo il novanta per cento delle emozioni &egrave; fatto di nostalgia. Quindi i momenti belli e memorabili ce li costruiamo rigorosamente in differita, autoilludendoci della loro preziosa e irripetibile unicit&agrave;, quando nella realt&agrave; vissuta le cose andarono in modo sostanzialmente diverso e meno poetico assai.  &laquo;I bei tempi non sono mai esistiti&raquo;, ammonisce quieto e severo il vecchio pistolero Jack Beauregard nel film &ldquo;Il mio nome &egrave; Nessuno&rdquo;.  Tornando a noi e utilizzando questo armamentario filosofico-interpretativo, la stessa F.1 bella e perfetta, a ben guardare, non &egrave; stata mai.  Nel 1978, la mitica prima stagione nella quale fu irradiata quasi integralmente in diretta Rai, il tema tecnico era lo stradomionio delle Lotus 79 di Andretti e Peterson, che davano anni luce ai rivali, a parte i rari giorni in cui si rompevano. E di sofferente pazienza al telespettatore - comunque abbacinato dalle prime anche se non primissime trasmissioni a colori - ne richiedevano a dosi tutt&rsquo;altro che omeopatiche.  La stessa Digione 1979, fino agli ultimi, indimenticabili e leggendari giri che videro Vileneuve e Arnoux sfidarsi senza un prevedibile domani, a rivederla tutta in un tremolente vhs, sembra un&rsquo;interminabile e soporifera ouverture, anche se dotata d&rsquo;un indimenticabile finale d&rsquo;un altro pianeta, che solo ad ascoltare Mario Poltronieri che s&rsquo;arrapa fanno ancora sorridere e piangere d&rsquo;un brio incrinato che volge a una commozione roca. D&rsquo;altronde i tempi regolamentari della partita di calcio Italia-Germania 4-3 a Messico 70 restano una pippa colossale fino all&rsquo;1-1 di Schnellinger: 90 minuti di pena per quei trenta successivi di supplementari paradisiaci e liberatori.&nbsp;  Ci siamo capiti, insomma.  Anche nella F.1 tutto ci&ograve; che ora &egrave; abbellito dalla nostalgia alla Moustaki &egrave; anche permeato in filigrana dalla noia cosmica di Moravia, salvo le eccezioni di Flaiano.&nbsp;  &Egrave; la vita che &egrave; cos&igrave;. Non ha colpa n&eacute; la Tv, n&eacute; Bernie, n&eacute; Charlie Whiting, n&eacute; il Gruppo strategico.  Ma il problema &egrave; un altro.&nbsp;  Questa F.1 non &egrave; solo noiosa, proprio non si strozza.&nbsp;  &Egrave; di una piattezza nuova, inedita e indignante, perch&eacute; oltre che pallosa, passi quello, &egrave; soprattutto, terribilmente e tremendamente PREVEDIBILE.&nbsp;  Dopo la prima, massimo la seconda frenata, gi&agrave; sai dove andr&agrave; a parare.&nbsp;  Puoi gi&agrave; assegnare le coppe al secondo colpetto di freno ei primi, perch&eacute; la classifica finale sar&agrave; quella: nessuno si ritirer&agrave; - perch&eacute; ormai nessuno rompe pi&ugrave; nulla -, nessuno picchier&agrave; davvero - perch&eacute; i tracciati sono mosci kartodromi con aeroporti d&rsquo;asfalto colati attorno, nessuno approfitter&agrave; di un improvviso scroscio d&rsquo;acqua, perch&eacute; se piove si parte e s&rsquo;arriva sotto Safety-Car, guai mai, nessuno pianter&agrave; mai un sorpassone di quelli antologici, perch&eacute; si passa solo di Drs, con la stessa abilit&agrave; che ha mio zio Raniero quando sulla camionabile sfila il furgone del latte.  In poche parole, non &egrave; la noia di in s&eacute; a fare la differenza.&nbsp;  No, questa F.1 appare insopportabile perch&eacute; completamente stravolta nella sua genetica, fino a diventare gi&agrave; vista ancor prima d&rsquo;essere vista, nella sua struttura ripetitivamente salmodiante, tale e quale a una puntata qualsiasi di Don Matteo, con tutto rispetto per lui, chi lo produce e coloro che lo guardano, i quali almeno hanno la scusante di voler passare una serata serena tramite il prete investigatore, non provando certo la delusione di seguire come noi uno sport estremo, salvo ritrovarsi con bel altro in mano e davanti agli occhi.