No, no, non voglio mica parlare solo di Verstappen o di Hamilton e tantomeno di Rosberg o della Ferrari. Macché, stavolta chissenefrega, preferisco concentrarmi sul concetto di Formula Uno in senso lato.
Descrivendola e giudicandola come fosse un essere umano o comunque una creatura antropomorfa, un che di umanizzabile, pur essendo composta da un sacco di cose, persone, metallo, rombi e risvolti complessi.
Ebbene, nella difficile ma memorabile e lunghissima giornata del Gp del Brasile 2016, la Formula Uno ha ritrovato se stessa. Così come in un tragico giorno di pioggia, a Suzuka 2014, aveva perso Qualcosa e Qualcuno di caro, per sempre, oltre che una parte della sua maschia sicurezza infarcita di pseudo-infallibilità.
Domenica, soffrendo, mettendosi alla prova, guardandosi allo specchio e estrinsecando mille dubbi e paure, ma agendo in piena regola e esorcizzando i suoi tarli più torturanti, la Formula Uno ha saputo ritrovare le radici antiche di sfida. Di Sport estremo che sa puntare e scommettere sulle capacità, sull’attitudine al limite e sul coraggio dei suoi ragazzi, proponendogli - dopo le esitazioni iniziali, il solito via ammosciato sotto-safety, per giusto o sbagliato che sia stato, e i terribili successivi momenti di incertezza, finendo a un passo da una rinuncia a proseguire la corsa che sarebbe stata mortificante e terribile anche in proiezione futura -, una sfida vera, virbrante e forte, all’interno di un concetto maschio di rischio ragionevole.
E tutti i boys in pista hanno risposto. Alla grandissima.
Accettando in pieno la sfida medesima e dimostrando senza ombra di dubbio d’essere dei real men, degli uomini veri. Ciascuno a suo modo, in fondo poco spostano le differenze.
Chi scrivendo una pagina funambolicamente leggendaria, alla Max, chi facendo stupendamente il suo dovere pre-iridato, tipo Lewis e Nico, chi compiendo personalissime prodezze fatta di punticini insperati e sacrali, vedi Nasr, chi abbandonandosi a una spettacolare commozione - a proposito: ciao Brasile, firmato Felipe Massa -, dopo una prestazione non esattamente esaltante ma comunque all’interno di una giornata che non verrà dimenticata da nessuno.
Tutti, in ogni caso, si sono messi in gioco, meritando appieno non solo gli applausi da parte del pubblico - che sulle prime aveva sfoderato il pollice verso di fronte alle ritrosie rinunciatarie della direzione di corsa -, ma anche il relativo lauto stipendio e la gioia premiante degli appassionati. I quali hanno potuto finalmente assistere a una gara assegnata non grazie a cervellotici tatticismi o scontate processioni narcolettiche, ma combattuta dal primo all’ultimo centimetro, con sorpassi veri e sudatissimi, a colpi di staccate nel diluvio.
Ed è stato bellissimo, meraviglioso e liberatorio rilevare che ciò che si rimpiangeva fino a poche ore prima del Gp del Brasile 2016 non erano gare d’altri tempi, gesta eroiche d’antichi numi del volante o chissà quale realtà vintage, leggendaria mai più ripetibile.
No, molto più semplicemente, al termine del Gp del Brasile e dello spettacolo che ha offerto, seppur a intermittenza, pur interrotto da badiere rosse e Safety-Car, a essere osannata e gratificata per la Formula Uno non è stata la nostalgia del passato, ma la nostalgia del futuro.
Il desiderio finalmente soddisfatto d’assistere alle evoluzioni di una categoria che in un pomeriggio di pioggia battente ritrova nerbo, coraggio e credibilità.
Nello scorso Gp Seb Vettel esagerando s’era lasciato scappare un dimenticabile nonché saggiamente perdonato “Fuck you, Charlie!", indirizzato al direttore di corsa Whiting.
Stavolta, per restare nel giusto, vien tanto da dire che, per rivedere la Formula Uno che tutti sognano, i piloti basta farli correre. Semplicemente farli correre come sanno fare. Punto.
Sì, e allora fuck Red Flag, fuck Drs, and fuck Safety-Car.
Che Dio benedica la pioggia e tutto ciò che la Formula Uno ha dimostrato nel Gp del Brasile.