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Spalle al muretto per questa Ferrari

Facciamocene una ragione: muretto e strategie in questo momento non sono i punti forti della Ferrari. Di più. La capacità di reagire agli imprevisti, alle variazioni sul tema e agli scossoni inattesi del weekend di corsa rappresentano qui e ora altrettante occasioni di vulnerabilità, più che opportunità d’attacco ai rivali.

I precedenti

Prendiamo due occasioni recenti: si va a Imola che la F1-75 promette e pare fare sfracelli, ma arriva un fine settimana rovinato dalla pioggia e ciao mare. La Red Bull diventa imprendibile. Peggio ancora a Montecarlo. Tracciato stradominato in lungo e in largo per prove e qualificazioni, ma, quando è tempo di correre davvero, aripiove e al primo pit-stop, dopo aver comandato le danze con due macchine in prima fila e belle comode in testa, il bel sogno si svanisce, lasciando spazio solo a polemiche, mugugni e recriminazioni. Ed è un peccato, perché le tre cose che succedono fuori dalla pista nella F.1 del terzo millennio sono ancor più determinanti di quelle che capitano sull’asfalto: sviluppo al simulatore, gestione della pit-lane e visione strategica ormai contano molto di più di un sorpasso effettuato o impedito. E la Ferrari storicamente, badate bene, non solo recentemente, questo problema lo ha da quando le strategie stesse sono diventate il fiore all’occhiello e la caratteristica distintiva di una squadra davvero vincente.

Il peso della strategia

La gestione tattica della gara nella F.1 moderna la inventa Gordon Murray per la prima Brabham turbo Bmw del 1982, che ha il problema d’essere pesante perché col motore assetato che si ritrova deve imbarcare un mare di benzina. Da qui, nella seconda metà della stagione, l’idea di fermarsi, rifornire, cambiare le gomme e ripartire, girando nelle due frazioni di gara con metà serbatoio e gomme mai troppo usurate. Poi un principio d’incendio sulla Williams di Rosberg nel 1983 stoppa tutto, ma il regolamento dal 1994 ripunta proprio sui pit per rendere più spettacolare lo show e da allora saper gestire una corsa da remoto diventa decisivo quanto saper guidare una monoposto dall’abitacolo. E da subito si capisce che la miglior accoppiata è quella che vede uniti Ross Brawn al muretto e Michael Schumacher nel cockpit. La coppia prima vince due mondiali alla Benetton, quindi si trasferisce alla Ferrari e ne fa suoi altri undici: cinque Piloti e sei Costruttori, dal 1999 al 2004.

Quando la Ferrari era imbattibile

Ecco, quella Ferrari non ha paura di niente, né in pista né al muretto, anzi, proprio delle scelte di strategia fa il suo vero punto forte, tanto che Brawn e Schumi dialogano rilassati giocando al gatto e al topo coi rivali, inventandosi corse a quattro pit-stop, variazioni di tattica in corso d’opera, guizzi creativi e risposte spiazzanti che mandano fuori di testa gli avversari, i quali di fatto mai carpiscono un titolo o un trionfo storico alla Rossa di Schumi per motivi tattici. E quando Michael resta fuori per mesi, ossia nel 1999, il mondiale perso da Irvine per la ruota mancante al pit-stop e la scarsa incisività nel finalone in Giappone secondo alcuni costituiscono più un capolavoro strategico volto a riuscire a perdere, che non una sconfitta vera e propria...

Fine di un'era

Di fatto, finita la Golden Era di Schumacher in rosso, il muretto diventa non più il centrattacco florido e fecondo del Cavallino, ma una incerta forma di difesa, mai più spaventevole per nessuno. Il mondiale 2007 Raikkonen e la Ferrari lo vincono soprattutto (spy-story a parte) per il suicidio assistito della McLaren e dei suoi fratricidi alfieri, Alonso e Hamilton.

Nel 2008 Massa non perde tanto per Glock che lascia passare Hamilton all’ultima curva di Interlagos, ma per il distributore che si porta dietro ripartendo dalla pit-lane di Singapore.

