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Ciao, Henry Morrogh e grazie per le lezioni

La pioggia di Zandvoort ha rimescolato un po’ le carte regalando qualche emozione in più, eppure secondo me la scossa più grande arriva dall’Italia e non solo grazie alle meraviglie del Minardi Day, ma, purtroppo, anche a causa delle cose della vita, quelle brutte quanto inevitabili, però. Henry Morrogh se n’è andato a quasi 92 anni e subito un’ondata di commozione ha scosso il mondo del Motorsport, con l’Italia come epicentro.

Perché proprio a casa nostra l’istruttore di guida irlandese aveva trovato una dimensione come autorevolissimo maestro e grande scopritore di talenti. Henry, oltre a rappresentare per non meno di quattro decadi un insostituibile punto di riferimento per chiunque sognasse di diventare pilota e ad essere un grandissimo amico di Autosprint, è sempre stato un uomo intelligente, aperto e diretto.

E mi piace ricordarlo citando qualche sua frase di quelle dette on & off record, a registratore acceso o spento. «Jacques Villeneuve? Quando arrivò da noi, alla scuola di pilotaggio a Magione, era assolutamente digiuno dei fondamentali. Non vantava neppure trascorsi in kart e la sola corsa che aveva da corsa era il cognome. Con lui fui costretto a ricominciare dai fondamentali, dalle prime cose, ma è anche vero che ho trovato un ragazzo assolutamente umile, dispostissimo a riconoscere che era tanto il lavoro che doveva fare. Allo stesso tempo mi sono ben presto reso conto che tutto quello che riuscivo a insegnagli lui lo imparava bene e subito. Ed è stato così che uno dei miei allievi più acerbi di nozioni e arrivati tardi all’approccio racing è diventato campione del mondo. Una cosa molto interessante, se ci pensi. Ovviamente non poteva essere un talento naturale precoce, ma uno bravissimo capace di costruirsi passo dopo passo, con elasticità, realismo, tanti sacrifici e applicazione. Il suo successo a Indy e in F.1 è stato una grande sorpresa e anche una bella lezione di vita per tutti dopo che aveva mostrato quanto incamerato».

Ai primi segnali di successo della Red Bull in F.1 avevo parlato con Henry di queste tante superprestigiose Academy e lui da questo punto di vista aveva idee chiare. Cioè queste: «La cosa più importante che ho fatto da pilota è stato disputare la 24 Ore di Le Mans, anche se senza fortuna. Poi ho capito che la mia strada era altrove e mi sono concentrato a fare l’istruttore di guida, prima in Francia e poi in Italia. Sinceramente ho sempre creduto tanto nei corsi di pilotaggio, nei bravi insegnanti e nella buona volontà, oltre che nelle capacità e nell’umiltà di chi prova a imparare qualcosa. E non ho mai creduto molto o troppo nelle accademie portate avanti da alcuni soggetti forti. Vedi, il grande talento sfonda comunque, sono tutti gli altri che invece si ritrovano con poche vere chance di imparare. Piuttosto nelle corse anche tra i deb vedo tanta politica e una certa prevalenza dei ricchi, in iniziative come queste. Resto dell’avviso che bisogna studiare, girare e analizzarsi tanto, al di là di grandi nomi e grandi marchi. I piloti si creano facendoli applicare e studiare, non promuovendoli come fossero prodotti commerciali. Se uno studia e si impegna, qualcosa combina. Oltre a far diventare iridato Jacques ho anche trasformato lo stupendo Fabrizio Frizzi in pilota da corsa, con le insostituibili Van Diemen RF89 di Formula Ford, le stesse che hanno insegnato ad Ayrton Senna a correre e a vincere in monoposto».

Tra i suoi altri principi, quello di grande appassionato di Motorsport a trecentosessanta gradi. Quando seppe che amavo frequentare gli ambienti del Tourist Trophy e del Manx Grand Prix dell’Isola di Man, Henry andò subito in brodo di giuggiole, abbandonandosi a confidenze piuttosto sorprendenti. «Sai qual era il vero sogno della mia vita? Correre in moto e non non auto. E prendere parte a una gara sul circuito di Montagna dell’Isola di Man. Fu così che a inizio Anni ’50 mi ritrovai iscritto al Manx Grand Prix e la sola idea non mi faceva dormire la notte. Ma quando mancavano pochi giorni, la banca che mi doveva appoggiare fallì. Ti rendi conto? Una banca che salta e io resto a piedi. Per la delusione, la pianto con le moto e decido che quel segnale del destino voleva stare a significare che io sul Mountain non dovevo correre. Il destino vuol, dire tanto, in realtà. In ogni caso io non faccio differenza tra auto e moto, continuano a piacermi entrambe, così come le donne, indistintamente: una bella mora è forse diversa da una bella bionda?».

Gente come Emanuele Pirro, Andrea De Cesaris, Elio De Angelis e Nicola Larini deve tanto agli insegnamenti di Henry, il quale ai tempi della redazione di Autosprint a San Lazzaro di Savena era un habitué di casa nostra, accolto con tanto entusiasmo e sempre interessante nelle analisi delle corse che ci regalava a ora di pranzo, davanti a un buon piatto di tortellini. Perché nell’aplomb, nei gusti e nella sensibiliutà financo culinaria, oltre a essere un gran galantuomo, sapeva dimostarsi anche neoitaliano perfettamente naturalizzato. Le facezie infinite e i siparietti con la comapgna Margareth resteranno tra le cose più dolci e simpatiche mai viste da chi lo ha frequentato ai tempi d’oro. Prima di cedere la scuola di pilotaggio, partecipò anche al campionato italiano di Formula 3 Federale, schierando un suo team e continuando a promuovere giovani talenti sui campi di gara. Un vero gentiluomo d’altri tempi e anche un rappresentante stupendamente anglosassone della racing fraternity dei tempi d’oro. Adesso ci sono le Academy, che certe volte sembrano stie per i polli d’allevamento. Una volta c’era Henry Morrogh, con giacca a vento, cuffie e radio, tra la pioggia infida e le sventate cattive del vecchio autodromo di Magione. E i campioni del mondo si creavano anche così, insieme a tanti altri bei nomi che hanno fatto chi la storia e chi la cronaca del nostro automobilismo.

La prossima settimana in una puntata di Cuore da Corsa racconterò tutta la tua vita, ma per ora voglio solo salutarti, a nome di tutti, dear gentleman. Grazie di cuore per tutto, meraviglioso Henry.