Ascolto e leggo da pi&ugrave; parti un&rsquo;interpretazione secondo cui la morte di Bianchi e la pesante causa intentata dalla di lui famiglia per accertare eventuali responsabilit&agrave;, sarebbero le ragioni della paranoia di sicurezza che affligge la Formula 1 e, in definitiva, il vero motivo per cui i Gran Premi bagnati ormai partono prudenzialmente tutti sotto Safety-Car.  Mi spiace dirlo, ma le cose non stanno cos&igrave;. E non &egrave; questione di opinioni diverse, ma di fatti che posso tranquillamente dimostrare.  Gi&agrave; dal 2012 al 2014, nelle sole tre partenze bagnate avvenute - quando lo sfortunato Jules Bianchi era vivo e vegeto -, appunto due volte su tre ci si era avviati sotto Safety, col Gp d&rsquo;Ungheria 2014 quale unica mosca bianca, con tanto di partenza bagnata senza neutralizzazione preventiva.  Andando a ritroso, dal 2007 al 2012 su 18 corse in cui la pioggia ha fatto per almeno qualche minuto la sua comparsa, ben sei-volte-sei si &egrave; preso il via sotto Safety.  Addirittura, al Fuji 2007 si &egrave; restati per quaranta minuti dietro la Safety, prima di dare la partenza e in Corea 2010, a via ovviamente neutralizzato, i giri sotto Safety sono stati ben 25 su 55, mentre a Montreal 2011, record dei record, oltre alla partenza in Safety sono stati 32 i giri complessivi percorsi dietro alla Mercedes gentilmente spedita in pista dal Race Control e dal direttore di corsa.&nbsp;  Altro che nuovo trend causato dalla tragedia di Bianchi.&nbsp;  Il vezzo di partire wet sotto Safety, curiosamente quest&rsquo;anno festeggia addirittura le venti stagioni filate, essendo stato inaugurato nel Gp del Belgio 1997, replicato la prima volta sempre in Belgio nel 2000 e riproposto a Interlagos 2003, per poi diventare progressivamente la regola.  Analisi Silverstone: nessun dubbio su Hamilton, ma tanti sulle norme  Forte di calcoli, cifre e analisi, gi&agrave; nel 2012, quattro anni fa - quando il triste caso Bianchi ovviamente apparteneva a un futuro neanche ipotizzabile -, dedicavo una puntata della rubrica &ldquo;Cuore da Corsa&rdquo; al tramonto - ipocritamente mai annunciato in modo ufficiale ma decretato grazie a una prassi felpata e strisciante - degli epici e sacrosanti Gp avviati e corsi sotto la pioggia, scegliendo un titolo che non ha bisogno di ulteriori aggiunte: &ldquo;Dimenticatevi le gare bagnate&rdquo;.    Di pi&ugrave;. &Egrave; universalmente noto che il caso Bianchi niente ha a che vedere con una situazione di partenza bagnata. E se Bianchi fosse vivo e vegeto, sotto l&rsquo;acqua non ci si avvierebbe pi&ugrave; lo stesso senza Safety, perch&eacute; tale scelta direzionale era chiarissima gi&agrave; da un bel pezzo.&nbsp;  Vado oltre. Non esistono precedenti nella F.1 recente che colleghino il via libero dato sotto la pioggia a incidenti nei quali qualsiasi pilota abbia subito con rapporto di causa ed effetto lesioni fisiche gravi o rilevanti.  E, facendo i facili profeti, si evince chiaramente che il vero scopo &egrave; quello di mettere in discussione non solo e non tanto il via bagnato, gi&agrave; ampiamente combattuto e destrutturato, ma il concetto stesso di partenza a macchine ferme. Se potessero, farebbero avviare i Gran Premi con Safety anche sull&#39;asciutto ricorrendo al pi&ugrave; pacioso e comodo via lanciato. Previsione eccessiva? No, ragionevole proiezione e dovuto avvertimento agli appassionati. Come disse il merlo al tordo, sentirai la botta se non sei sordo.  F1 Silverstone: strategie appiattite, Vettel scettico sulle full wet  Nella sua folle spinta ultraventennale a diventare cervellotica, frigida, avida di quattrini quanto tirchia d&rsquo;emozioni, complicata, astrusa - vedi regime di parco chiuso che iberna gli assetti -, agonisticamente moscia se non finta, nonch&eacute; tendenzialmente codarda e renitente al rischio, la Formula 1 s&rsquo;&egrave; tolta scientemente il pensiero d&rsquo;avere tra le scatole il momento pi&ugrave; teso, difficile, adrenalinico, epico e vero del suo narrato: il via bagnato.  Cari Signori del Circus iridato, lasciate in pace il ricordo di chi ha perso la vita per altri motivi, quindi e, quando trovate un momento di pausa in cui v&rsquo;&egrave; andato a noia contar milioni, concedetevi la libert&agrave; di sentirvi in imbarazzo, pensando a come e quanto avete rovinato questa Formula 1. 

&Egrave; da venti stagioni che i padroni della F.1 vogliono ci&ograve;

