Ayrton Senna, cose ancora non lette

Ayrton Senna, cose ancora non lette©  LAT Images

Ayrton ha una storia che continua a parlare, malgrado tutto. Nelle emozioni di chi l'ha vissuto davvero

30.04.2019 18:07

Venticinque anni da quel giorno e esattamente altrettanti dal momento in cui “Beco” andandosene è restato in noi. Se uno è grande davvero - nella tua vita o in quella di tutti -, te ne accorgi, perché più passa il tempo, più sembra essere scomparso da poco. E per Ayrton il giorno del destino, 1 maggio 1994, resta galleggiante in un’atmosfera sospesa che sa a suo modo d’eterno presente. Solo a ripensarlo aggrappati alla ringhiera di qualsiasi anniversario. Ma ce dell’altro. Ben altro, da aggiungere.

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Il più amato

Ho una mia teoria sul perché Ayrton Senna sia il campione più amato della Formula Uno moderna. C’è qualcosa d’infinito e struggente che lega gli appassionati al suo nome, un che di chimico e emotivo, pungente e allo stesso tempo caldo e irrisolto.

Perché Ayrton, solo a pensarlo, è l’unico che da subito fa venire un nodo in gola.

A un quarto di secolo dalla scomparsa, per chi l’ha tifato in diretta, resta il simbolo bello e nostalgico d’una gioventù volata via, sua e anche nostra, d’accordo, ma soprattutto sembra la parabola inquieta d’una vita stupenda dalle ali spezzate, vincente e offesa, esaltante e sfortunata, quantificabile e calcolabile in partita doppia tra debiti in- giusti, immensi contratti col destino e risarcimenti entusiasmanti e indimenticabili.

Per il suo talento infinito, tante, troppe furono le sconfitte. E quasi tutte perfide.

Dotato di un DNA speciale, da pilota superiore, non riuscì mai a diventare Campione del mondo in kart. Ogni pilota ha il suo cruccio, il trofeo femmina sfuggito, il traguardo mancato. Per Ayrton, così come, guarda caso, per Michael Schumacher, fu il primo. L’iride per ragazzi. Graffio doloroso, per lui, vulnus delicatissimo, suppurato in un periodo nero nel quale decise, per la prima e unica volta nella sua vita, di smetterla con le corse, salvo poi tornare e smettere di smettere.

Per sempre.

Montecarlo, 1984: cambia la storia

Passato alle auto, le cose cambiarono. Senna vinceva sempre e comunque, ovunque e in qualsiasi categoria promozionale. Fino all’approdo in F.1. Lì sarebbe stata dura. Perché era ancora giovane e inesperto, velocissimo ma tenero e con una macchina, la Toleman-Hart, strana, capricciosa e dal motore friabile, all’interno di una squadra figlia d’un Dio minore.

Poi venne quel pomeriggio di pioggia a Montecarlo e la storia della F.1 cambiò. Sotto un autentico diluvio, il ragazzo brasiliano stava scrivendo una pagina mai letta di leggenda, rimontando furiosamente su Alain Prost al volante della McLaren-Tag-Porsche, “nostro signore” della F.1 incistato nella regina madre.

Attenzione, dietro la leggenda la realtà dice che in quel momento il più veloce in pista fosse Stefan Bellof con una Tyrrell più sottopeso di Kate Moss strafatta, però il dato sensibile e percepito dal mondo fu quello di una svolta nella storia delle corse: l’eroe nuovo era Ayrton Senna.

Gli ultimi convulsi giri, quella bandiera improvvida da parte del direttore di gara Jacky Ickx, il furbo salvataggio del fragile leader ormai kappaò in piedi a danno del rimontante freshman, lasciò a tutti un grido strozzato in gola di gioia rappresa. Semplicemente, stava andando in scena una delle più grosse ingiustizie del mondo della F.1, voluta o meno. In quel momento, in centinaia di migliaia, forse a milioni, capimmo che Ayrton Senna era in debito col destino e anche noi tutti gli dovevamo qualcosa.

La prima vittoria

Il conto fu pagato un anno più tardi, col brasiliano in fuga al volante di una Lotus nero e oro tra le colonne d’acqua nebulizzate dell’uragano di Estoril, al Gp del Portogallo, la sua prima vittoria in F.1.

Con la Casa inglese, nell’era del dopo Chapman targata Ducarouge, Ayrton accese ben presto un altro mutuo con la sorte. Velocissimo, quasi imbattibile sul giro secco e senza alcuna possibilità di vincere il Mondiale, perché il team e la monoposto potevano vivere momenti speciali, ma mai la consistenza pervicace e costante capace d’assicurargli la gioia del titolo.

Approdo a Woking

Fu col passaggio alla McLaren, al fianco dell’uomo della sorte, il suo doppio motivante, il doppelganger galvanizzante Alain Prost che nel 1988 il brasiliano si bagnò a Suzuka, dopo una rimonta da antologia su pista insidiosamente umida, con lo champagne del primo titolo mondiale.

