La F1 si sta rivelando il mondiale degli errori terribili. Dall’inizio dell’anno è stato tutto un alternarsi al comando fra Ferrari e Mercedes, fra Vettel e Hamilton. Ma con alti e bassi clamorosi come non se ne erano mai visti in tanti anni di Formula Uno ibrida. La classifica iridata ha cambiato leader tante volte quest’anno, però non nel modo lineare e prevedibile con cui avveniva una volta. Nel 2017 l’andamento in campionato era stato abbastanza scontato: che vincesse Hamilton o che dominasse Vettel, l’avversario diretto nella maggior parte delle corse finiva quasi sempre alle spalle del vincitore. E perciò perdeva soltanto una manciata di punti. Al massimo sette quando andava bene (divario primo-secondo), appena tre quando andava male. Nessuno commetteva sbagli clamorosi; quasi mai si sprecavano occasioni o si gettavano via punti pesanti fino almeno a dopo l’estate quando la Mercedes aveva innescato un filotto di successi.
Quest’anno invece le cose sono andate molto diversamente. A decidere finora il campionato non sono state tanto le performance delle monoposto, quanto una serie di errori terribili che hanno scombussolato gare e classifiche. Sbagli clamorosi, errori tattici al muretto box, ingenuità inspiegabili, errori di guida dei piloti, guasti che un tempo erano imprevedibili. È toccato alla Ferrari, è capitato a Vettel, ma ne ha fatto le spese soprattutto la Mercedes. L’elenco è lungo.
La Mercedes ha mostrato in più occasioni una debolezza tattica inconcepibile per una squadra così rigorosa nelle sue programmazioni scrupolose. E mica hanno sbagliato una volta sola! Le ingenuità tattiche dei tedeschi sono state ripetute e inspiegabili. Mercedes ha cominciato la stagione sbagliando clamorosamente la strategia sotto virtual safety car alla prima corsa in Australia e ha ripetuto l’identico errore nell’ultimo GP in Austria. Quando si sono dimenticati di fermare Hamilton per cambiare le gomme in regime di virtual safety car. Proprio come a Melbourne. In entrambi i casi una “dormita” clamorosa in una fase cruciale di neutralizzazione della gara che ha compromesso la vittoria e favorito clamorosamente Vettel e la Ferrari. Lasciamo stare che poi il guasto sulla W09 al Red Bull Ring abbia compromesso la corsa: vittoria e podio però se ne erano comunque già andati in fumo per quell’errore tattico dopo 13 giri.
Altra debolezza della Mercedes è la (scarsa) visione tattica della gara che dimostra il suo pilota. Quante volte quest’anno abbiamo sentito Hamilton chiedere smarrito via radio al suo box: “Spiegatemi perché da primo che ero, sono diventato improvvisamente quarto? Che è successo??”. Questi dialoghi via radio di Lewis dimostrano una cosa inequivocabile: che il quattro volte iridato inglese non possiede il senso della corsa. È il suo punto debole più grave. Lewis dimostra una velocità pura ineguagliabile sul giro secco e sul passo gara. Però non ha la visione della corsa. Non si rende conto di quel che gli succede attorno in pista. È capace di pestare sul gas, ma deve farsi “guidare” dai box sul ritmo di gara e sulle tattiche. Gli manca quella dote unica e speciale, per un pilota, di “capire” cosa sta succedendo in corsa davanti e dietro di te, elaborare in fretta con la mente una strategia di gara a medio termine in funzione di come si sta sviluppando il GP e seguirla con determinazione per ottenere il massimo risultato possibile. Quella dote che gli addetti ai lavori, nel gergo delle corse, definiscono la capacità di fare in modo che la gara “ti venga incontro”. Che per un pilota vuol dire mettersi nelle condizioni ideali per prevedere l’evoluzione degli eventi e trarne vantaggio.
È un’arte in cui per esempio Alonso nei suoi anni in Ferrari si era dimostrato un maestro. Quante corse ha vinto Fernando perché ha saputo aspettare e attaccare nel momento giusto? Prima di Fernando il migliore di tutti nell’utilizzare questa tecnica - che richiede freddezza, velocità e intelligenza tattica - era stato Alain Prost. Che non a caso si era guadagnato il soprannome di “professore”. Perché sapeva sempre cosa fare al momento giusto. A Hamilton manca proprio questo. E rischia di pagarne care le conseguenze in un mondiale così serrato dove i rivali, come insegna il GP d’Austria, cominciano ad essere due o tre e non uno soltanto.
Ma anche Vettel non si è dimostrato esente dagli errori terribili. Ne abbiamo avuto la dimostrazione in tre degli ultimi sei Gran Premi. Fra Azerbaijan, Francia e Austria, per una serie di errori di guida o per troppa foga, Vettel ha sprecato malamente tre occasioni d’oro. In Azerbaijan era secondo e per attaccare con eccesso di foga Bottas negli ultimi giri è andato lungo e ha perso il podio finendo quarto. Poi c’è stato l’errore al Castellet al via: quella frenata ritardata e la tamponata, sempre a Bottas, che gli è costata un’ala rotta e 5 secondi di penalità. Da potenziale secondo a quinto al traguardo. Al Red Bull Ring, invece, la leggerezza compiuta in qualifica di non spostarsi al termine del giro veloce gli è valsa, come ricordiamo ahimé bene, la retrocessione in terza fila e probabilmente la vittoria. Perché se fosse partito davanti a Verstappen, per come è andata la gara e per come la Ferrari si è dimostrata “gentile” sulle gomme, lì davanti sarebbe rimasto. E avrebbe vinto.
In totale fanno un terzo, un quarto e un quinto posto invece che potenzialmente due secondi posti e una vittoria. Con i “se” e i “ma” non si fa la storia, ma viene l’amaro in bocca pensando che Vettel ha lasciato per strada in quelle tre gare la bellezza di 24 punti che avrebbero dato un significato ben diverso all’attuale classifica iridata. L’equivalente di una vittoria di vantaggio. Che voleva dire correre le prossime corse senza l’affanno costante di dover battere a tutti i costi l’avversario. Affrontare i GP con la confortante consapevolezza di poter ragionare prima di affondare il colpo. Invece no. Per fortuna (del Cavallino) che pure gli ingegneri Mercedes si sono messi a compiere errori anche loro. Fra sbagli di progettazione ed errori sul controllo qualità, anche i superpotenti V6 anglo-tedeschi, che a inizio stagione erano solidi come il tungsteno, ora sono diventati fragili come cristallo.
Per cui, mai come in questa calda fase del mondiale - tre gare in 4 settimane prima della pausa estiva - viene buona la vecchia regola del maestro di strategie, il professor Alain Prost. Che diceva che i mondiali si vincono non a suon di vittorie, ma di punti “pesanti”. Cioé quei piazzamenti di cui far tesoro quando proprio non si riesce a vincere e che a fine stagione faranno la differenza. Sono gli stessi punti “pesanti” conquistati in Austria che hanno riportato Vettel e la Ferrari in testa al campionato. D’ora in poi Seb e Kimi non dovranno lasciarne per strada nemmeno uno. Prima che la Mercedes si riorganizzi.