Il via bagnato sotto Safety Car &egrave; un orrore antico

La Formula uno &egrave; quello sport in cui lottano due Mercedes e alla fine vince Hamilton. Ci si prova in tutti i modi a ribellarsi a questa realt&agrave;, alla vigilia ci facciamo certi film con finali alternativi che in confronto sognare una notte d&rsquo;amore con Beyonc&eacute; tutta oliata - la quale alla fine ci paga pure il conto dell&rsquo;albergo chiedendoci: &ldquo;Mi lasci cos&igrave; o un giorno tornerai?&rdquo;-, &egrave; puro neorealismo.  C&rsquo;era una volta la F.1 delle sfide e dei rivali che ci facevano stare svegli pure la notte e di giorno vivere felici e contenti.&nbsp;  Questa no. Quella degli anni 2014 e seguenti dell&rsquo;era ibrida &egrave; decisamente un&rsquo;altra storia. N&eacute; migliore n&eacute; peggiore, ecco, ma diversa. Una forma torturante di beatitudine altra, alla quale tuttavia lentamente ci stiamo affezionando, come il carcerato in certi prison movie si fa entusiasticamente bastare in cella la corsa delle pulci sulle righe del materasso.  Ormai son tre anni che le frontiere della creativit&agrave; dell&rsquo;appassionato spaziano verso feticci narrativi nuovi e inconsueti, pur di smettere di vedere davanti a tutti con salmodiante ripetitivit&agrave; quelle due dittatoriali macchie argentate, al secolo le Mercedes W05, 06 e 07.    La pioggia. Ecco, quella si che non &egrave; un miraggio. Piovesse, s&igrave;, dai, piovesse. Ma poi non piove quasi mai e se piove Hamilton sul bagnato va da Dio e non &egrave; che Rosberg sia impedito, tutt&rsquo;altro. Allora siamo daccapo.  La Safety-Car, perbacco. C&rsquo;&egrave; la Safety. L&rsquo;imprevista compattatrice e mutatrice degli umani e prevedibili destini. Che ormai tutto serve meno che a garantire sicurezza, ma &egrave; utilissima a evitare partenze incasinate - dovesse mai piovere - e a ravvivare gare pi&ugrave; narcolettiche della predica ferragostana d&rsquo;un parroco svagato.&nbsp;  Per&ograve; pure quella &egrave; una Mercedes, cos&igrave;, quando la Safety entra, finisce che ci tocca di vedere la solita processione, pi&ugrave; compatta ma anche pi&ugrave; lenta, con le Frecce d&rsquo;Argento diventate addirittura tre e Bernd Mayl&auml;nder che scula giulivo a garantire uno status quo che neanche i socialdemocratici ai tempi del pentapartito.  Fallito il piano B e quello C, non resta che il piano D.&nbsp;  D come demolition derby.&nbsp;  Su, diciamoci la verit&agrave;. Una percentuale maggioritaria bulgara di tutti noi controlla in ogni istante di gara con aria competente tempi, tattiche e distacchi tra le due Mercedes, indagando quanto possa essere vicino e plausibile l&rsquo;agognato e magico momento in cui Hamilton e Rosberg prima s&rsquo;ingarellano e poi si spataccano.&nbsp;  Mica gli si vuole male, ai due ragazzi delle Silberpfeil, no, no, no, anzi. Tanto hanno ferri forti che si muovono su piste sicure e niente gli pu&ograve; succedere. Oh yes, in fondo il parapiglia lo vogliamo per il loro bene, ecco, quand&rsquo;anche a quaranta all&rsquo;ora su un tornantino a collo d&rsquo;oca.    &Egrave; che la spataccata argentea da Gran Premio domenicale nell&rsquo;immaginario collettivo del terzo millennio corsaiolo possiede un che di liberatorio, energetico e rimescolante.&nbsp;  S&igrave;, tutti noi nell&rsquo;intimo prefreudiano, allo stato neanche tanto inconscio, pregustiamo la strisciata fratricida, la biblica svolta di quei due tizi, Nico e Lewis, che, mass&igrave;, hanno financo pi&ugrave; voglia di noi di mettersi a fare i Caini sfoggiando poi, a casino accaduto, la faccia meravigliata di due sbigottiti Abele.  E cos&igrave;, bang! Il gioco &egrave; fatto e la magia comincia.&nbsp;  Basta una stretta bastarda e se succede l&rsquo;incidente gode pure il conducente. Siam tutti l&igrave; a cantarlo in coro, come la comitiva ebbra su un autobus da santuario che altrimenti viaggerebbe nel mortorio.  Vuoi mettere? Come minimo poi ci aspettano mezz&rsquo;ora di ralenty da ogni angolo a ventimila fotogrammi al nanosecondo, l&rsquo;inquadratura in camera box e camera caritatis della faccia di Toto Wolff che tira un cazzotto a un tavolino, lo zoom sulle rughe flamb&eacute; di Lauda, il quale ogni volta pare commentare col labiale accusatore verso Nico o Lewis &ldquo;Fankulo Kretino!&rdquo; ma puntualmente cambia il nome del Kretino di turno con entusiasmante modularit&agrave;, per cui diventa interessante scoprire se per Kretino medesimo all&rsquo;uopo intende Rosberg o Hamilton.  E poi l&rsquo;ansiogena attesa della commissione d&rsquo;inchiesta che sta indagando indefessa su Lewis e Nico. Una specie di legal thriller al quale ormai ci siamo tutti affezionati, con figure in giuria assai ricorrenti quali il nostro amabile Pirro, il venezuelano Spano o il cattivissimo australiano Connelly che ci rendono la cosa spassosa e spezzarespiro, una via di mezzo tra una puntata di Csi, il sopralluogo di un assicuratore che mentre scartabella polizze e clausole si spara un Biancosarti e una puntata del commissario Coliandro.  Infine, non necessariamente in quest&rsquo;ordine, il podio, la sentenza mite, le reciproche spiegazioni e il giuramento dei due reprobi di non farlo mai pi&ugrave;, condito dall&rsquo;appello di Lauda e Wolff all&rsquo;unit&agrave; del partito, sinceri come Forlani alla fine di un furibondo congresso della Democrazia Cristiana, puntuale prologo di un congresso futuro ancor pi&ugrave; felpatamente inferocito.    Parliamoci chiaro, in Formula Uno i dom&igrave;ni - e perfino i cond&ograve;mini rissosi - ci son sempre stati. Anche i minorenni ricordano, foss&rsquo;anche per sentito dire, il dualismo Lauda-Prost, quello Prost-Senna, piuttosto che i mandati agonisticamente dittatoriali di Schumi in Ferrari o Vettel su Red Bull.&nbsp;  &Egrave; che stavolta la faccenda si pone in maniera diversa, perch&eacute; la zuffa da ballatoio tra Hamilton e Rosberg dura da tre anni ormai e promette chiss&agrave; quanti futuri disagi, visto che loro due sono i primi nella storia condannati a non poter divorziare.&nbsp;  Sissignore, una volta le lotte interne al coltello c&rsquo;erano eccome, ma finivano presto. Uno dei due salutava e se ne andava.&nbsp;  Nico e Lewis no, ancor pi&ugrave; di Vettel e Webber nell&#39;era Red Bull,&nbsp;sono di una razza nuova, diversa e speciale: perch&eacute; sanno benissimo che il primo a dire ciao, poi, per vincere un Gran Premio su un altra monoposto, dovr&agrave; attendere decadi. Quindi sono obbligati a restare insieme, centellinando e pasteggiando il male minore gustoso come un cent&rsquo;erbe.  Cos&igrave; nell&rsquo;umanissima saga di famiglia del nero e del biondo, a turno molti di noi rivivono l&rsquo;altrettanto umanissima telenovela dei coniugi da anni separati in casa, ma ferreamente per sempre uniti dal timore d&rsquo;andare a stare peggio.&nbsp;  La Formula Uno sta diventando quindi anche simbolo e metafora della vita di tanti uomini e donne eroicamente qualunque, proponendo ogni domenica minimaliste scene da un matrimonio degne d&rsquo;un capolavoro del grande Ingmar Bergman.  Ma c&rsquo;&egrave; un ma.&nbsp;  La notizia fresca che rimbalza dalla Stiria: un brutto giorno questa minimalista nonch&eacute; meravigliosa favola rischia di terminare, lasciandoci tutti orfani e vedove.&nbsp;  Perch&eacute; all&rsquo;indomai dell&rsquo;ennesima spataccata all&rsquo;argento vivo, stavolta in Austria, Wolff ha detto chiaro: &laquo;Ora basta. Da Silverstone cambier&agrave; tutto. Ci saranno sistemi precisi, regole ferree e ordini di scuderia&raquo;. Insomma, mai pi&ugrave; situazioni del genere e harakiri in salsa Mercedes.  Adesso che ci eravamo adattati, ora che avevamo trovato godibilit&agrave; ai motivi ricorrenti d&rsquo;una trama a suo modo avvincente, ci si paventa innanzi il fantasma d&rsquo;una nuova svolta normalizzante.  E sar&agrave; cos&igrave; che, alla vigilia di quel Gran Premio di Gran Bretagna che nel lontano 1950 sanc&igrave; l&rsquo;alba della F.1 moderna, forse non sentiremo parlare mai pi&ugrave; di lotte in casa Mercedes, dando addio per sempre a questo piccolo mondo antico di bottarelle bastarde porche, che tanto ci fu caro e non poco la nostra arsura innaffi&ograve;.  E magari solo allora, quando vedremo obbedire i due ragazzi irreggimentati nei novelli sincronismi teutonici, capiremo, per l&rsquo;ennesima volta nella nostra vita, che avevamo vissuto anni bellissimi ma proprio non ce n&rsquo;eravamo accorti.&nbsp;  La finale metafora esistenziale, in questa stordente era ibrida, ci racconter&agrave; beffarda che eravamo felici, ma non lo sapevamo. 