&nbsp;  No, la noia strutturale della F.1 d&rsquo;antan, perfino nella terrificante stagione 1988 del dominio McLaren con Senna e Prost, nulla ha a che vedere con la prevedibilit&agrave; quasi tonta della F.1 d&rsquo;oggi, soprendente solo per la cervelloticit&agrave; di track limits, crash penalty, virtual safety&nbsp; e unsafe release, tutto sempre e costantemente under investigation sotto gli occhi d&rsquo;una trimurti di commissari Fia, i quali, trini, sembrano fare le veci del Don Matteo medesimo, prima che il solito, consolatorio finale ci autorizzi ad andare a letto o svegliarci, scegliete voi il verbo.&nbsp;  La previdibilit&agrave; pestilenziale della F.1 d&rsquo;oggi &egrave; tutta nuova e tormentosa, quand&rsquo;invece il pi&ugrave; delle volte i filtri mediatci togati e ufficiali raccontano di sfide fantastiche, duelli al coltello e trame strappacuore, laddove troppo spesso il gusto di vendere il cammello nasconde pulci e difetti della bestia.  Certo, qualcuno potrebbe chiedere: ma piantatevela, chi ve lo fa fare di vedere i Gran Premi? Mica ve l&rsquo;ha ordinato il dottore, no?&nbsp;  Be, la risposta &egrave; semplice. Se questo &egrave; il nostro sport, perch&eacute; mai dovremmo abbandonarlo?&nbsp;  Fa parte delle nostre storie d&rsquo;amore preferite e non possiamo n&eacute; vogliamo rinunciarci. Molto meglio fare notare ci&ograve; che non va, sottolinearlo, all&rsquo;occorenza gridarlo, piuttosto che fingere godimenti non pi&ugrave; avuti.  Perch&eacute; in questa triste litania, l&rsquo;ultimo grido di libert&agrave; &egrave; proprio quello di lamentarsi e fiottare, per evitare d&rsquo;arrendersi.  Ed &egrave; cos&igrave; che, in vista del Gp di Germania sullo stravoltissimo kartodromo d&rsquo;Hockenheim, invece che augurarvi buon divertimento, stavolta mi limito con sobria prudenza a una quieta e devota invocazione: Don Matteo, ora pro nobis. 

Se continua a essere cos&igrave; narcolettica, sar&agrave; seguibile solo dietro ricetta

Questa Formula 1 &egrave; pi&ugrave; prevedibile di Don Matteo

Dedico questa puntata di Sterzi a Parte a una considerazione talmente ovvia da essere sicuramente vera. Se avviene un golpe in un Paese europeo o che pretende d&rsquo;essere tale, tutte le reti All News del mondo ne parlano in diretta per giorni e mesi, spiegandoci perch&eacute; e per come.  Se invece la rivoluzione interessa la Formula Uno e si verifica lentamente, impiegando addirittura decenni, finendo col sostituire l&rsquo;uomo con le macchine - proprio come nelle ucronie pi&ugrave; buie, i romanzi della fantascienza pi&ugrave; pessimista e i film pi&ugrave; cupi e distopici -, alla fin fine nessuno dice niente e addirittura quasi tutti fanno finta di non farci caso.  Il campionato del mondo di F.1 nasce nel 1950 e geneticamente e costituzionalmente &egrave; un campionato del mondo Piloti.&nbsp;  I padri fondatori del mondiale non hanno dubbi: al centro della sfida c&rsquo;&egrave; l&rsquo;Uomo. Ecco perch&eacute; si chiama cos&igrave; e non in un altro modo. La macchina, anzi, le monoposto e con esse le Case che le producono, ai fini sportivi sono un semplice strumento e non certo il fine.&nbsp;  Tanto che per l&rsquo;Autorit&agrave; Sportiva, nei primi otto campionati, dal 1950 al 1957, non esiste neppure uno straccio di medaglia che va a chi produce metallo semovente su ruote.  No, in F.1 sono gli Uomini che corrono e rischiano la pelle ogni attimo e i punti, i premi, la gloria e la vera attenzione del pubblico possono e devono andare solo a loro.&nbsp;  Le Case, in poche parole, nella prima F.1 si impegnano a fondo perduto. Hanno la stessa importanza che un attrezzo avrebbe in atletica o le porte a calcio.  Per i Costruttori il solo premio immaginabile - e non &egrave; poco - &egrave; il potersene vantare, capitalizzando i traguardi raggiunti in termini d&rsquo;immagine e pubblicit&agrave; di vendita nella produzione di serie.  Non &egrave; mica roba da ridere, perch&eacute; la risonanza effettiva &egrave; immensa.&nbsp;  Fin dalla Golden Age dei Grand Prix, quindi nella seconda parte degli Anni &rsquo;30, quando la Formula Uno neanche esisteva, essere al top significava affermare mediaticamente una civilt&agrave; tecnologica, non a caso Mercedes e Auto Union traevano significativa parte del sostentamento, diremmo oggi del budget, da generosi finanziamenti del governo nazista, tanto da portare a fine ciclo la svastica nelle fiancate.