Il Caso Giunti

Il Caso Giunti
La sua scomparsa nel gennaio del 1971, in Argentina, fu per il mondo dell'automobilismo qualcosa di sconvolgente. E AS passò dalla difesa delle corse alla richiesta di giustizia

29.01.2013 ( Aggiornata il 29.01.2013 14:05 )

Ogni maledetto gennaio la testa torna là. All’apocalisse del 38° passaggio della 1000 Km di Buenos Aires 1971, quando Beltoise spinge la sua Matra in panne secca tagliando il rampino che porta al traguardo, mentre una torma di prototipi da giri e giri continua a sventagliargli al fianco. Fino a che la 512 della Filipinetti guidata da Parkes fa il pelo alla tartaruga blu e la 312 Pb, nella sua scia, la centra e deflagra. Perché quella palla di fuoco non è solo cronaca d’una tragedia evitabile che rapisce un pilota forte e uno uomo stupendo, un 29enne pieno di sogni, no, resta ormai inchiodata nell’anima come un’epopea giornalistica, un inceppo di civiltà, vergogna che diventa dibattito, confronto al calor bianco, riflessione e azione. Un’elica del dna di Autosprint che da allora non ha mai più smesso di girare. Sì, morte che lentamente un po’ ritrascolora in vita. Perché da lì in poi tante cose cominciano a cambiare. Il telex batte: «Giunti est morto» E’ un altrove diverso, quello del Dramma Giunti, un mondo che visto dal futuro sembra irriconoscibile, col mondiale Marche che conta più della F.1, i piloti quanto se non più delle macchine e il Rischio sopra ogni altra cosa. Non c’è diretta televisiva, da noi si può sperare solo su qualche flash radiofonico o su marchingegni di redazione. San Lazzaro di Savena, Bologna, 10 gennaio 1971, ore 14,40 italiana. Il telex di Autosprint picchetta spietato tre parole: «Giunti est morto». Il direttore Marcello Sabbatini sa che avrà pochi minuti per sfogarsi d’essere un uomo distrutto e piangere un amico. Di là nell’ufficio ha una penna d’argento e s’aggrapperà a quella per ritrasformarsi in qualcuno e in qualcosa d’assai diverso. Gliel’ha regalata Ignazio nei giorni felici con questa dedica: «Quella d’oro dovrai meritartela...». Marcello piange, pensa e scrive. Già, lui, il difensore delle corse, corifeo del diritto di mettere in palio la pelle per una passione, cantore inesausto dei Cavalieri del Rischio, in un mondo ostile in cui ogni tre per due si riaccende il dibattito sull’opportunità di abolire le competizioni. Fuori dalla porta il telefono trilla martirizzante, migliaia di lettori vogliono saperne di più. Per rispondere viene ingaggiato il 13enne Alberto, figlio di Marcello medesimo, che emozionato fa quel che può. Fuori dalla casa editrice, l’Italia aspetta. Non solo di sapere, ma di capire. Perché? Perché? Perché? A sei mesi da Italia-Germania 4-3, chi e che cosa hanno bruciato una vita e il sogno di quella piccola Ferrari mundial in testa che nel gioco dei rifornimenti stava ridicolizzando le mostruose Porsche 917? E adesso? Basta corse? Mai più un italiano a Maranello? Autosprint, edizione straordinaria Il settimanale da corsa esce lunedì 11 gennaio 1971 alato dall’agilità tumultuosa di un quotidiano, in edizione straordinaria, con la coperta in biancoenero, perché a colori si potrebbe solo se precotta. In primo piano c’è Ignazio in piedi, in testa il casco con la meravigliosa aquila asburgica, mentre al centro eccolo sfrecciare sulla 312Pb 3000 cc del giorno prima, col n.24 che sulla destra reca l’adesivo dello sponsor e organizzatore argentino Ypf. Mai Autosprint ha messo in prima pagina roba così fresca. Il titolo è una fucilata: «Stavolta (purtroppo) sappiamo PERCHE’». Il direttore ha scelto. Aveva due soli uomini in Argentina, il fido inviato Franco Lini, già “diesse Ferrari” e il locale Augusto C. Bonzi, più in appoggio Lino Ceccarelli, uomo Rai, lì per la radio. Sono bastati. Perché le testimonianze paiono ampie e la documentazione schiacciante. Autosprint ha una rotta nuova. Il suo direttore ha deposto la toga culturale del difensore