Una prece alla Mercedes affinch&eacute; non uccida l&rsquo;ultimo sogno di lotta

Nico e Lewis? Please, lasciateli litigare

Mentre a Goodwood si celebrava il fascino del Motorsport austeramente retr&ograve; che riabbraccia la gente, sabato 25 giugno a Imola, in chiave minimalista, confidando solo e tanto sulla spontaneit&agrave; degli appassionati, Gian Carlo Minardi ha vissuto una delle giornate pi&ugrave; belle della sua vita.  Tremila paganti, pi&ugrave; almeno mille che erano l&igrave; in quanto sponsor, invitati, collaterali, amici di vecchia data o che altro, per un totale presumibile di quattromila persone.&nbsp;  Ma quella di Imola per l&rsquo;Historic Minardi Day non era mica una discoteca e i conti veri non si fanno coi blocchetti di biglietti staccati, ma soprattutto con le sensazioni provate e l&rsquo;aria respirata.  Perch&eacute; a entusiasmare la fiumana di race fan che ha invaso il paddock e stipato le tribune, c&rsquo;era un patrimonio di decine di monoposto, Ferrari e Toro Rosso comprese, ma anche presenze a sorpresa quali Fondmetal e Tecno, viaggianti o semplicemente esposte.&nbsp;  Un estratto fedele di tre decadi di storia rombante della Minardi e delle corse, dalla formula cadetta al ventennio d&rsquo;oro in F.1, impreziosito dalla presenza del gruppone nobile di tanti combattenti e reduci in casco e tuta.&nbsp;  Tanti piloti presenti gi&agrave; militanti nel team faentino, capitanati da quel Piero Martini che alla corte di patron Gian Carlo riusc&igrave; a percorrere pi&ugrave; Gp di chiunque altro, nonch&eacute; un giro in testa al Gp del Portogallo 1989 e a partire in prima fila a Phoenix&nbsp;1990.  A festa finita, parlare con Gian Carlo Minardi era un tutto contemplare i suoi silenzi sbalorditi, punteggiati di qualche modesto e sincero &laquo;Non me lo sarei mai aspettato... Quasi non me lo spiego... Ad acclamare le mie Minardi c&rsquo;erano quasi pi&ugrave; giovani che vecchi...&raquo;.  E allora una mezza spiegazione si pu&ograve; provare ad abbozzarla, al suo posto, visto che lui dice di non averla.  &Egrave; vero, dal 1985 al 2005 mai una Minardi ha vinto un Gp o visitato il podio, eppure la squadra faentina in 345 gare iridate disputate ha incarnato un simbolo coraggioso e onesto, forte della sua pura sportivit&agrave;, improntata come sempre &egrave; stata all&rsquo;apertura e alla proposizione di un lato il pi&ugrave; possibile umano delle corse.  Tanto per cominciare, il coraggio.&nbsp;  In piena era turbo, grazie alla passione e all&rsquo;appoggio del compagno d&rsquo;avventura, il compianto Piero Mancini, e alla voglia di non mollare dell&rsquo;ingegnere Carlo Chiti, la Minardi ebbe l&rsquo;ardire di farsi in casa il propulsore. L&rsquo;unit&agrave; Motori Moderni si rivel&ograve; poi fragile e sfortunata, eppure solo l&rsquo;averci provato fu di per s&eacute; un inizio e un indizio minimalisticamente eroico, con Piero Martini presto seguito nell&rsquo;abitacolo da Andrea De Cesaris e Alessandro Nannini, a dare il la a una sequela impressionante di piloti italiani lanciati o pi&ugrave; semplicemente fatti arrivare in Formual Uno.  L&rsquo;onest&agrave;, dicevamo.&nbsp;  In Formula Uno Gian Carlo Minardi era uno che non piantava chiodi. Se prendeva un pilota, anche non eccezionale, non lo spremeva come un limone, lasciandolo a piedi alla prima scusa, pur d&rsquo;intascare quattrini. No, cercava di costruire e costruisci qualcosa attorno. Fino in fondo.  Sabato scorso a Imola, se ha fatto piacere rivedere Trulli o Fisichella, che con Gian Carlo si sono lanciati, ancor pi&ugrave; toccante &egrave; stata la presenza, dai pi&ugrave; non rilevata, di personaggi quali Adrian Campos, Giovanni Lavaggi o Tarso Marques, che nella squadra faentina non hanno combinato cose ricordate con steli, eppure serbano dentro una gratitudine immensa per la grande opportunit&agrave; che gli &egrave; stata data, peraltro molto dignitosamente contraccambiata corsa dopo corsa.  Quindi, la sportivit&agrave;.&nbsp;  Minardi in venti anni di Formula Uno non ha mai ciurlato nel manico, muovendosi da lelaista e legalista, riuscendo a stabilire una convivenza a tratti delicata mai mai messa in dubbio, con un padrone del circo difficile e problematico quale Bernie Ecclesone, didivendo la scena in Italia con la Ferrari, forse l&rsquo;impresa pi&ugrave; perigliosa e meglio riuscita di tutte.&nbsp;  Di pi&ugrave;. Anche se realizzate con budget risicati, le sue monoposto - a differenza di tante altre, a volte dai nomi ben pi&ugrave; altisonanti -, non sono mai state considerate bare viaggianti o fragili mantidi, anzi, il loro degno e appassionato lavoro lo hanno sempre fatto fino in fondo, dimostrando che tendenzialmente erano concepite anzitutto per essere serie, solide e durevoli.  Nondimeno, tra i valori c&rsquo;&egrave; la paziente flessibilit&agrave; di Gian Carlo.&nbsp;  S&igrave;, la pazienza di saper dividere la scena anche con compagni di viaggio a tratti stupendi e appassionati, altre volte meno. Il grande Piero Mancini per primo e poi negli anni il bravo Giuseppe Lucchini, piuttosto che - incidentalmente, per la verit&agrave; - Flavio Briatore, piuttosto che lo stupendo Gabriele Rumi e il controverso australiano Paul Stoddart.&nbsp;  Ecco, sapere e riuscir a navigare nei vent&rsquo;anni pi&ugrave; difficili e cangianti della Formula Uno, non &egrave; cosa da poco e Gian Carlo e i suoi ragazzi ci sono riusciti non perdendo mai l&rsquo;orgoglio di sfoggiare lo stile Minardi, quel modo di correre e di vivere sempre aperto e sorridente, che sapeva allevare campioni come Alonso e Webber nell&rsquo;abitacolo - ma anche aiutare in F.2 Elio De Angelis e Michele Alboreto -, facendo germogliare al muretto e al tavolo da disegno menti valide quali Gabriele Tredozi e Aldo Costa, per limitare l&rsquo;indagine solo a esempi illuminanti.  Poi ci sono i traguardi raggiunti.&nbsp;  Concreti, pratici, sostanziali, che solo chi &egrave; astigmaticamente accecato dal glamour finto di altre storie non riesce a percepire nella sua interezza grande.  La Minardi &egrave; stata la sola piccola squadra salvatasi dalla pulizia etnica delle prequalificazioni, spietatamente voluta da Ecclestone specie nel biennio 1989-1990.  La Minardi, sissignore, &egrave; stata la squadra che ha creduto pi&ugrave; negli italiani.  La Minardi &egrave; stata la squadra che di fatto - quando la sua storia ne avrebbe giovato al punto da poter essere riscritta e godere di ben altri introiti e blasone -, non ha potuto ben fruire dell&rsquo;allargamento della zona punti fino a premiare i primi dieci. Se la regola fosse stata cambiata assai prima, certe annate delle monoposto faentine avrebbero annotato piazzamenti caratterizzati da una luce ben pi&ugrave; giusta e vivificante.  Infine, la Minardi &egrave; stata una piccola squadra che &egrave; andata vicinissima a vincere un Gran Premio, in Brasile 2003, quando il pilota d&rsquo;allora, Jos Verstappen part&igrave; in una gara bagnatissima con benzina a cisterna e le gomme giuste, mentre dal muretto Tredozi scongiurava il suo pupillo di mantenersi calmo e aspettare che la gara gli andasse incontro, perch&eacute; lo svolgersi dei fatti gli avrebbe dato gloriosamente ragione.  Poi cos&igrave; non and&ograve;, Jos scler&ograve;, usc&igrave; e la storia Minardi conserva ora quel bocciolo mai dischiuso, piuttosto che una rosa bella aperta da tenere a memoria, ma la cosa non sposta d&rsquo;un millimetro la bella favola.&nbsp;  Minardi in F.1 &egrave; stato sinonimo di valori.&nbsp;  Di rispetto per cose forti, di salvaguardia di un patrimonio non solo sportivo, condiviso da tanti, idealmente da tutti noi.  E i silenzi modesti di Gian Carlo che ancora oggi non riesce a spiegarsi perch&eacute; tanta gente sia arrivata a Imola per rendergli omaggio, vanno colorati e campiti da questa bella realt&agrave;.  L&rsquo;epopea sottotraccia della Minardi, se fosse un monumento del Motorsport, dovrebbe essere tutelata come patrimonio dell&rsquo;umanit&agrave;.  Appuntamento al prossimo Minardi Day, Gian Carlo, e se rivedi il solito fiume di gente felice che ti vuole parlare e stringere la mano, per favore non ti stupire mai pi&ugrave;. 