Ma il culmine si tocca ad Abu Dhabi 2010, quando Alonso si ferma per marcare Webber restando intruppato per tutta la vita, quando a sfuggire alla morsa è Vettel che va a vincere, facendo suo il titolo e iniziando un ciclo trionfale quadriennale. E non finisce qui, perché negli anni turboibridi della riscossa di Marchionne, Vettel e Raikkonen non si capiscono a Monza 2018 al via e tantomeno a Singapore 2017 quando i due prendono a sandwich la Red Bull di Verstappen facendo un favorone alla Mercedes.

Punto debole mai risolto

Quasi a ricordare che storicamente, nell’era post-eroica della F.1, i piani d’attacco e di battaglia costituiscono il tallone d’achille di una Rossa che in questo giro di valzer si ritrova ad avere per rivale la Red Bull, ossia la squadra (a parte il duo Brawn-Schumi) più forte di sempre nella gestione dal muretto. Su, mica bisogna vergognarsene. Se per il grande Brasile nella sua era d’oro nel calcio il punto debole era il portiere, se per la grande Olanda erano le finali (o gli arbitraggi delle stesse) e se per i portieri molto alti il weak point è dato dai tiri rasoterra, per il Cavallino Rampante del terzo millennio la faccenda si fa difficile a tavolino, quando c’è da scegliere cosa fare, col boccino in mano e le cuffie in testa. Realtà piuttosto beffarda, poiché avere due o tre decimi di vantaggio sul giro secco a Montecarlo a quanto pare può rivelarsi del tutto insufficiente a vincere e questo deve fare di molto riflettere. Perché perdere un mondiale o una corsa e più ci può stare, ma vedersi sfuggire il tutto quando si ha a disposizione la macchina migliore e il pilota più in palla è un vero peccato, se non un delitto bello e buono. Quindi, che fare? Ci si limita alle critiche? A dire male di questo o quello? Anche no, perché non c’è da crocifiggere nessuno.

Di cosa ha bisogno la Ferrari

La verità è che nella F.1 degli ultimi tre lustri, che ha fato delle strategie la vera arma in più per i top team, la Ferrari epocalmente sembra restata e da tempo un po’ indietro. Faticando a riacquistare cervello e spregiudicata quanto sgamata furbizia da team ultra-vincente. E quando una squadra è debole in qualcosa, deve semplicemente fortificarsi. Guardandosi attorno e scegliendo meglio, il meglio e di meglio, rinforzandosi. Pertanto non c’è alcun bisogno di stravolgere la macchina, ché va benissimo com’è, non v’è esigenza di guardare ad altri piloti, ché meglio di questi non si potrebbe averne, né tantomeno c’è urgenza di strofinare qua e là in cerca di qualche genio della lampada, perché gli artefici motoristici, aerodinamici e strutturali della F1-75 meritano solo applausi. Semplicemente adesso c’è bisogno di un cambio di passo alla voce stretegie e tattiche, di un chiaro mutamento di mentalità e, possibilmente, del contributo di energie fresche, nuove e diabolicamente portate a mettere in difficoltà una squadra come la Red Bull (o la stessa Mercedes, quando tornerà al top), riuscendo a pagarla con la stessa moneta. Ormai un top team di F.1 è come una squadra di vela che ambisce alla Coppa America: senza un tattico dalla versatilità imperiale, non è più sufficiente disporre dello scafo migliore. Proprio per questo c’è da lavorare - come, quanto e su chi, lo decida Binotto - per far sì che il muretto Ferrari possa e debba fare l’atteso salto di qualità, proporzionale e in armonia con gli altri considerevoli balzi in avanti che la Rossa ha mostrato d’aver miracolosamente compiuto a proposito di power unit, telaio e sviluppo. Manca poco al raggiungimento della zona iride e l’ultimo sussulto in avanti, a questo punto, sarebbe un delitto non farlo. Ps: in pagella a Monaco ho dato 5 a Sainz, 5 alla Ferrari e 10 a Leclerc e non sono pentito: Sainz ha fatto undercut a Leclerc, poi intralciandolo in pit-lane fermandosi davanti. È bene che non lo faccia più.