Ma piantatevela con le corse di auto-robot senza pilota!

Ma piantatevela con le corse di auto-robot senza pilota!

La prima Roborace disputata a Buenos Aires fa suonare un inquietante campanello d'allarme

28.02.2017 10:05

Segnatevelo: la Roborace ormai è realtà. 

Ecco, nell’antico libro ultrasecolare della storia delle corse, le macchine son passate in vantaggio sugli uomini, disputando una gara in più.

Eh, sì, dieci giorni fa, come corsa di contorno alla terza tappa del campionato per monoposto elettriche in Argentina, a Buenos Aires, DevBot, il prototipo su cui si sta sviluppando il sistema, basato su una Ginetta LmP3, è  sceso in pista per la prima volta in due esemplari a piloti contumaci e guida autonoma, dando vita all’inaugurale, fatidica, indimenticabile e credibilissima prima sfida driveless della storia. 

Gara vera. Match race, uno contro uno. 

Niente conduttori a bordo per 35 giri, all’interno di una lotta decisa sul più bello da un incidente dell’auto robot numero 2, mentre la numero 1 vincente a fine evento ha incamerato pure il vanto d’aver disciplinatamente schivato, strada facendo, un cane che aveva invaso il circuito.

Cioè, momento. Qui sarà bene che ci mettiamo d’accordo - così come accade nel periglioso campo minato delle manipolazioni genetiche -, ancor prima d’andare avanti, per stabilire una scala di valori condivisi, perché, as ever, senza essa non si va da nessuna parte.

Insomma, tornando a noi: l’uomo è fatto per la macchina o è la macchina fatta per l’uomo? Quale dei due rappresenta l’entità morale essenziale e indefettibile, rispetto all’altra? Se non appare possibile una corsa automobilistica senza macchine, altrimenti è podismo, è filosoficamente accettabile una competizione senza uomini sfreccianti e incardinati nel mezzo semovente? 

Certo, l’uomo medesimo in realtà c’è eccome, risponderebbero i puristi del futurismo robotico-agonistico. Solo che aziona un remote control e se ne sta in panciolle altrove, a dirigere il metallo schizzante sull'asfalto.

Ah, sì?

Be’ che senso ha una corsa - anzi è una corsa? -, un cimento in cui il pilota se ne sta seduto in camiciola al fresco, fermo, buono e satollo, davanti a un computer, con la minima a 80 pulsazioni, mentre la sua vettura là fuori sfida le consorelle a qualche centinaio di metri di distanza e di chilometri all'ora?

Che senso ha fare tutto questo in nome del progresso, con la scusa che il perfezionamento del sistema un giorno porterà a far sparire gli incidenti su strada, su vetture eterodirette e infallibili?

Che senso morale ha ridurre l’abilità di guida a asettici percorsi driveless, in cui il pilota appare fisicamente assente e per definizione è escluso completamente dal concetto di rischio?

E ha senso etico che il rischio stesso, sul piano teorico, resti ormai condiviso solo dai residuali elementi umani della competizione, cioè spettatori e commissari di pista?

No, fermi tutti, cari tecnocrati.

Già ci provano in tanti e in troppi a ridurre le corse a una via di mezzo tra il luna park e un asettico laboratorio a scopo di lucro. 

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Da anni e anni la parte più poetica, dionisiaca, pulsionale e fondante dell’uomo è espulsa dai più esasperati sistemi di gestione di una competizione sul piano politico, tecnologico, agonistico, dialettico e mediatico, vedi gli schifi cui assistiamo ogni tre per due nella Formula 1 moderna e non solo.

Tanto che certe volte verrebbe da dire che c’era più umanità qualitativa in una sbandata in curva di Ronnie Peterson o in una battuta di Graham Hill, che in dieci anni d’evoluzione del Kers o in quattro decadi d’effetto suolo.

Ecco, non paghi di ciò, adesso stiamo muovendoci giulivi a ampie falcate verso la dimostrazione della non indispensabilità del pilota, con la rimozione totale del rischio, quindi dell’adrenalina, cioè della pressione psicologica istintuale che le competizioni VERE esercitano e stimolano in chi guida davvero e non si limita a gestire consolle, joystick e comandi. Come in una lugubre Playstation o Xbox capace di manipolare, muovere e animare fuori da sé un mondo realissimo e palpabile.

Tale e quale a preferire un burocrate pilota di droni a Charles Lindbergh e a Francesco Baracca.

Ecco, pensiamoci.

Per decenni abbiamo combattuto le gare abusive, giustamente criticandole perché prive degli elementi minimi per essere definite legali e regolari e poi ora accettiamo competizioni nelle quali manca il più elementare dei pre-requisiti: la presenza di un umano al volante.

Che poi, intendiamoci, muovere e veder correre fisicamente una macchina vuota in remote control è il gioco più vecchio del mondo.

Tra gli appassionati duri e puri delle corse che leggono queste righe - compreso il sottoscritto, che le scrive come può -, chi è oltre la quarantina ha trascorso pomeriggi memorabili tra macchinine elettriche e pistacce da pelo, con tanto d’ottovolante tra Politoys, Politistil, Matchbox, Aurora Afx o Carrera che fossero. 

Tutti noi a turno ci siam divertiti e magari ci divertiamo ancora come scemi, sudando, sfidandoci e ridendo. Perfino sospendendo l’incredulità, fingendoci campioni col pulsante dell’acceleratore in mano o eroi, come quando eravamo vestiti da Zorro alla festa di Carnevale.

Ebbene sì, noi tutti a turno siamo stati pionieri di slot-car e simili, mini Roborace embrionali sulle soffitte di casa o nel tinello d’un amico, all’ora di merenda.

Ma sempre pensando che fosse e che sia un gioco sideralmente diverso e neppure imparentabile alle corse vere.

Ecco, la cosa allucinante delle Roborace emergenti non è tanto che facciano a meno dell’uomo al volante, quindi, ma è che si prendano tremendamente e terribilmente sul serio. Così come i robot pugili del WRB, il campionato mondiale di boxe tra robot, nel film “Real Steel” - prodotto mica a caso da Spielberg e Zemeckis -, tanto da meritare una semplice esortazione. Questa: piantatevela. 

Lasciate stare. 

Di competizioni fasulle con uomini belli comodi che s’attaccano e si sfidano nascosti chissadove come broker, politici o capitani d’industria virtuali, è già bell’e piena la nauseante realtà d’oggi. 

Se da più di cent’anni le corse fanno innamorare per sempre chi ha la sensibilità d’amarle, è perché hanno e presentano orgogliosamente tutto ciò di cui le gare driveless fanno a meno: il rischio, gestito e subìto da un essere senziente, fallibile e vulnerabile. Che si mette in gioco nelle realtà. Sfrecciando e logorandosi fisicamente, emotivamente nonché esistenzialmente di suo, mentre insegue un sogno.

Per questo il vero progresso, alla luce dei princìpi esposti, è lasciare ben lontani i robot dalle piste e dalle sfide tra loro. 

E semmai obbligandoli, quando incontrano un pilota vero, a dargli del lei e a infilarsi una scopa nello splitter, per spicciargli casa.

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