Formula 1: Abu Dhabi, una pista piatta come il deserto e una puntata di Beautiful

Formula 1: Abu Dhabi, una pista piatta come il deserto e una puntata di Beautiful©  sutton-images.com

L'ultimo Gran Premio 2017 ha offerto lo spettacolo peggiore della stagione e la domanda sorge spontanea: perché si continua a correre a Yas Marina?

Alberto Sabbatini

26.11.2017 20:44

Ma che si corre a fare ad Abu Dhabi? La gara finale della stagione 2017 con la vittoria del trenino Mercedes - Bottas davanti a Hamilton - ha offerto il peggiore show di tutto l’anno. Una tristezza. Macchine in fila indiana staccate di pochissimi secondi una dell’altra ma impossibilitate a superarsi. Fatto salvo il duello Stroll-Grosjean a inizio corsa che ha generato scintille più per l’imperizia dei due piloti che per reale agonismo, per il resto è stata una corsa di una noia mortale

Una volta il mondiale di F1 si decideva su piste vere e combattute. Come Interlagos, Suzuka, Sepang in Malesia. Una volta persino a Jerez - vi ricordate? - dove quell’edizione shock del 1997 vide la toccata di Schumacher a Villeneuve. E prima ancora, fino al 1995, la tappa finale del mondiale F1 si svolgeva in Australia (ad Adelaide) che adesso invece apre la stagione (ma a Melbourne). Tutti circuiti veri, impegnativi, difficili e selettivi. I palcoscenici ideale per giocarsi un mondiale. Scorrendo l’elenco dei ricordi vengono in mente sfide selvagge all’ultimo sangue. Basti ripensare al triello del 2007 a Interlagos, con il giovane Hamilton sulla McLaren contro il compagno di squadra Alonso e contro la Ferrari di Raikkonen, che strappò a sorpresa a Lewis quel titolo mondiale. Il finale più da suspance degli ultimi vent’anni perché non si decise in pista ma tre ore dopo nella stanza dei giudici per una protesta contro la Ferrari (che non  ebbe seguito). Oppure torna a galla il ricordo della beffa subita da Massa l’anno dopo, ancora a Interlagos. Che tagliò il traguardo come campione del mondo virtuale e perse trenta secondi dopo rocambolescamente il titolo per un sorpasso a due curve dalla fine di Hamilton su Glock. Ogni anno è stata sempre una sfida. Dall’esito mai scontato. Spesso resa più imprevedibile dal cambiare delle condizioni climatiche. A Interlagos la pioggia tante volte ha condizionato il risultato finale, come appunto nel 2008.

Ad Abu Dhabi invece, non succede mai nulla. Il Gran Premio fa sorgere aspettative che puntualmente vengono disattese. È una specie di attesa infinita di un fatto che non arriva mai. Questo circuito debuttò in F1 nel 2009, a mondiale già assegnato (a Button con la BrawnGP). E si capì subito che il circuito non era selettivo. All’arrivo ci furono in fila ben staccate fra loro due Red Bull, due BrawnGP, due Toyota. Macchine uguali a coppie. La dimostrazione che il pilota non contava nulla per fare la differenza su quella pista e il tempo lo faceva la macchina. Poi venne il tragico 2010, il ricordo più triste per ogni ferrarista di fede. E quell’errore tattico che entrò nella galleria degli orrori della storia della F1. Con la Ferrari che marcò Webber senza accorgersi che chi si stava involando verso vittoria e titolo era Vettel. La debolezza di Abu Dhabi come circuito si capì quando Alonso, con una Ferrari molto più veloce, non riuscì per tutta la corsa a superare la Renault di Petrov per conquistare quel punto in più che gli avrebbe dato il titolo. Dalla difficoltà di quella gara la Fia maturò l’idea di dotare le monoposto del sistema DRS per facilitare i sorpassi in scia. 

Quell’episodio rivelò tutta l’inconsistenza di Yas Marina come tracciato di Formula Uno. Per quanto il Gran Premio trasudi fasto, splendore e ricchezza, la realtà amara è che si corre su una pista schifosa. Incapace di valorizzare l’agonismo in pista. Un tracciato assolutamente non selettivo. Senza curve veloci che facciano la differenza. C’è un rettilineo infinito che si rivela inutile ai fini dei sorpassi. È piatta come il deserto e monotona come una puntata di “Beautiful”. Nemmeno ai piloti pace guidarci in quel circuito: lo giudicano noioso, ripetitivo e monotono. Il peggiore dei Tilkedromi senza alcun dubbio. Un tracciato che non riesce a fare la differenza tra i più bravi e i più scarsi perché non ci sono curve selettive. Date una Mercedes W08 ad Ericsson a Abu Dhabi, e vedrete che lì e solo lì vincerà lui. 