d’ufficio delle corse, per andarsi a sedere sui banchi del pubblico ministero e pronunciare una requisitoria terrificante. Basta difese d’ufficio, le competizioni devono e possono essere più sicure e quella di Buones Aires non lo era. Il 10 gennaio 1971 è la domenica dei vigliacchi, perché Ignazio Giunti non è solo morto, è stato ucciso. Dall’incoscienza di Beltoise, dall’incompetenza dei commissari che non l’hanno fermato, dall’incapacità del direttore di gara e dalle responsabilità degli organizzatori. Sì alle corse, per sempre, ma mai più così. Una posizione autonoma, coraggiosa, che coglie d’infilata l’intero mondo delle competizioni stordendolo e facendolo vacillare e riflettere non meno della tragedia appena avvenuta. Giunti come il Caso Moro E nelle tumultuose settimane successive il Dramma Giunti si trasforma per il nostro piccolo mondo in ciò che sette anni dopo il Caso Moro diverrà per la società civile. Un che di tellurico e destabilizzante. Nessuno dei protagonisti si sottrarrà, tutti prenderanno posizione, ciascuno con una sua parte di verità, di politica e di mistero da svelare e allo stesso tempo custodire. Tutti a parte Autosprint, col direttore che continua a suonare la carica e a volere giustizia per Ignazio e un automobilismo più giusto, dalla prossima corsa in poi. Il ruolo dell’avversario in questo thriller spetta mica a uno qualsiasi, no, tocca al più grande campione della F.1 di tutti i tempi, Juan-Manuel Fangio, che Sabbatini definisce “il cosiddetto direttore di corsa” della 1000 Km di Buenos Aires. Fangio si discolpa e discolpa tutti dicendo secco: «Io penso che in quelle circostanze si sia compiuto per fatalità un tragico destino. Tra l’altro il decesso di Giunti è avvenuto per l’urto tremendo ricevuto, non per le ustioni. Il circuito è sicuro, in fondo è morto solo Ignazio». Fangio dimentica che nella calca di gente successiva al crash un fotografo ha perso l’equilibrio, è precipitato dalla terrazza della pit-lane e s’è sfracellato al suolo. I morti, a contarli, sono due. Una foto drammatica ritrae proprio Beltoise che torna con lo sguardo allucinato ai box, col cadavere del reporter che giace dietro di lui. E Fangio poi continua: «Peccato che l’Italia abbia perso un altro grande esponente, l’ennesimo campione dopo Ascari, Castellotti, Bonetto, Bandini e Scarfiotti». Su questo, almeno, ha ragione. Beltoise, disperato, braccato, trafitto dal senso di colpa ma anche nel pieno diritto di difendersi, s’agita come può, alternando parole che sembrano un’ammissione di responsabilità a sussulti d’orgoglio misto a buona fede. Parkes conferma che le bandiere gialle erano visibili, sostiene d’aver rallentato schivando la Matra e poi dice chiaro: «Buenos Aires non è Le Mans. Quando avremo organizzazioni più professionali, certe cose non accadranno più». Il fronte dei francesi - in testa L’Equipe e il cronista Johnny Rives più il giovane pilota Cevert, uomo Matra - difende compatto Beltoise, dicendo che Giunti girava in 1’53” e il 37esimo giro, il penultimo, in 1’52”99, a 24 centesimi dalla pole detenuta da lui e Merzario, malgrado da diverse tornate incombesse una situazione di pericolo e i banderilleros sventolasserro le gialle. Beltoise a un certo punto spara secco: «Giunti ha commesso un errore di calcolo e di manovra, io stesso sono vivo per miracolo». Pure Ickx è nel mirino perché ha detto: «Chi non ha mai spinto la propria vettura su un circuito scagli la prima pietra. Non troverete nel regolamento internazionale la proibizione di un pilota a spingerla». Gli fa eco da Monza l’autorevole Giuseppe Bacciagaluppi: «In F.1 è vietato spingere la vettura se non per portarla fuori dall’asfalto. Nel Mondiale marche è vero che non c’è alcuna norma in proposito, ci si rifà ai regolamenti particolari degli organizzatori». Ma occhio, perché As svela che l’articolo 16 del regolamento della 1000 Km di Buenos Aires recita chiaro: «Il