Certe cose passano sottotraccia e del tutto fuori dagli usuali e roboanti canali di informazione, specie quando chi è oggetto della notizia ama da sempre essere anziché apparire. Però è anche vero che Giampaolo Dallara presente, sorridente e trionfante alla Indy 500 a 88 anni suonati - 89 suoneranno in novembre -, è una di quelle notizie che mettono brividi, orgoglio e buonumore.
Vederlo percorre ad ampie falcate la zona sacra del racing Usa con l’iconico totem alle spalle fa il paio con le immagini di Sergio Leone e Bob DeNiro sul set di “C’era una volta in America” quanto a impatto scenico. Della serie, certe volte, rare e belle, un fatto si cristallizza subito in storia e leggenda, senza passare dalla cronaca.
E comunque il senso di tutto è un altro. Perché spesso, rileggendo e riassaporando la storia di Giampaolo Dallara e i traguardi sportivi della sua azienda, si ha l’impressione che da parte di chi dovrebbe descriverne narrativamente la traiettoria manchi una visione d’insieme e una valutazione in grado di dargli finalmente giustizia.
Anzi, facciamo un gioco: per un attimo, ignoriamolo, Giampaolo Dallara. E con la macchina del tempo, così, per scherzo, torniamo a fine Anni ’70, quando chiunque se ne intendesse di giornalismo diceva una cosa semplice e inappuntabile: le più grandi factory di automobili da corsa sono britanniche e si chiamano March e Lola.
Non c’era discussione. E neanche partita. Perché “loro” erano più bravi di noi.
Se volevi imparare a correre come si deve, prima o poi dovevi passare per loro e acquistare una monoposto, o anche una barchetta.
Gli italiani, si diceva, sono geniali. Hanno la Ferrari, la Lancia, l’Alfa, il Drake, Fiorio, Chiti, ma i britannici sul commerciale non li freghi né li fregherai mai.
Al tempo l’ingegner Dallara giochicchiava con Walter Wolf facendogli la Dallarina F.3 per Bobby Rahal e la Can-Am ex Talon per Chris Amon a fine carriera e Gilles Villeneuve all’inizio.
Bene. Quella volta si diceva anche altro. Che nelle corse su pista di mondi ce ne erano e ce ne sono fondamentalmente tre: le monoposto nelle varie formule a contrassegno alfanumerico decrescente, i prototipi e le F.Indy.
Ah sì? Quasi mezzo secolo dopo Giampaolo Dallara con la sua azienda patronimica monopolizza Super Formula nipponica, F.3 e F.2, realizza telai per la Haas in F.1 e dà vita a più della metà delle Hypercar esistenti, non stiamo a dire nel dettaglio per come e con chi, ma è così. E già che c’è dal 1998, da quando ha vinto per la prima volta la Indy 500 con Eddie Cheever, ha letteralmente cambiato, magnetizzato e dominato il mondo delle corse per monoposto Usa, visto che - tolte tre edizioni contigue alla prodezza di Cheever, di marca G.Force e G.Force Panoz - tutte le altre della maratona dell’Indiana sono appannaggio delle monoposto marchiate dal superingegnere, ormai in regime di monopolio giammai messo in dubbio.
Già che c’è, la Casa italiana fa pure la F.2 dell’IndyCar, ossia la Indy NXT. Bingo, insomma.
Cioè, quello che ha fatto la Dallara è senza precedenti nel mondo delle corse e va ben oltre la più fervida immaginazione. Di più. L’ingegnere, con la sua espansione imprenditoriale, dimostra ogni giorno che c’è una cosa perfino più importante, nelle competizioni, di vincere dei mondiali. Perché lui da decenni non si tinge d’iride ma fa molto di più, per i suoi dipendenti, oltre che per i suoi tifosi: vince appalti.
Insomma, il sogno proibito di Enzo Ferrari, quello di polverizzare una volta per tutte gli assemblatori britannici, quelli delle kit-car e dei rolling chassis, dai e dai è divenuto realtà grazie alla potenza di fuoco di un’azienda nata e cresciuta a due passi da Parma.
E dopo il Drake, il più grande costruttore di auto da corsa in Italia (e nel mondo), è proprio lui, Giampaolo Dallara, l’eroe di tanti universi che a un soffio dai novant’anni viene onorato dagli americani con l’immancabile foto ricordo della Indy 500 in compagnia del fresco vincitore Palou.
E vi sembra tutto scontato? Tutto normale? Tutto poco luccicante?
Dai e dai mi viene un dubbio atroce: ma di Dallara in Italia se ne parla poco perché lui è schivo o perché certe volte noi italiani nella scala dei valori a incidenza mediatica facciamo un tantino schifo?
Per carità, non gradirei l’ingegnere paracadutato all’Isola dei Famosi o avvinghiato in un tango con una ballerina russa a Ballando con le stelle, però, che so, sentir parlare di lui come un possibile senatore a vita penso sarebbe una bella e giusta cosa. Vederlo e saperlo un tantino più onorato, conosciuto e studiato anche dalle nuove generazioni sarebbe un modo costruttivo per assimilare l’esempio grande, alto, nobile e buono di quello che va considerato uno splendido italiano. Tra l’altro, anche per come vive la sua età, impartendoci una meravigliosa lectio magistralis di tenacia longeva e commovente stile.
Come sarebbe bello se tutte le volte che si ode il nome Dallara, l’italiano medio pensasse con energia positiva non solo a un bravo cantante ma anche a un sontuoso imprenditore che fa miracoli da sei decadi. Come prima, più di prima.