Il successo di pubblico nella giornata di Imola riafferma valori importanti

Minardi, patrimonio del Motorsport

Domenica pomeriggio verso le tre, tutto il mondo del Motorsport era concentrato sul finale della 24 Ore di Le Mans o sul via del Gp d&rsquo;Europa a Baku. Da l&igrave; in poi ci siamo tutti industriati di vedere e gustare l&rsquo;uno o l&rsquo;altro, non sottolineando a sufficienza il vero punto della faccenda, che costituisce a tutti gli effetti un fatto gravissimo.  I due eventi globali e fondanti della stagione, quello storico-tradizionale e il pi&ugrave; nuovo e inedito, erano posti artatamente in sovrapposizione.&nbsp;  Non era possibile contemplare col cuore in gola il finale drammatico della Toyota e la conseguente festa Porsche, senza saltare il giro di ricognizione e il via della gara di F.1.    Una coincidenza offensiva, assurda, scientifica e penalizzante, che non pu&ograve; non essere stata preordinatamente studiata da mesi e mesi, scegliendo l&rsquo;orario perfetto - a costo di far partire il Gp alle 15 e non alle solite canoniche 14 di casa nostra e farlo arrivare al tramonto -, pur di togliere esposizione mediatica a Le Mans, danneggiandola.&nbsp;  Ovvio, che poi l&rsquo;epilogo della maratona si rivelasse cos&igrave; imperdibile, nessuno poteva saperlo in anticipo, ma l&rsquo;arrivo di una 24 Ore, insieme alla partenza, &egrave; il suo punto pi&ugrave; spettacolare nonch&eacute; godibile, e tanto bastava per congetturare orari di qualifiche e gara del Gp che andassero a rompere le uova nel paniere - anzi, diciamo pure le palle - a entrambi, ossia a inizio e fine della 24 Ore: alle 15 spaccate.  Ora, gli irriducibili di Le Mans diranno: vbe, chissenefrega della F.1, non &egrave; il mio film, e quelli della F.1 risponderanno: me ne impippo di Le Mans, non &egrave; mai stato il mio film, ma il vero ganglio maligno della questione s&rsquo;annida altrove e vediamo dove e come.    Da anni e anni il calendario della F.1 viene usato da chi ne detiene i diritti commerciali come arma impropria di pressione, selezione e disturbo.  Ormai l&rsquo;attesa dell&rsquo;ufficializzazione del calendario definitivo della futura stagione di F.1 &egrave; una specie di maxisentenza processuale che contiene non solo orari furbini e date maliziosamente disturbanti per chi impiccia - stavolta vedi Le Mans -, ma anche e soprattutto vere e proprie pronunce di morte, assoluzione o esaltazione che colpiscono sempre pi&ugrave; spesso Paesi storicamente legati alle radici pi&ugrave; intime dell&rsquo;automobilismo da corsa, per valorizzare d&rsquo;ambl&eacute; sedi avviluppate alle radici pi&ugrave; intime del guadagno miliardario facile, a costo di mettere manichini sulle tribune vuote di mega aree desertiche o metropolitane.&nbsp;  &Egrave; cos&igrave; che a turno, Francia, Germania e Italia hanno perso, stanno perdendo o rischiano di perdere un Gp, mentre la stessa Gran Bretagna pochi anni fa &egrave; andata ben vicina a farlo, con l&rsquo;austero e sacro British Racing Drivers&rsquo; Club di Silverstone messo in piena regolarit&agrave; alle strette da Ecclestone come Equitalia farebbe con un contribuente che, facendo quel che pu&ograve;, pagando chiede piet&agrave;.  Ormai il calendario di F.1 &egrave; un&rsquo;arma di pressione, un offendicolo improprio, con conseguenze che, nelle ipotesi peggiori, ricadono su tutto l&rsquo;automobilismo da corsa di una nazione e, a cascata, sugli epicentri storici e culturali del Motorsport.&nbsp;    Quindi la faccenda riguarda chiunque abbia a cuore le corse, nessuno escluso, e non solo e non tanto chi segue superficialmente o profondamente la sola F.1 o il Wec o chiss&agrave; cos&rsquo;altro.  Molto probabilmente, se fosse possibile organizzare un Gp sugli anelli di Saturno, lucrandoci perch&eacute; nello spazio non vige la legge antifumo e il divieto d&rsquo;usare i relativi e munifici sponsor, si eviterebbe di correre a Monza pur di sgommare sugli anelli di Saturno.  Il tutto, ossia l&rsquo;indiscriminata libert&agrave; del promoter della F.1, si basa su un assunto cos&igrave; sintetizzabile: possedendone i diritti tabellari, il promoter medesimo ha legittimamente piena autonomia di gestire come meglio crede qualsiasi aspetto inerente scelta, utilizzo e aspetti commerciali della faccenda. Tutto ci&ograve; che riguarda sfruttamento e guadagno sul prodotto F.1 spetta in modo sacrosanto all&rsquo;entit&agrave; che ne detiene le royalties, peraltro, questo va detto, caramente acquistate e gestite con rischio d&rsquo;impresa.  La Federazione Internazionale, quindi, non pu&ograve; invadere l&rsquo;altrui sfera di competenza, perch&eacute; non deve occuparsi di questioni che abbiano un solo dollaro di guadagno in ballo.  Una regola formalmente giusta, che viene applicata in modo restrittivo e penalizzante per questo che, non dimentichiamolo, prima di tutto &egrave; o dovrebbe essere uno Sport.  In realt&agrave; se un soggetto gestendo una disciplina sportiva ne stravolge l&rsquo;essenza, una Federazione pu&ograve; e deve intervenire, ponendogli limiti e paletti.  Facciamo un esempio di scuola: se io divento promoter del Cricket e sposto qualsiasi partita dai Paesi del Commonwealth a San Felice sul Panaro, guadagnandoci assai, come minimo mi devo aspettare che la Federazione mondiale del Cricket intervenga impedendomelo, perch&eacute; cos&igrave; facendo sto creando un problema prepolitico, preeconomico e prepromozionale, recidendo per sempre le radici storiche, culturali e genetiche della disciplina che mi propongo di promuovere.    Ecco, questo letto cos&igrave; sembrerebe logicissimo, ma nel mondo delle corse per ora non succede, nessuno si lamenta perch&eacute; non accade e verrebbe tanto voglia d&rsquo;augurarsi che a breve possa accadere.  Con una Federazione Internazionale dell&rsquo;Automobilismo che intervenga dicendo: okay, promoter, i guadagni sono e restano tuoi, ma sappi che ti devi muovere dentro limiti fondanti precisi e rispettosi del nostro Sport: la stessa Fia esiste apposta per farli rispettare, accanto ai regolamenti.  Per questo sarebbe sacrosanto avere - cos&igrave; come esiste tra i team della F.1 un coefficiente preferenziale che tutela la posizione economica delle Case pi&ugrave; antiche e blasonate, Ferrari su tutte -, una lista di gradimento quale utile strumento di tutela di Paesi storicamente e inscindibilmente legati all&rsquo;automobilismo, nei quali per ci&ograve; stesso si pu&ograve; e si deve avere l&rsquo;organizzazione di un Gran Premio, con costi non imposti dalla bruta e spietata forza del mercato.  Sissignore, anche con date o, come minimo, orari che non impallino forzatamente la 24 Ore di Le Mans, quella che, rispetto alla F.1, &egrave; la corsa pi&ugrave; antica, bella e diversa del mondo.  Monsieur Jean Todt, sappia che lei &egrave; non solo autorevole Presidente della Fia, ma anche il nome che diamo a questa nostra sincera, disinteressata e appassionata speranza. 

