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È il mondiale più bello della storia?

La chiave di tutto? Verstappen impalla Hamilton alla Variante di Monza facendo platealmente apposta, centrandolo come giocasse a Supermario Kart e distruggendo la corsa di entrambi, tanto che senza volerlo quasi lo fa fuori con una ruotata fortunatamente resa innocua dall’Halo. Poi scende di macchina e se ne va con passo fermo e sicuro, per niente nervoso ma frivolmente spedito. Felice. E manco guarda l’avversario intrappolato nella Mercedes schiacciata.

Max non ha paura di Lewis

Buoni dove siete, adesso. Fermate tutto. S’annida lì in senso, la cifra del momento. Il segnale subliminale di quanto sia diventata spietata, onnicomprensiva e quasi amorale la lotta in pieno svolgimento. Ehi, Lewis - parrebbe pensare Max -, non mi frega niente di come stai. Come a te non è fregato niente di come stavo io, in ospedale, mentre festeggiavi sul podio a Silverstone ridendo a crepapelle, dopo che mi avevi spedito contro le barriere alla velocità di un treno Tgv.

Il controsegnale al curaro è arrivato. Io non ho paura di te. Mai. Posso farti male pure io, all’occorrenza. Forse alla prossima te ne farò, me ne farai, e di sicuro non mi tirerò indietro. Mai.

L’altro tace, esce dall’abitacolo con l’orgoglio ferito, deglutisce e guarda lontano, pensando le stesse cose dell’avversario.

Il Mondiale più bello di sempre?

Sì, siamo a questo, poche storie. Bentornati in quello che rischia di diventare il mondiale più bello nella storia della Formula Uno. Benvenuti in una dimensione diversa, in una trama spiazzante, più articolata, complessa e spettacolare delle altre, in cui a misurarsi non sono più piloti e squadre, monoposto e motori, ma filosofie, scale valoriali, personaggi a profusione e modelli di comportamento, oltre che marchi e soggetti di mercato.

Il senso di una sfida totale

Prego, siore e siori, si accomodino e si preparino, perché non è mica solo un campionato a punti, questo, ma una serie televisiva alla prima stagione e con una marea di puntate, violentissime e cattive, oltre che emozionanti. Gomorra a 350 all’ora, Romanzo un tantino criminale, col collegio degli steward sempre al lavoro, Suburra del time penalty all’insegna dell’unsafe, del pericolo, della furbata maligna e della manovra proterva, in pista e fuori. Con una caratteristica mai vista prima: non è una faccenda di piloti, questa, di brand, di Case, no, stavolta la lotta, la guerra e la sfida sono totali, coinvolgendo tutto e tutti i personaggi in campo. Prost e Senna si odiavano ma era una cosa tra loro, a due, binaria, tutt’al più con il Presidente Balestre a fare il tifo.

Punto. Stavolta no, manco per idea. Se gli ultimi mondiali dell’epopea aspirata e i primi sette dell’era turboibrida erano stati mediamente e noiosamente dei trofei per ingegneri, questo è il primo in cui i geni con le cuffie sembrano starsene buonini a bordo ring, non certo impotenti e inattivi, ma zitti e muti, anche perché è l’unica volta in cui si corre di fatto e per decreto con le macchine dell’anno prima, seppur affinate e corrette.

No, questa è la prima guerra dei mondi e non più solo mondiale, in F.1, perché tutto e tutti si scontrano in un duello tra due enormi matrijoske che ne contengono infinite altre.

L'"odio" tra gli antagonisti

Red Bull sfida Mercedes. Il marchio tedesco con la striscia più vincente e invincibile nella storia delle corse subisce l’attacco della squadra più filosoficamente, geneticamente e idealmente diversa, opposta e antagonista. La Mercedes. Sì, il marchio del lusso, del comfort, della sicurezza, dell’agio sereno sicuro e ultraborghese, la corporation più complessa, articolata e turbocapitalista che è anche il team di F.1 azionariamente più cangiante, sapientemente dosato e pluralisticamente strutturato, viene selvaggiamente sfidata dalla Red Bull, il brand più monocratico, sportivamente monopadronale - al di là dell’erede del socio thailandese di Mateschitz - e improntato alla filosofia dell’estremo, del no limits, dell’orgogliosamente rompicollo, dell’antiborghese, per certi versi dell’oltreMercedes.

Honda assalta Mercedes. All’ultimo tuffo, prima del ritiro. La Casa giapponese ormai in F.1 recita la parte della farfalla che sta per chiudere le ali a fine stagione, tentando il colpaccio che le rinverdirebbe la leggenda, mentre il potentato d’Argento tiene duro sperando di ampliare un’infinita bacheca di trofei. E pure sul piano mentale, il genio infinito di Adrian Newey si contrappone alle equipe di Brackley e Brixworth. Perché se la Red Bull è l’entità vincente più riassumibile nel volto e negli occhi tristi di un sol uomo dal cervello meraviglioso, la Mercedes è la Casa che stravince senza avere un solo stregone di riferimento, lo sciamano decisivo, ma attingendo spesso e paradossalmente ai tecnici delle equipe perdenti, facendo disegnare macchine e forme e dando responsabilità a figure che altrove avevano appena rimediato solo delusioni e trasformandoli in scienziati da Nobel.