&nbsp;  Discorso non uguale ma analogo per l&rsquo;Alfa Romeo di Farina e Fangio, la Casa guida all&rsquo;alba della Formula Uno, piuttosto che per la Ferrari nel mini-regno di &ldquo;Ciccio&rdquo; Ascari o la Mercedes di Fangio e Moss, a met&agrave; Anni &rsquo;50. La gloria di dare un mezzo al pilota migliore del mondo poteva bastare e avanzare alla Casa di riferimento, senza null&rsquo;altro a pretendere.  Perch&eacute; erano previsti due domini ben precisi e netti, distinti come format di sfida e filosofia.&nbsp;  Le monoposto premiavano l&rsquo;Uomo, le biposto Sport i Costruttori. Punto.&nbsp;  Qualsiasi cambiamento nel dosaggio di allori e gloria veniva ritenuto pericoloso e contaminante.  Nel 1958 viene creata la Coppa Costruttori che in F.1 d&agrave; un contentino alle Case, ma &egrave; un Trofeo senza alcun valore iridato, una somma di punti che alla fine premia qualcuno senza che nessuno s&rsquo;impegni davvero per vincere, perch&eacute; la sola cosa che conta nel e del Circus &egrave; e resta il mondiale Piloti.  Ci&ograve; resta vero per una ventina d&rsquo;anni, poi, in modo sotterraneo, qualcosa comincia a cambiare e l&rsquo;artefice di tutto &egrave; ancora una volta il pi&ugrave; grande rivoluzionario nella storia della F.1, che risponde al nome e al cognome di Bernie Ecclestone.  Ecclestone, dalla prima met&agrave; degli Anni &rsquo;70 a capo della FOCA - la Formula One Constructors Association -, ovviamente non assegna n&eacute; punti n&eacute; ori, ma inizia a fare qualcosa di pi&ugrave; interessante: nell&rsquo;ambito dei Gran Premi organizza una fitta rete di trasferte di gruppo per i suoi associati, proponendo&nbsp; facilitazioni e rimborsi, a patto che si ottengano punti Costruttori.  All&rsquo;alba del 1978 per un piccolo team la classifica Costruttori diventa cos&igrave; un vero e proprio motivo di sopravvivenza e siamo solo ai prodromi del geniale e legalissimo colpo di mano, condotto in porto con strumenti perfettamente regolari, all&rsquo;interno del quale i rimborsi e le agevolazioni Foca sono il cavallo di legno appena entrato dentro le mura dei troiani felici.&nbsp;  Un esempio su tutti. Nell&rsquo;interstagione 1978 l&rsquo;Ats di Gunther Schmidt rileva l&rsquo;attivit&agrave; della March di F.1 e preferisce ribattezzare il team Ats togliendo il nome March, in quanto nel 1977 il marchio tedesco ha ottenuto un prezioso punticino con la sua Penske privata, mentre la Casa inglese resta ferma a zero, quindi &egrave; fuori dai benefici Foca.  Passano tre anni e il cavallo si apre del tutto e ne esce il nuovissimo campionato del mondo Costruttori, perfino benedetto dalla Federazione Internazionale del Presidente Jean-Marie Balestre. Le serie iridate, in poche parole, diventano a tutti gli effetti due in una.&nbsp;  Passa qualche stagione e ben presto uno dei team emergenti della Foca, la Williams di mister Frank Williams, tramite il suo proprietario fondatore fa sapere che per lui il campionato del mondo Costruttori &egrave; pi&ugrave; importante di quello Piloti. &Egrave; il primo a dirlo, parla quasi per paradosso, ma comincia ad avere buone ragioni per farlo.&nbsp;  A met&agrave; degli Anni &rsquo;90, segnatamente nel 1994, quando la Benetton vince con Schumi il mondiale piloti e la Williams quello Costruttori, Flavio Briatore, con un&rsquo;immaginifica battuta, prende in giro Frank dicendo che l&rsquo;iride Costruttori vale quanto la Coppa del nonno, ma poi l&rsquo;anno dopo l&rsquo;italiano gode come un riccio perch&eacute; Michael gli fa vincere pure quella, la quale ormai, negli anni, sta divenendo qualcosa di ben pi&ugrave; grande d&rsquo;un semplice omaggio a una premiata ditta.&nbsp;  Perch&eacute; dal punteggio nel mondiale Costruttori emergono sempre pi&ugrave; i coefficienti per la spartizione del montepremi, ciascuna fetta nella torta dei milionari diritti F.1, ai team: ed &egrave; cos&igrave; che da terra di nessuno, la classifica generale delle Case, diventa una vera e propria miniera d&rsquo;oro.  In poche parole, nel mondiale Piloti conta solo chi vince, mentre per muovere fiumi di dollari basta un modesto piazzamento anche in top ten, tra i Costruttori, come accade per il compianto Bianchi a Monaco 2014, che fa ottenere punti che alla fine addirittura salvano Marussia e condannano la Caterham.  