Il via del Gp di Baku impalla Le Mans: semplicemente vergognoso.

Il calendario F.1 non deve pi&ugrave; essere un&rsquo;arma

Sta iniziando la settimana pi&ugrave; affascinante dell&rsquo;automobilismo da corsa, quella della 24 Ore di Le Mans. Un rituale complesso e cristallizzato nei decenni, sacrale quanto elettrizzante. Le vetture che sbarcano a Piazza dei Giacobini, il primo contatto dei team e dei campioni col pubblico, il trasferimento sul tracciato lungo della Sarthe gremito nel weekend da centinaia di migliaia di tifosi, quindi l&rsquo;avvio delle qualificazioni, tiratissime di giorno e di notte, e poi la gara. Una meraviglia esistenziale per chiunque ami le corse vere, per duri e puri, ufficiali e privati. Impreziosita dall&rsquo;inclusione in un mondiale, il Wec, che attira come un tempo le grandi Case e i campioni vecchi e nuovi, come da sempre la stessa Le Mans ha fatto e far&agrave;. Sugli scudi, Prototipi e Gt, originali, i primi dalla tecnologia ibrida e futurista, le seconde con l&rsquo;allure delle dream car che si sfidano come non ci fosse un domani. Fantastico. Ora sembra tutto planare e scontato, ma non lo &egrave;. No, fino a poco tempo fa non lo &egrave; stato affatto.  24 Ore di Le Mans: la grande sfida a 3  World Endurance Championship dal 1992 all&rsquo;inizio del 2012 era una sigla morta, anzi uccisa dai potenti - e rimpianta inconsolatamente dai veri appassionati -, perch&eacute; dava fastidio, faceva ombra alla F.1, con l&rsquo;ipotetica platea globale che in terra non avrebbe dovuto avere altro dio del circus iridato. Ci vollero battaglie dure, combattute corporativamente da qualche Casa e donchisciottescamente da sparuti giornalisti, perch&eacute; l&rsquo;orologio del tempo tornasse indietro e ci restituisse nel suo antico splendore la corsa pi&ugrave; bella del mondo all&rsquo;interno di un campionato agonisticamente combattuto, tecnologicamente di livello quanto ricco di creativit&agrave; e originalit&agrave; progettuale, filosoficamente diverso se non opposto rispetto a ci&ograve; che la F.1 &egrave; diventata.    Quando nella rubrica Bastian Contrario di dieci anni fa scrivevo &ldquo;ridateci il Mondiale Marche, perch&eacute; non averlo pi&ugrave; &egrave; un delitto che grida vendetta&rdquo;, erano tanti a rispondere con le solite, salmodianti e devastanti argomentazioni. Quali? Queste: &ldquo;Indietro non si torna. La tua &egrave; pura nostalgia&rdquo;. Insomma, il progresso ha selezionato e deliberato, alla Darwin. E cos&igrave; come T-Rex, pterodattili e triceratopi che hanno smesso di latrare in un mondo loro, le sfide iridate tra Prototipi non torneranno mai pi&ugrave;, visto che Le Mans &egrave; destinata a restare, forse con Daytona e Sebring, solo l&rsquo;isolato Jurassic Park di un&rsquo;era che non c&rsquo;&egrave; pi&ugrave;. Visto poi come &egrave; andata? Be&rsquo;, sapete la lezione qual &egrave;? Bisogna non smettere mai di difendere il patrimonio pi&ugrave; bello e scintillante del nostro sport. Quando si cura ci&ograve; che si ama, non &egrave; nostalgia, ma passione costruttiva.    Chi dice che indietro non si torna, finge di filosofeggiare sulle magnifiche sorti e progressive, ma in realt&agrave; si sta facendo smisuratamente solo gli affaracci suoi. Chi accusa l&rsquo;altrui indignazione di sterile nostalgia, non ne ha perch&eacute; guarda a questo sport solo come occasione di guadagno, oppure, da cosiddetto appassionato, &egrave; disposto, pronto e appecoronato a ingurgitare tutto ci&ograve; che gli viene somministrato - per di pi&ugrave; lautamente pagandoci sopra. A partire dalle safety-car usate come bromuro, passando per il monopensiero imperante, stitico e sciapo che vige in F.1, per arrivare all&rsquo;insipienza dei suoi circuiti di nuova generazione e all&rsquo;assurdit&agrave; di un regolamento tecnico che ha reso di fatto la massima espressione dell&rsquo;automobilismo da corsa un monomarca mascherato a scopo di lucro.  Ecco, ora che ci prepariamo a gustare la maratona della Sarthe, l&rsquo;augurio caldo che vi invio &egrave; quello di non dire mai pi&ugrave; &ldquo;indietro non si torna&rdquo;, perch&eacute;, a ben guardare, all&rsquo;indietro, come i gamberi, ci va solo chi accetta tutto dall&rsquo;alto, acriticamente avvolto dal suo comodo e compiacente paraocchi. Buona 24 Ore di Le Mans a tutti. 