Ma diamine, con tutto lo spazio che c’è nel deserto perché gli arabi non hanno ricavato delle curve velocissime? Tanto lo spazio per la via di fuga non mancava di certo. Oppure potevano riportare del terreno e inventarsi salite e discese (in Bahrain l’hanno fatto!) per variare un po’ l’altimetria del tracciato. Invece è piatto e ripetitivo come un disco rotto. E non c’è nemmeno l’imprevisto del clima che può cambiare: al massimo durante il GP scende la notte non certo la pioggia. 

Perciò ritorniamo alla domanda iniziale: perché si corre ad Abu Dhabi? Ma è ovvio: per i petrodollari! Tutto risale ad alcuni anni fa. Quando Ecclestone ha cominciato a monetizzare al massimo i ricavi della F1. Dopo aver spremuto TV e sponsor, ha deciso di farsi pagare salato anche dagli organizzatori per portare la F1 su determinati circuiti. Ma finché a pagare erano organizzatori privati (AC Milano per Monza, BRDC per Silverstone, RACE per Barcellona e così via) i prezzi di una gara F1 sono sempre rimasti attorno ai 15/20 milioni di euro. Ma da quando sono scesi in campo i governi di paesi esotici che avevano individuato in un Gran Premio F1 l’occasione ideale per pubblicizzare al mondo il proprio territorio (Singapore, Russia, Azerbaijan, Bahrain, India, Corea) il furbo Ecclestone ha alzato la posta. Ha capito che agli Stati poteva chiedere molti più soldi che a un organizzatore privato. Così dal 2010 in poi è arrivato a triplicare il prezzo alle new entries. Si dice che l’Azerbaijan, l'ultimo arrivato (nel 2016), abbia pagato 60 milioni di dollari all’anno per avere l’onore di inserire la propria corsa nel calendario F1. E chi avrebbe potuto pagare più di tutti se non i ricchissimi sceicchi? 

Così gli emiri di Abu Dhabi, paese che trasuda petrolio, hanno aperto il portafogli pur di assicurarsi ogni anno l’ultima gara della stagione. La più preziosa perché è l’evento che assegna ogni anno il titolo mondiale; e quindi è la più vista in tv nel mondo. Un Gran premio ad Abu Dhabi avrebbe permesso agli sceicchi di pubblicizzare il loro lembo di sabbia come una delle mete turistiche più chic del mondo. Un luogo glamour come Montecarlo, pieno di yacht ai bordi della pista, luci sfarzose e Vip invitati a spese degli arabi per far parlare del GP ovunque. Se avesse orchestrato bene la cosa, Ecclestone avrebbe potuto chiedere agli sceicchi qualsiasi cifra. Infatti ha sparato alto: ha preteso da loro 150 milioni di dollari per portare l’ultima gara del campionato e trasformare il loro paese per una settimana nella Montecarlo d’Arabia. 

Sappiamo com’è finita: i signori del petrolio hanno pagato volentieri e Ecclestone un bel giorno ha sfilato la tappa finale del mondiale ai poveri brasiliani di Interlagos per portare il GP ad Abu Dhabi. 

L’unico problema per Ecclestone è stato garantire agli arabi la certezza che il mondiale si sarebbe deciso lì, altrimenti l'attenzione mediatica sarebbe calata. Per quello che, assegnando l’ultima gara ad Abu Dhabi, Bernie si inventò anche il raddoppio dei punti in palio nell’ultima corsa (da 25 a 50 per il vincitore). In questo modo i giochi sarebbero rimasti comunque aperti fino al termine. 

Mai come in questo caso sarebbe da dire: sotto il vestito niente. Gratta gratta, sotto la superficie dorata c'è ben poco di speciale. Abu Dhabi resta comunque un luogo artificiale e privo di anima: è banale il circuito, è squallido il panorama desertico, sono inutili gli yacht sui moli perché non c’è un mare così bello su cui navigare. Avete mai visto uno sceicco andare in vacanza ad Abu Dhabi? È più facile trovarlo in Sardegna. Ma Liberty Media, anche se teorizza spettacolo, tiene anche lei ai soldi come Ecclestone. Quindi è probabile che ci terremo l’ultima gara del mondiale F1 ad Abu Dhabi ancora a lungo.

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