Il più forte è Hamilton, quindi tifo Rosberg

Il più forte è Hamilton, quindi tifo Rosberg© sutton-images.com

Nico è simbolo universale di chi migliora e lotta per cambiare il suo destino

27.09.2016 10:03

Fosse per quanto il mondiale di F.1 è argenteo, monocorde e monomarca da tre anni a oggi, sarei tentato di non tifare nessuno dei duellanti Mercedes, in questo finale di campionato. 

In fondo, non sono mica pagato per farlo, anzi, tutt’altro: di fronte a Hamilton e Rosberg dovrei deontologicamente sfoggiare la fredda e serena imparzialità al titanio d’una riottosa vergine islandese davanti a due ormonali bagnini di Misano Brasile.

Eppure la faccenda non sta esattamente così, perché dietro Lewis e Nico brulicano e confliggono, come ologrammi complessi, le proiezioni di ciò che i due rispettivamente sono e rappresentano nel Circus e soprattutto tra la gente, a questo punto del narrato.

Poche storie, oggettivamente Lewis Hamilton, pur inseguendo a una manciata di punti, è geneticamente il più veloce e il più forte dei due. 

Demoniaco sul giro secco, l’inglese resta il più grande sorpassatore nella storia recente della F.1 - fosse per due trapani come lui e Ricciardo, il Drs sarebbe il Cialis degli altri - e un vero martello quando in gara comincia a picchiare a suon di sequenze di giri estremi, financo confortato da una monoposto che fa sembrare austeri autobus le altre. 

Di più. Lewis Hamilton, fine e fino pure sul bagnato, è per la F.1 quello che Sugar Ray Leonard è stato nel pugilato per i pesi welter: classe innata allo stato purissimo e adamantino.

La sua unica fragilità, a tratti intermittente, pare più di natura caratteriale che tattica. Rarissimamente accusa black-out in prova o in gara, e, quando ne ha, sbaglia, soffre e si complica la vita. 

Ma sono attimi, gocce, turaccioli misteriosi in un mare cristallino e nobile di prestazioni pervicacemente al limite delle capacità umane specifiche. 

E i suoi errori non rassicurano i rivali, altroché, al contrario, sono puntualmente prodromi di redenzioni devastanti - mi viene in mente una frase famosa detta da nonricordochi: “i difetti dei grandi sono la consolazione degli imbecilli” - perché subito dopo generano riscosse semplicemente terribili, capaci di dar vita a sequenze virtuose, foriere di strisce annichilenti e vincenti. 

Entrando nello specifico, fin dai tempi del kart, Lewis Hamilton è l’incubo esistenziale di Nico Rosberg. Coccolato da Ron Dennis il primo, spinto dal padre, il secondo. 

Coetanei classe 1985, paradossalmente il più giovane è Nico, di sei mesetti, anche se Lewis agli inizi propedeutici gli è sempre stato un anno dietro nello sviluppo agonistico della carriera. Ma laddove il bravo tedesco perdeva di poco o vinceva, vedi rispettivamente Euro F.3 e Gp2, l’anno dopo arrivava il sensazionale inglese destando meraviglia, cancellandone il ricordo e facendogli retroattivamente e ansiogenamente ombra. 

Poi è arrivata la F.1 per entrambi. Dal 2006 in Williams per Nico e dal 2007 alla McLaren per Lewis, e il sorpasso è stato bello sverniciante. 

Hamilton subito quasi iridato da rookie e poi campione del mondo nel 2008, ciao, punto. 

Nico a remare con la Williams, mostrandosi a tratti velocissimo e artigliando perfino un podio, correndo per quattr’anni come uno che non ha niente da perdere al volante d’una monoposto che non avrebbe avuto niente da vincere.

La grande rivalutazione Rosberg l’ha vissuta passando alla neonata MercedesGp nel 2010 - nata sulle ceneri della BrawnGp -, confrontandosi per tre anni filati col ritornante e leggendario Michael Schumacher, nonché battendolo sul giro secco, assommando regolarmente più punti del mito e riuscendo a cogliere la prima vittoria della squadra, nello storico Gp di Cina 2012. 

E dire che Schumi in quel triennio non è affatto bollito, anzi, guida benissimo, ma va in confusione soprattutto per il divieto di test e nella gestione delle gomme ad alto degrado, caratteristiche distintive di una nuova F.1 che esalta invece l’adattabilità flessibile e iperconsistente del Nico medesimo, che esce credibilmente ingigantito dallo spietato confronto. Tanto che alla fine, previo l’arrivo in Mercedes di Hamilton in chiave 2013, costringe Michael a un’immeritata e altrimenti non sognata pensione agonistica.