Hamilton e Verstappen, personalità agli antipodi

Poi, certo, ci sono loro, i piloti. Hamilton, il campionissimo ultratalentuoso e supertitolato, rockstar e dolce, fashion victim nonché orgogliosamente nero, possibilmente Muhammad Ali oriented con morbida gentilezza. Tatuatissimo, ieratico, paraspirituale e anche un po’ paraculo, che ogni volta sa dire o fare la cosina più flautata utile a far imbestialire l’avversario di turno, progressivamente cuocendogli il cervello. Verstappen, il giovane duro, tagliato nella pietra, di cultura ed etica protestante, quand’anche inconsapevolmente tale.

Determinazione, meritocrazia e volitività all’estremo. Sostanziale, tagliente, parlachiaro, guascone, beffardo, sfrontato davanti ai microfoni, senza paura. Aggressivo in pista e fuori. Uno che se gli fai girare i coglioni, ti bracca, ti sfonda sull’asfalto e poi in pit-lane t’insulta e quasi ti mena, citofonare Ocon, per credere.

Ecco, pensare che Max e Lewis siano diversi perché uno è nero e l’altro no o uno è maturo e l’altro giovane, significa non aver capito niente: questi due qua sideralmente differenti lo sarebbero anche se fossero nati gemelli, perché a dividerli c’è l’abisso delle filosofie, dei credo, del porsi esistenziale di fronte alla vita.

I clan degli austriaci

E poi c’è la faccenda dei clan degli austriaci a capo dei rispettivi team. In principio Toto Wolff e Niki Lauda da una parte e Christian Horner e Helmut Marko dall’altra. Wolff, il timoniere della Stella a Tre Punte, ma anche l’azionista, l’investitore, l’uomo di potere, il manager dei piloti, il politico, l’unico vero, grande influencer nelle questioni di potere alto della Formula Uno. Alto, bello, ricco e snello, dal sorriso perlaceo e sicuro, dal fare accattivante, dalla battuta suadente, dall’aplomb executive ma anche dai modi maschi, a tratti ruvidi ma mai volgari, sempre stilish. Nelle colline umbre di uno così si dice che è l’uomo dal bastone di vergale, quello che rompe le ossa ma non ti fa male.

Di certo, perso il compianto Niki Lauda, Toto lo onora nel migliore dei modi dando l’idea d’averne assunto saggezza, razionalità e capacità di sintesi, perché il Wolff di adesso non sembra mica solo essere Wolff, ma un Toto cresciuto e potenziato come un pokemon, metà Wolff e metà Lauda in download.

Di là ci sono Christian Horner e Helmut Marko, e la congrega non potrebbe essere più antagonista e contrapposta. Horner è strutturalmente decisivo per la Red Bull, poiché grande uomo di macchina, che sa pure fare politica alla grande e non è buonista per niente.

E poi c’è la rabbia biografica che lo unisce senza volerlo a Marko. Perché se Wolff è un gentleman driver, ovvero un pilota per puro divertimento, uno da Gt (e anche bravino), Christian e Helmut hanno due delusioni diverse, rododendre e ultramotivanti.

Horner negli Anni ’90 in F.3000 correva ma tribolava, dava l’anima ma non svettava, per niente, tanto da lasciar perdere deluso, alla fin fine. Al contrario, Marko era in F.1 - e non solo - l’austriaco più promettente prima e più di Lauda, ma il noto incidente della pietra sull’occhio e della vista menomata lo hanno stoppato.

E l’avvelenamento di queste storie agonistiche mai completate ha saputo creare e affinare talenti diversi, rettilinei, voraci e ambiziosissimi. Helmut Marko, a parlarci, è una delle persone più affascinanti che abbia mai incontrato.

Concreto, diretto, analitico nelle premesse, sa essere chirurgico e letale nelle conclusioni.

Di Max è l’anima nera, il perfido Jago, il veleno sulla punta della freccia, ma anche l’estimatore totale, padre spirituale privo di carezze - che manco papà Jos, peraltro, ha mai profuso a dismisura, neh -, ma prodigo di consigli, di nucleare potere motivazionale e intelligente bellicosità.

Mercedes e Red Bull, tanta gente strana e lucente, particolare, ecco. Liberi, armati e pericolosi, come si diceva una volta nei film poliziotteschi all’italiana. Due polveriere capaci di produrre trame inesorabilmente esplosive. Mai vista una sfida così totale e globale, nel mondiale di Formula Uno, a tutti i livelli, con tanti personaggi, addentellati e implicazioni profonde e prive di possibilità di addolcimento. Sarà una guerra senza sconti, la prima tra così tanta gente che si detesta e si sta sul cavolo, lietamente consapevole che questa è solo una metafora botanica, perché, presi uno a uno, la maggior parte di loro sanno d’essere degli stupendi figli di botanica.