pilota fermo in qualsiasi punto del circuito deve immediatamente rimuovere la sua vettura dalla sede stradale o porla in una posizione che non danneggi le altre vetture in gara». Andrea De Adamich, punta Alfa Romeo, brilla per lucidità e cautela, un po’ come la Ferrari, che non ha nulla da rimproverarsi e che si rimette alle conclusioni che tirerà l’autorità sportiva nazionale, la quale, ovvio, è in attesa di conoscere gli approdi della commissione d’inchiesta nominata dalla Commissione Sportiva Internazionale (la Csi), ente di potere di base politica chiaramente francofona. Verso la condanna Autosprint non molla. In collaborazione con l’autorevole quotidiano argentino “Clarin”, pubblica tutta la sequenza fotografica del dramma con titoli inequivocabili: “Contro ogni regola”, “Anatomia di un delitto” e “Verità per l’Aquila”. Dall’America Mario Andretti fa sapere che: «La fine di Ignazio è dovuta ai sistemi di sicurezza inadeguati adottati in Europa e sugli autodromi sudamericani. Negli Usa Giunti non sarebbe mai morto in circostanze simili». Prende posizione addirittura la sigla dirigente statunitense, la Usac: «Gli argentini hanno mostrato lacune ed è tempo di chiudere il loro circuito come è già accaduto per il Messico». A Kyalami, in occasione del Gp del Sudafrica, si riunisce la Grand Prix Driver Association - con Bonnier presidente, Stewart leader e tutti i big della F.1 - la quale adombra un concorso di colpa tra Beltoise che ha spinto la macchina contro i regolamenti, i commissari che non gli hanno impedito di farlo e Giunti che non ha rallentato in presenza delle bandiere gialle agitate. Stavolta Marcello si arrabbia come un bufalo e titola su Autosprint: “Gpda sta per Gran Pilati dell’Accomodamento”. Cioè, se han colpa tutti, va a finire che alla fine non ha torto nessuno... Ciò è semplicemente inaccettabile. Alla fine per Beltoise si parla di sei mesi di stacco, ma se la caverà con una squalifica reale di tre mesi e di fatto perderà solo tre corse. Il senso di tutto Eppure il Dramma Giunti resta una pietra dolorosamente miliare nella storia della sicurezza nelle corse. Quel giorno Arturo Merzario era ai box di Buenos Aires, pronto a dare il cambio a Ignazio - così come Jabouille era tutto bardato per rilevare Beltoise -, col casco già in testa e il suo punto di vista da allora si è focalizzato sulla prospettiva piuttosto che sul fatto di cronaca: «Voglio andare al di là dell’evento terribile e dire che quell’episodio servì per aprire una riflessione. Travagliata, dolorosa ma priva di preconcetti. Fatta di voglia di non ricadere negli stessi errori. Fu uno degli episodi capisaldi in cui le corse cominciarono riflettere sugli errori compiuti. La posizione di Marcello Sabbatini fu decisiva e servì soprattutto a questo. A rendere più consapevole la coscienza degli addetti ai lavori. Per il resto Beltoise fu vittima delle circostanze. In quei tempi, se non riportavi la macchina ai box, anche se a spinta, il tuo team ti fucilava. Per questo compiango Ignazio, era un amico, e nello stesso tempo capisco Jean-Pierre». La posizione di Autosprint e Marcello Sabbatini farà scuola. E purtroppo tornerà buona nell’altra domenica dei Vigliacchi, al Gp d’Olanda 1973, a Zandvoort, quando il giovane Roger Williamson morirà nel rogo della sua March, con gli addetti ai lavori inetti a spegnere le fiamme e aiutati dal solo eroico David Purley. Il piccolo grande Purley, non a caso premiato a fine anno per il coraggio da Autosprint, in quello che resta nella memoria di tutti come il più grande applauso mai scrosciato in tutta la storia dei Caschi d’Oro. E ora, se le cose sono cambiate, anche se purtroppo non in fretta, si può dire che il sacrificio di Giunti e Williamson non fu vano, così come non restarono lettera morta le campagne promosse da As. di Mario Donnini da Autosprint n.4 del 29 gennaio 2013  

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