Il colpo di stato in F.1 &egrave; completo e gi&agrave; da un pezzo. O, se preferite, usando termini meno violenti e giustamente pi&ugrave; consoni e urbani, la filosofia strutturale degli interessi in gioco &egrave; cambiata di netto e forse per sempre.&nbsp;  Il mondiale Piloti, ormai sempre pi&ugrave; depotenziato, si limita a stabilire quale dei due piloti al volante della macchina top risulta il migliore, mentre quello Costruttori dischiude a ogni livello i forzieri dell&rsquo;Isola del tesoro.&nbsp;  Di pi&ugrave;. I Costruttori - all&rsquo;interno di una dialettica infinita e vibrante con l&rsquo;eterno Bernie -, partecipano attivamente alla discussione delle regole in vigore e future, esercitando o subendo pressioni e diritti di veto a go-go, mentre i Piloti non hanno alcuna voce in capitolo, confinati come non mai ad associazione priva di rappresentanza reale che svolge rare riunioni senza spessore alcuno e risonanza politica.  Ormai sono i Costruttori i veri destinatari di premi, allori e financo di eventuali penalit&agrave;. Tutta la complessa e capillare normativa sulle penalty da mancata affidabilit&agrave; di componenti di motore e cambio, sempre pi&ugrave; fondamentale nell&rsquo;era della propulsione ibrida, altro non &egrave; che l&rsquo;ennesima e ribadita supremazia dell&rsquo;importanza della Macchina sull&rsquo;uomo.&nbsp;  In termini sportivi un pilota, del tutto indipendentemente dalla sue qualit&agrave; o responsabilit&agrave;, &egrave; chiamato a rispondere in prima persona - con penalizzazioni fortissime sullo schieramento di partenza -, della fallibilit&agrave; relativa alle componenti tecniche della sua monoposto, che &egrave; diventata sempre pi&ugrave;, nel bene e anche nel male, la vera protagonista del mondiale, il centro esclusivo e dinamico degli interessi in gioco.&nbsp;  Un pilota non ha pi&ugrave; diritto, come un tempo, a ingaggi e premi di tappa e finali, no, con gli organizzatori non ci parla neanche. Una volta sul podio, non si cinge neppure pi&ugrave; della corona d&rsquo;alloro che impallerebbe gli sponsor rovinando le riprese Tv, spesso non &egrave; il destinatario finale della coppa che riceve. No, no, lui deve solo correre, tacere e obbedire e se parla di fatto con la stampa non dice mai nulla, limitandosi a un salmodiante e lapalissiano blabla, funzionale agli interessi della corporation che lo schiera.&nbsp;  Solo alcuni, tra i conduttori, ricevono uno stipendio degno dell&rsquo;appannaggio di un capo di stato autocrate, tutti gli altri devono sudare pi&ugrave; fuori pista che nell&rsquo;abitacolo, per ramazzare capitali e garantirsi un posto, comunque pericolante all&rsquo;arrivo di un pi&ugrave; sostanzioso e anonimo pagante dotato di superlicenza, meglio se affiliato a un Paese economicamente cos&igrave; in auge da poter ospitare una remunerativa tappa del mondiale.  All&rsquo;alba del terzo milennio, la rivoluzione &egrave; completa.&nbsp;  In F.1 le Macchine hanno preso il posto dell&rsquo;uomo, come fossero all&rsquo;interno di una saga semovente di Terminator riservata a motogeneratori, ormai istituzionalmente priva di colpi di scena.  Un tempo i race fans si distinguevano per il pilota eletto a loro beniamino.&nbsp;  Tifare Jim Clark o Lorenzo Bandini, piuttosto che Gilles Villeneuve o Niki Lauda, ovvero Ayrton Senna o Alain Prost nonch&eacute; Michael Schumacher o Jacques Villeneuve, era una scelta di campo umanissima e pi&ugrave; filosofica che sportiva tout court.&nbsp;  Adesso non pi&ugrave;. Si tifa per una Casa, un marchio, una monoposto a due punte, Ferrari o Mercedes non importa, poi chi la guida, la guida.  E, come nella saga di Terminator, ai romantici non resta che attendere l&rsquo;avvento di un John Connor. Un eroico ragazzo qualsiasi in grado di comandare, un giorno, si spera, la rivolta e la riscossa dell&rsquo;Uomo sulle macchine. 

Il folle sistema delle penalit&agrave; sulle sostituzioni di cambi e motori ne &egrave; l&rsquo;ennesima riprova

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