Jackie Stewart dopo 40 anni

Jackie Stewart dopo 40 anni
Uno stralcio anteprima dell'intervista su Autosprint in edicola

31.12.2013 ( Aggiornata il 31.12.2013 00:26 )

Seguivate la F.1 negli Anni ‘70? Amate andare su YouTube a rivedere filmati d’epoca dei Gp? Siete fra quelli convinti che era più bello e avvincente vedere i sorpassi di una Tyrrell 005 contro la Lotus 72 o la Ferrari 312B piuttosto degli scialbi scambi di posizione “pilotati” di oggi col Drs? Allora non perdetevi la bellissima intervista a Jackie Stewart che appare sul numero di Autosprint in edicola dal 30 dicembre. A 40 anni di distanza dal suo ritiro dalle corse il leggendario pilota scozzese ha parlato con noi del passato, del presente e del futuro. Una intervista avvincente anche perché Stewart è l’unico personaggio del motorsport che correva e vinceva negli Anni ‘70 ed è rimasto fino ad oggi nel giro della F.1, dove lavora per la finanziaria che è di proprietà della Lotus F.1. Quindi è perfettamente aggiornato sulle problematiche odierne ed è uno dei pochi che può confrontare i piloti del passato con quelli attuali. Ecco uno stralcio dell’intervista che trovate integrale su Autosprint in edicola. - A 40 anni di distanza, sei pentito di quella decisione di ritirarti dalla F.1 così presto? «No, resto convinto che sia stata la decisione corretta presa al momento giusto. Già nel 1971 avrei voluto ritirarmi causa problemi fisici. Mi ero malato di mononucleosi, avevo attraversato 86 volte l’Atlantico, 43 viaggi in America, per seguire i miei impegni promozionali con la televisione Abc, la Ford, la Goodyear, per girare pubblicità, per correre nella Can-Am e in F.1. Avevo deciso di ritirarmi, ma come l’anno precedente, verso novembre sono stato meglio, così ho deciso di darmi un altro anno. Ma quello sarebbe stato davvero l’ultimo». - Essere così competitivo nel 1973 pur avendo deciso ad inizio anno di smettere, dev’essere stato difficile... «Ancora oggi ho lo stesso desiderio di vittoria, non è mai andato via. Io sono dislessico e quando soffri di questa malattia, ci sono molte cose che ti sono precluse. Perciò quando un dislessico trova una cosa che riesce a fare bene, si impegna ossessivamente per risultare il migliore di tutti». - Per essere un dislessico che aveva già deciso di ritirarsi, a Monza nel 1973 hai fatto una delle gare più belle nella lunga storia della F.1... «Eh già, forai e dovetti andare ai box. Ricordo che una volta ripartito, uscivo dalla Parabolica e non vedevo nessuno: ero ultimo. Ken Tyrrell dai box, per mantenermi attento, mi mandava strani segnali con il pannello, tipo meno 20 secondi da Fangio. Era divertente. Capivo che stavo guidando bene, quando te ne rendi conto, è una sensazione meravigliosa. Forse la gara dove ho guidato meglio in vita mia, eppure alla fine sono arrivato solo quarto, per questo complessivamente il ricordo di quella giornata non è piacevole». - Quali differenze tra essere pilota allora e oggi? «Alla mia epoca dovevamo convivere con l’angoscia. I piloti moderni non sanno cosa voglia dire questa parola, cosa sia il dolore. Non sanno come comportarsi qualora dovessero affrontare una lunga serie di tragiche fatalità. Ripenso al 1968: il 7 aprile muore Jim Clark, il 6 maggio muore Mike Spence, la stessa settimana di giugno muore Ludovico Scarfiotti, in luglio è la volta di Jo Schlesser. Tre settimane dopo correvamo al Nürburgring in mezzo alla nebbia...». L’intervista integrale su Autosprint n.51/52 del 30 dicembre.

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