La 24 Ore, fiore all&rsquo;occhiello del Wec, &egrave; l&rsquo;armonioso esempio presente di rispetto per il passato e il futuro delle corse

Ringraziamo Dio che c&rsquo;&egrave; Le Mans

Se fosse possibile esprimere uno e un solo desiderio per cambiare per sempre qualcosa in F.1 ricorrendo alla bacchetta magica, non avrei dubbi. Abolirei la ridondante ala anteriore delle monoposto e la sostituirei con una struttura molto pi&ugrave; piccola, essenziale ed uguale per tutti. Un alettoncino robusto, spartano, anonimo, pret a porter e via andare. Eliminandone del tutto importanza e influsso.  Tutto ci&ograve; perch&eacute; non vedo cosa pi&ugrave; negativa, costosa, dannosa e sterile dell&rsquo;ala anteriore cos&igrave; com&rsquo;&egrave; concepita da anni. &nbsp;Simbolo filosofico-strutturale di una F.1 che condanna se stessa ad essere fragile, poco spettacolare, costosissima e ormai concettualmente e pericolosamente staccata dalla realt&agrave;, oltre che a non poter applicare nella produzione studi e ricerche costosamente in atto a scopo agonistico.  Perch&eacute; l&rsquo;immensa ala anteriore delle F.1 di oggi &egrave; la prima cosa che si rompe carezzando appena barriere o quando due monoposto si sfiorano. Se non si danneggia fa peggio, perch&eacute; puntualmente fora gomme altrui, rovinandosi o rovinando gare per un azzardo millimetrico che, in fondo, non &egrave; neppure calcolabile dal pilota, annegato e impedito nella vista in abitacoli salvificamente e opportunamente avvolgenti.  La vulnerabilit&agrave; dell&rsquo;ala anteriore paradossalmente unita alla sua strutturale e tagliente capacit&agrave; offensiva sono le due facce del suo peggior difetto: quello di inibire, scoraggiare o sconsigliare azioni offensive da parte dei piloti in corsa e in lotta tra loro, ammosciando la combattivit&agrave; sul nascere.&nbsp;Ma questo &egrave; niente.  &Egrave; pericolosissima, perch&eacute; grande com&rsquo;&egrave; se si rompe puo finire sotto la monoposto togliendo direzionalit&agrave;, con conseguenze possibili e passibili di estrema gravit&agrave;.&nbsp;Di pi&ugrave;. L&rsquo;ala medesima oggi rappresenta una delle variabili aerodinamiche pi&ugrave; importanti, una vera chiave di volta, in quanto influenza rendimento e comportamento di tutta la monoposto.&nbsp;  Gran parte degli studi costosissimi in sede progettuale o in galleria del vento si concentrano sulla conformazione millimetrica di questa o quella bavetta, di un canale aggiuntivo, di una svergolatura in pi&ugrave;, in un incessante e faraonico sforzo di sintonia fine su vere e proprie fungaie di microingegneria, che vedono all&rsquo;opera le pi&ugrave; ingegnose menti all&rsquo;interno di una ricerca del tutto astratta e priva di benefici e ricadute pratiche per l&rsquo;automobile nel suo complesso. Certo, fatte salve quelle specifiche per una monoposto che cos&igrave; pu&ograve; guadagnare qualche frazione di decimo.  Per farla breve, &egrave; come avere all&rsquo;opera i pi&ugrave; grandi parrucchieri del pianeta intestarditi a cercare con costi faraonici nuovi modi per abboccolare creativamente i peli delle ascelle. E dico ascelle per rispetto di chi legge, senn&ograve; cambierei termine.&nbsp;Per migliorare le cose e sanarle d&rsquo;ambl&eacute;, con un solo tratto di matita, basterebbe mutare strada e sposare la filosofia dell&rsquo;alettone piccolo e uguale per tutti. Utile ma ininfluente. Sicuro, montabile al prezzo di una merendina e per niente fragile. Un bell&rsquo;incentivo ai team per spendere di meno, ai tecnici per riflettere pi&ugrave; costruttivamente altrove e ai piloti per lottare di pi&ugrave;.  Invece no. Manco per niente.&nbsp;Il prossimo anno l&rsquo;alettone assumer&agrave; una sezione triangolare presso il bordo di attacco, con forma a freccia. In poche parole, si seguir&agrave; una strada opposta e ancor pi&ugrave; esasperata, estendendo l&rsquo;ala anteriore in proporzione alle gomme pi&ugrave; generose, al fine di renderla meno sensibile alla scia di chi precede.  Quindi aumenter&agrave; la sua larghezza da 1.650 a 1.800 mm, col solito effetto marcato sul disegno dei profili delle monoposto.&nbsp;In poche parole, la strada scelta sar&agrave; esattamente opposta a quella del ragionamento semplice semplice svolto sopra. Proseguiamo pure a farci del male, insomma. Tirandoci martellate nel sottoopancia, con la prospettiva di godere solo se sbaglieremo mira. 

