Velocissimo, grintoso, sorprendente. Che Michele Alboreto fosse un pilota da tenere sotto osservazione lo si era capito fin dalle sue prime esperienze alle soglie del professionismo. Aveva molta fame e voglia di arrivare. Ci fu una corsa, a Varano de Melegari nel 1979, nella quale fece arrabbiare molti colleghi: in pista era il più veloce con la March-Alfa Romeo del team Euroracing. Ma ne combinò una più del diavolo: vinse la propria batteria, la seconda - all’epoca la categoria era affollatissima - ma in finale non andò oltre il quarto posto dietro a Ghinzani, Rossi e Campominosi a causa di una condotta troppo garibaldina, in virtù della quale venne a contatto con più di un rivale. Quella sua voglia irrefrenabile lo ha proiettato verso il successo. Era un cavallo di razza, autore di sorprendenti debutti in ogni categoria alla quale ha preso parte. Della stessa generazione di Alain Prost, Michele era cresciuto in un automobilismo dove per arrivare al vertice, al professionismo, bisognava vincere. Non c’erano mezze misure: o si andava forte o si rientrava a casa per appendere il casco al chiodo, chiudendo con i sogni di affermazione. È anche per questo che Alboreto ha rappresentato per la Ferrari un valore aggiunto. Non si è mai abbattuto di fronte alle numerose difficoltà tecniche incontrate nelle sue stagioni a Maranello. Ha lavorato con molti direttori sportivi e con molti ingegneri. Ha suggerito e si è confrontato perché il suo talento era tale da permettergli di essere velocissimo e altrettanto sensibile alle modifiche effettuate sulla monoposto. La carriera a Maranello è stata costante. Ha vinto nel 1984 e nel 1985. E che duelli con Senna, con Rosberg, con tutti gli altri. A volte durissimi perché era un campione, non solo un professionista. Fino al 1988 ogni qual volta le Ferrari gli offrivano possibilità, lui era presente nelle zone alte, sia in qualifica sia in corsa. Quando se ne andò, nel 1989, non era un pilota sul viale del tramonto. E fu strano rivederlo al via con la Tyrrell, quarto a Monaco e terzo in Messico, e successivamente con la recalcitrante Lola- Lamborghini. Lo dimostrò per esempio nel 1992 al volante della Footwork a motore Mugen, con la quale ottenne risultati prestigiosi per le potenzialità della vettura. Da pilota tecnico non si è limitato a essere un grande della Formula 1. Ha vinto con la Lancia- Martini nel mondiale endurance, ha trionfato con la Joest-Twr Porsche in coppia con Kristensen e il suo grande amico Stefan Johansson alla 24 Ore di Le Mans, nel 1997, ha vinto con l’Audi. Gli è mancato il titolo mondiale, ma non per colpa sua. Se la Ferrari del 1985 avesse funzionato a dovere probabilmente l’Italia si sarebbe ritrovata con un degno e meritevole campione del mondo in più.
A come assenza. Non è una frase di circostanza. Michele Alboreto è una persona che manca, che ha lasciato un vuoto. Non solo privato, intimo ai suoi familiari. Ma pubblico. Appena prima della sua morte, il 25 aprile 2001 durante un test di collaudo con l’Audi Mlp1 al Lausitzring, Michele stava impegnandosi attivamente nell’automobilismo italiano. Era troppo intelligente e colto sul fronte delle quattro ruote per non avvertire che bisognava mettere ordine, reimpostare molte cose della politica sportiva nazionale. Affidare la gestione a chi era competente, far crescere i giovani, creare un vivaio attraverso la nascita di una nuova monoposto addestrativa. Alboreto era un uomo dalla vista lunga. Partito con poco era arrivato al molto senza dimenticarsi delle origini. Per questo i suoi amici degli esordi erano rimasti, anche i rivali con i quali duellava e si prendeva a ruotate nelle corse del Trofeo Cadetti di Formula Monza. Godeva dell’affetto e del rispetto di chi lo conosceva. Poteva vincere o perdere le corse ma come uomo ne usciva sempre da primo della classe, con le sue analisi lucide, con i suoi commenti garbati ma fermi, con le sue idee di intelligenza raffinata. Come la sua proverbiale ironia: Alboreto, smessi i panni del pilota era un compagno divertente, mai banale, uno che prima di parlare osservava, studiava e poi partiva a raffica con battute spiritose, spesso critiche, ma molto fini, “british” come direbbero i dizionaristi da salotto. Nelle sue ultime stagioni in Formula 1 si prodigava di consigli ai compagni più giovani. Nel 1993, all’epoca del fallimentare incontro tra la struttura tecnica della Lola e quella manageriale della Scuderia Italia, si sentiva investito dal ruolo di “istruttore” di professionismo per l’allora debuttante Luca Badoer. Non era raro osservarlo mentre parlava al più giovane compagno di team per spiegargli non solo tattiche di corsa, di messa a punto, ma su cosa significasse accedere al professionismo, come relazionarsi con l’ambiente, cosa fosse conveniente dire, quando era meglio parlare o tacere. Lo faceva con spontaneità, senza chiedere nulla in cambio, forse perché nei giovani si specchiava e si rivedeva agli esordi. Prima di tutti aveva avvertito che con la morte di Senna e di Ratzenberger la Formula 1 non sarebbe più stata la stessa, che l’ambiente si trovava senza un leader carismatico, che il tempo delle corse fatte di ambizioni e passione era finito. Fiutava i cambiamenti, suggeriva come affrontarli, intuiva le strade corrette da percorrere. E amava, sopra ogni cosa, la propria famiglia, i suoi affetti. Programmava viaggi in sella all'Harley Davidson con le sue due bambine e quando ne parlava si illuminava sorridendo e spiegando cosa avrebbe fatto, dove le avrebbe portate. Al suo funerale la gente, tanta, ha sparso lacrime vere.