Il resto - un anno di motori aspirati, poi tre di era ibrida -, è storia recente. 

Senza sfighe, complicazioni o errori, l’incubo Lewis arriva e fa puntualmente bubù al povero Nico, al quale non resta che dire settete. Senza fantasmagorici doppi punteggi finali pure l’esito del confronto nel 2014 sarebbe puntualmente scontato anzitempo, come del resto avviene 2015.

Poi da fine 2015 qualcosa cambia, perché Nico, insospettabilmente, sorprendentemente e costantemente, sembra cambiare e potenziarsi, evolvendo tale e quale un pokemon ritrovato, un missile umano che scova nei reconditi angoli delle eliche del dna carburanti e comburenti nuovi, i quali deflagrano regalandogli d’amblé sequenze vittoriose, pole cattive, partenze belle ignoranti e gare inscalfibili al comando, il tutto incorniciato da una fresca maschera facciale aggressivamente sorridente e determinata. Frutto d’una psicologia neocorazzata e di un rito di passaggio esistenziale che irrora entusiasmo a tutti coloro che credono impossibile trarre forza dalle proprie sconfitte e capacità dalle delusioni più dirimenti.

Il Rosberg 2016 è il ragazzo che è sempre stato, intelligente, ironico, diretto e gravedole, certe volte pure paraculo, unito però al pilota che ha sempre sognato di essere: non più solo velocissimo, ma anche decisamente rognoso da battere in quella torturante attraversata del deserto psichico che è la lotta per il titolo mondiale, mai come quest’anno così lunga da sembrare infinita.

L’abbacinante e affascinante metamorfosi intracutanea di Nico - pur non esente da ricadute - è tutta qui. Superando la parte fragile di se stesso, le paure recondite e lavorando meravigliosamente sulle sue debolezze, è riuscito a costruire un’alternativa credibile, credibilissima a quello che sembrava un limite certificato e invalicabile: il confronto diretto e spietato col compagno di squadra atavicamente destinato a beffarlo. 

Chiaro, il meglio di sé il tedesco lo dà guidando da solo e senza lotte dirette e a coltello. Il weekend ideale per lui resta formato da un giro stellare da pole, un via da alieno e una fuga incontrastata, in caso contrario la fisiologica vulnerabilità può riemergere.

Eppure, detto ciò, Nico Rosberg in questo momento non solo è una bella realtà per la F.1, ma incarna una stupenda ed esemplare lezione sfrecciante. Per tutti noi. 

In fondo Hamilton esistenzialmente è sempre più un ex ragazzo quasi povero che si comporta gioisamente e giustamente da ricco, vivendo dionisicamente una vita divisa tra prodezze in pista e patinate apparizioni da rockstar bardata da rapper. 

Nico, invece, percorre biograficamente l’esatto cammino inverso. Nato sazio e monegasco, nella sua metamorfosi aggressiva e feconda si muove sempre più da ragazzo ricco che agonisticamente comincia a sfoggiare la fame e l’aggressività del povero, puntuando con quieta ossessione - si passi la para-endiadi - alla svolta della vita, al salto di qualità, all’estrinsecazione di un’insopprimibile volontà di potenza verso quell’iride che strabilierebbe a pari merito se stesso e il mondo.

Ed è bello pensare che questa fame atavica Rosberg jr l’abbia pescata né più e né meno nel vissuto di suo padre Keke, che prima di incardinarlo in un superattico a Montecarlo visse la carriera del funambolo squattrinato delle piste, da gemello aggressivo di Gilles Villeneuve in F.Atlantic, sfoggiando capolavori d’arte povera e soffrendo le pene dell’inferno in F.1 con Teddy Yip e Fittipaldi, prima di trovare il riscatto agonistico proprio con la Williams, nel 1982, vincendo un titolo mondiale per lui fortunosissimo, sissignori, ma non immeritato.

E così facendo ora Nico assurge a nuova metafora vivente e sfavorita dalla logica che tenta la sfida impossibile, confortato dalla dignità agonistica ritrovata di colui che inconsapevolmente sale sul ring per gli ultimi decisivi round di questa sfida. 

Masticando la stessa frase che balenò in testa a Muhammad Ali nel 1974, all’ottava ripresa di Kinshasa, nel cuore dell’Africa Nera, quando vide aprirsi un varco nella difesa dell’invincibile e spaventoso George Foreman: «Se vince lui, sarà solo logico e un po’ triste per tutti, ma se lo butto giù io, insegnerò all’Uomo a non arrendersi mai». Fosse anche solo per questo, da ora e fino alla fine, tieni giù il piede, Nico.

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