&Egrave; il simbolo negativo e assurdo di una categoria che perde contatto con la realt&agrave;

Odio l&rsquo;ala anteriore delle F.1

3a puntata - 31 maggio 2016  Bisogna che ci guardiamo negli occhi dicendo le cose come stanno. Con la mentalit&agrave; che gira adesso in F.1, il pi&ugrave; esaltante primo giro nella storia delle corse, ossia l&rsquo;avvio di Ayrton Senna nel bagnatissimo Gp di Donington nel 1993, non sarebbe mai esistito. Sostituito da un prudente avvio processionale del gruppone a cielo plumbleo, dietro a una tombale safety car.&nbsp;  Qui la nostalgia non c&rsquo;entra. Non parliamo mica di Nuvolari, Caracciola o della Coppa Acerbo, ma del comportamento di un estabishment che da tre decenni &egrave; lo stesso, immutatissimo nei nomi, quindi niente malinconie nostre, solo occhiuta incoerenza loro.  E ci&ograve; che &egrave; accaduto domenica a Montecarlo &egrave; di una gravit&agrave; inaudita non perch&eacute; inedito - di partenze wet sotto safety ne abbiamo viste una cifra, ormai -, ma solo perch&eacute; suona come ufficiale e definitiva conferma dell&rsquo;irreversibilit&agrave; del mutamento filosofico di questo sport. Che in sintesi consiste in questo: quando piove i signori della F.1 non vogliono noie nel loro locale.  E se nel vecchio west i baristi spegnevano i casini sul nascere tirando fuori la doppietta da sotto il bancone, sui circuiti del mondiale alle prime gocce si fa prima e senza dispendio di polvere da sparo: si parte sotto safety e via.  Una contraddizione stridente, insultante e codarda, parimenti irrispettosa del talento dei piloti e delle aspettative di chi paga per vederli sfidare e sfidarsi.  Perch&eacute; delle due l&rsquo;una: o ci sono condizioni per correre e allora si parte con procedura regolare. Oppure non ci sono perch&eacute; la pista &egrave; allagata e allora si resta fermi e buoni ad attendere che schiarisca e s&rsquo;asciughi.  Avviarsi dietro l&rsquo;autobus &egrave; una presa in giro che serve solo a chi comanda per garantirsi la diretta Tv e a infarcirla di spot lucrosi, privando l&rsquo;automobilismo dei soli sette-otto giri in condizioni semi-estreme (badate: semi estreme, mica pericolose tout court) che avrebbero fatto la differenza, esaltando i men rispetto ai boys.  E invece no. La safety neanche esce a Suzuka 2014 quando c&rsquo;&egrave; un mammuth in pista, con le conseguenze che purtroppo tutti conoscono, ma &egrave; la prima a lasciare la linea di partenza a Montecarlo 2016, il solo posto al mondo in cui le gru operano sicure al di l&agrave; delle barriere e le velocit&agrave; medie sono le pi&ugrave; basse del mondiale, mentre di acqua sull&rsquo;asfalto non ve n&rsquo;&egrave; un diluvio e i piloti via radio urlano - Hamilton e Magnussen su tutti - a Charlie Whiting il loro sacrosanto diritto di poter e dover correre.  Siamo a questo.  I famelici padroni del vapore in F.1 ambiscono a guadagni impensabili ma rifiutano il concetto di assunzione del rischio d&rsquo;impresa, molto pi&ugrave; di quanto siano disposti a sostenere gli stessi piloti, stavolta mediamente incazzati quanto noi.  Altroch&eacute;, i pupari del Circus dicono e stombazzano d&rsquo;offrire lo spettacolo pi&ugrave; estremo al mondo, ma lo fanno con la furba e ammosciante prudenza d&rsquo;un ristoratore della bocciofila.  Anni fa Ron Dennis rilasci&ograve; una bellissima intervista, pubblicata in Italia da &ldquo;Il Sole 24 Ore&rdquo;, nella quale, in sintesi, diceva questo: &laquo;Dobbiamo amare e preservare la Formula 1, perch&eacute; resta una delle rare discipline estreme ancora legalmente praticate nel mondo dello Sport&raquo;.  Ecco, che sia tuttora uno Sport qualche dubbio l&rsquo;avrei, ma dopo ieri, che non sia estremo, ne ho e ne abbiamo ulteriore e comprovata certezza.  Intendiamoci, non possiamo cavarcela solo cos&igrave;. La farsesca overture di Monaco 2016 va equamente spartita tra le simpatiche parti in causa.  Dei mammasantissima abbiamo gi&agrave; detto.&nbsp;  Poi ci sono i piloti. Gente che da un quarto di secolo sta zitta, anzi, peggio, parla sempre facendo blabla e non dicendo mai niente, altrettanto furbamente e remuneratamente tacendo e obbedendo, quasi mai ragionando davvero. Per loro, dopo Senna e Prost, terminati i favolosi Anni 90, sono arrivati malinconicamente gli Anni a 90 gradi.  Quindi ci siamo noi giornalisti. Prevalentemente e&nbsp; cromosomicamente svizzeri alla Don Abbondio, avendo capito che conviene comportarsi come la Confederazione Elevetica in politica estera: non facciamo le guerre con nessuno, ma alla bisogna, glissando, sappiamo fare affari con tutti.  Infine, terminale della faccenda, &egrave; l&rsquo;appassionato vero, trattato come il tubo d&rsquo;un lavandino, che dovrebbe ingurgitare tutto e di tutto beotamente felice, pagando caramente il nulla o quasi che gli viene offerto come fosse il sale della terra.&nbsp;  Obbligato a sopportare anche laiche processioni come quella di Montecarlo, il cui unico miracolo &egrave; quello d&rsquo;offrire uno show inesistente in modo mortificante e privo di rispetto, retroattivamente, perfino nei confronti di tutti coloro che in pista, rischiando tanto e spesso per niente, nei decenni passati hanno contribuito, loro s&igrave;, a rendere grande e estrema la F.1.  Quando si comporta cos&igrave;, &egrave; il Circus a dimostrare d&rsquo;avere l&rsquo;acqua alle caviglie e non certo in pista.  A chi comanda, l&rsquo;augurio sincero di far qualcosa, prima che salga di livello e gli arrivi alla gola. 

La neutralizzazione iniziale del piovoso Gp di Monaco resta una vergogna insostenibile

Togliete quella safety, suorine

2a puntata - 24&nbsp;maggio 2016  Tra poche ore, gioved&igrave;, iniziano le qualifiche di Montecarlo e solo a pensarci bisognerebbe mettersi sull&rsquo;attenti, ricordare com&rsquo;erano quando ancora in F.1 si facevano solo cose serie e osservare un minuto di raccoglimento alla memoria.  Perch&eacute; dai e dai tutto questo discorso sui format e sul Q1, Q2 e Q3 &egrave; diventato - ma non da quest&rsquo;anno, da mo&rsquo; - un cartone animato incolore e sciapo, che in confronto i Puffi son pi&ugrave; arrapanti e andrebbero visti in compagnia di un&rsquo; adulta.  Ess&ugrave;, c&rsquo;&egrave; stata un&rsquo;era in cui le qualifiche erano il momento pi&ugrave; teso e drammatico del weekend da Gp e a propiziarlo non era questo o quel format cervellotico, ma una situazione semplicissima, ben al di l&agrave; della lotta per la pole: tanti erano gli iscritti e ben pochi i posti in griglia di partenza.  Gi&agrave;, il sovrannumero.  Bastava quello per non assicurare a nessuno il diritto di essere al via e rendere le qualifiche, dal primo all&rsquo;ultimo istante, una roulette russa in grado di spezzare carriere, far vittime illustri e mandare in depressione fior di campioni, puntualmente col cuore in gola.  Trenta, trentacinque iscritti e pochi posti al via.&nbsp;  Tutto questo, fatti salvi i periodi di magra, dagli Anni &rsquo;50 fino alla fine degli Anni&rsquo;80 e l&rsquo;inizio dei &rsquo;90.&nbsp;  Da l&igrave; in poi, progressivamente e malinconicamente, &egrave; partita la F.1 del numero chiuso e del posto in griglia garantito. Il vero, reale schifo che sta alla base della noiosit&agrave; delle qualifiche.  Perch&eacute;, adesso, qualsiasi iscritto parte.&nbsp;  Non c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; pathos, lotta al coltello, sfida per la sopravvivenza.  Nell&rsquo;era ruggente, le qualifiche per chi non aveva una monoposto al top erano una giungla psicologicamente assassina, a volte agonisticamente letale per le ambizioni di chi sognava correre in F.1 e, attenzione, Montecarlo ne rappresentava la sublimazione, il fior fiore del dramma.&nbsp;  Le qualifiche del Principato erano un perfido e affascinante reality show nel quale tutti erano passibili di nomination e uscita anticipata.  Perch&eacute; i posti in griglia erano meno che altrove, per motivi di sicurezza, e erano ammessi al via a volte sedici, altre venti monoposto e fino all&rsquo;ultimo istante non v&rsquo;era sicurezza su chi erano i salvi e gli spacciati.  Tanto che a turno son rimasti fuori Bernie Ecclestone, nel 1958, Mario Andretti e la Ferrari, nel 1971, piuttosto che Graham Hill nel 1975 e Niki Lauda e la McLaren nel 1983, giusto per citare pochi nomi e tanta roba.&nbsp;Raus, a casa, gi&agrave; da sabato pomeriggio.  Ecco, quelle erano e sarebbero le vere qualifiche, col Principato che creava nuovi sovrani ma ghigliottinava chiunque, durante gli allenamenti. Bastava avere una sfiga o dare una toccatina inattesa al rail nel momento topico e facevi la peggior figura della tua vita.  Stranamente, una volta a Montecarlo si scremava il gruppo per motivi di sicurezza a 20 macchine, ora si parte allegramente in 22, anche se la sicurezza &egrave; un isterico idolo su ogni argomento meno che in questo. Strano, no?  Anzi, no: logico. Perch&eacute; nella F.1 del presente, dei minutaggi Tv garantiti e dei diritti faraonici, nessuno pu&ograve; essere escluso.&nbsp;  Gli acrobati hanno la rete e le brioche. Se sportivamente cadono, non si fanno male neanche all&rsquo;orgoglio.  Pochi anni fa invece non c&rsquo;era piet&agrave; e le qualifiche erano una guerra.&nbsp;  Tarquini, per esempio, &egrave; partito in 38 Gp fallendo il via in altri 40, tra prequalifiche (le prequalifiche s&igrave; che erano una discriminatoria vergogna, non a caso inventate da Bernie per uccidere i piccoli team e mandarli a casa per sempre, creando le premesse per il numero chiuso) e qualifiche vere e proprie.&nbsp;  No, altro che brainstorming sui format, pettinando bambole: padroni e piloti di F.1 dovrebbero tornare a quel mondo bello e vero.&nbsp;  Dovrebbero allargare ragionevolmente il numero dei partecipanti al mondiale e sottoporli alla tagliola delle qualificazioni, senza le ridicole partenze garantite dalla mutua che ci sono ora, con Haryanto sicuro di schierarsi in 21 Gp, cos&igrave; come, se guidasse una Manor, lo sarebbe mia zia.  La partecipazione a un Gp non deve essere sicura e garantita per nessuno: basta alla F.1 delle alchimie cervellotiche dei format, del sei politico e viva la&nbsp;Montecarlo selettivamente spietata delle qualificazioni mangiacristiani che furono. 

Alla vigilia del GP di Monaco analizziamo il vero, reale schifo che sta alla base della noiosit&agrave; delle qualifiche

Altro che format, il problema &egrave; la sostanza. Qualifiche, ma de che?

Mentre non si spengono gli echi del trionfo di Verstappen in Spagna, nella pentola della F.1 bolle per il futuro una pietanza dal sapore assai diverso e dai miasmi gi&agrave; sgradevoli e ammorbanti.  Il nuovo regolamento 2017 per i motori in materia di convergenza prestazionale &egrave; gi&agrave; bell&rsquo;e pronto a imboccare una strada che definire inquietante &egrave; usare un cortese eufemismo.  La Fia infatti non solo pretender&agrave; misure standard e restrizioni sui materiali, allo scopo di rendere le power unit se non uguali l&rsquo;una all&rsquo;altra, quasi.  No, ben peggio. Molto peggio.  Di fatto riproducendo la logica gi&agrave; in atto nella classe Gte del campionato Wec, dopo le prime tre gare di campionato, la Federazione stessa misurer&agrave; le performance complessive delle rispettive power unit, e, nel caso la differenza prestazionale risultasse superiore a tre decimi di secondo, chiederebbe al Gruppo Strategico di adottare ulteriori provvedimenti - di natura tecnica o sportiva - per equiparare le performance.  Portato a termine da anni l&rsquo;appiattimento in materia aerodinamica, la normalizzazione asettica e spersonalizzante &egrave; pronta a toccare anche i propulsori, con una sorta di lobotomia istituzionalizzata, al solo scopo di evitare che svetti un Costruttore migliore, meritevole e vincente o, che comunque, non diventi troppo dominante, per non togliere pathos allo spettacolo televisivo e non.  Cos&igrave; la bonifica invade anche e indiscriminatamente il campo sacro dei propulsori.  Dopo freezing e gettonaggio, tutto &egrave; pronto ad azzerarsi per imboccare la Fase Tre. Quella della morte definitiva della creativit&agrave; progettuale motoristica, peraltro gi&agrave; da anni in una situazione pericolante e minacciatissima.  Altro che F.1 quale massima espressione della ricerca automobilistica.  Con regolamenti del genere, Colin Chapman avrebbe fatto fatica a rimediare un pass paddock e Enzo Ferrari si sarebbe messo l&rsquo;anima in pace, dandosi alla lirica o al giornalismo.  E, quel che &egrave; peggio, &egrave; che tutto andr&agrave; avanti nell&rsquo;indifferenza generale, con i padroni della F.1 ormai pronti ad accarezzare la soluzione finale, in ossequio ai Gran Premi visti come altrettante arene di Wrestling motorizzato.  Quale? Forse questa. Se un pilota si rivelasse pi&ugrave; forte degli altri, nel Gp successivo si potrebbe instillargli una bella influenza o i bacilli degli orecchioni. Cos&igrave; impara. Anzi, disimpara e va come gli altri.  Una domandina finale semplice semplice. Come appassionati siete gi&agrave; abbastanza stufi di tutto ci&ograve; o avete ancora posto per peggio? 

La vergogna del BoP nei motori F.1

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Il via bagnato sotto Safety Car è un orrore antico

Nico e Lewis? Please, lasciateli litigare

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Il calendario F.1 non deve più essere un’arma

Ringraziamo Dio che c’è Le Mans

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Togliete quella safety, suorine

Altro che format, il problema è la sostanza. Qualifiche, ma de che?

Un’evoluzione dai profili sconcertanti