Non era finita, perché una nuova e più crudele ingiustizia lo stava attendendo al varco, l’anno dopo, con la toccatina venefica, sempre a Suzuka, ad opera dello stesso Prost col quale era ormai guerra aperta e totale.

La ripartenza, il taglio di percorso, la squalifica successiva e la perdita del titolo. Quindi le polemiche con Balestre, Presidente della Federa- zione Internazionale e amicone di Prost, lo spettro della sospensione disciplinare della licenza durato per mesi, una nuova unghiata nelle sue carni e quindi il ritorno alla carriera, alle corse e alla vita con una liberatoria vendetta con la quale a fine 1990 Ayrton, il risorto, fa strame, alla prima curva della solita Suzuka, del solito Prost, ormai transfuga in Ferrari.

La vittoria in Brasile

Il 1991 sembra l’anno dell’ennesimo patimento, stravolta tutto brasileiro. Perché Senna di pena ne coltiva un’altra. Ha vinto dappertutto meno che in Brasile, così, negli ultimi giri del Gp di casa, l’ennesima, nuova e più pervicace maledizione l’affligge e mentre sembra riuscire a sfatarla, la sua McLaren accusa guai gravi al cambio, con la muta degli inseguitori che si fa più vicina, pronta a sbranarlo.

Poi l’urlo. Il ruggito di gioia disperata che da quel pomeriggio infuocato lacererà per sempre l’aria di chi avrà la poesia di risognarlo. Ayrton Senna vince il Gran Premio del Brasile 1991, in condizioni quasi impossibili. L’operazione non poteva riuscire, ma il paziente vive. E dopo mo- menti così, comunque vada, in noi vivrà per sempre.

Quindi il terzo Mondiale vinto, sempre nel 1991, perché la rivale Williams-Renault di Mansell non è ancora affidabile, ma nel 1992 arriva la sconfitta, perché la “Red Five” del Leone stavolta non si rompe più. Non c’è tempo per pensarci. Nuovi schiaffi terribili attendono Ayrton Senna.

Lotta per un sedile

Nel 1993 è in lotta col mondo e si ritrova perfino la guerra civile in casa. Abile come il cardinale Richelieu, Alain Prost gli ha soffiato il posto nella miglior squadra che sfodera la vettura più competitiva, ancora la Williams, dotata del francesissimo e politicamente demoprostiano motore Renault.

Ayrton ha fatto di tutto per non restare fregato, offrendosi perfino gratis a patron Frank, ma le ragioni dei poteri forti e i motivi d’opportunità politica prevalgono sulla meritocrazia: quella macchina imbattibile andrà al 38enne prepensionando francese, mentre Mister Magic è in lotta al calor bianco col suo capo Ron Dennis. Tra i due l’accordo è talmente instabile da venir rinnovato gara per gara, a cachet, un milione di dollari al colpo.

A Donington, sempre sul bagnato, con una partenza e un primo giro ispirati dal demone delle corse, Ayrton infligge a Prost un’umiliazione più grande del Mondiale vinto implacabilmente dal francese a fine stagione.

La fine di tutto

Poi la doppia notizia. Per il 1994 Alain smette e finalmente Senna ottiene la sospirata Williams-Renault. Per anni il Mondiale parrebbe prenotato dal tonitruante nuovo binomio.

Il pomeriggio del 1° maggio 1994 cambia tutto, per sempre. Ayrton perde la vita nello schianto terrificante della curva del Tamburello. Il prezzo definitivo. Non sono previste rivincite.

L’ingiustizia suprema è accaduta. Punto. È la fine.

E invece no. Mentre la comunità delle corse, il Brasile e, diciamolo, il mondo intero, piangono il campione più amato, a San Lazzaro di Savena, provincia di Bologna, nella redazione di Autosprint, accade qualcosa di straordinario e segreto, che fino ad oggi pochi conoscono e un ristrettissimo numero di iniziati vive in diretta.

Una storia da scrivere

Per uno strano gioco del fato, quel pomeriggio, tra i primi a precipitarsi nel luogo dell’incidente, in motorino, c’è uno dei più grandi amici di “Magic”, il fotografo di As Angelo Orsi, il quale d’istinto, scatta a mitraglia una serie innumerevole di foto del Campione ferito a morte.
In redazione è vietato parlarne, il tutto è segretato, eppure dai movimenti strani dei capi, dai sussurri e dalle riunioni riservatissime qual- cosa trapela. Autosprint ha le immagini agghiaccianti che il mondo sta cercando. Quelle del più Grande della F.1 moderna colpito alla testa da un pezzo di sospensione che s’è comportato come una fiocina sparata da un immaginario sub assassino, condannandolo.

Roba da passare alla storia, da diventar ricchi solo cavalcando il sensazionalismo, l’onda emotiva del momento, la retorica del dolore spettacolarizzato e fine a se stesso. Invece no. Quelle immagini che il mondo, anzi, la parte peggiore del mondo, bramerebbe, vengono occultate, nascoste, proibite per sempre perché l’orrore nulla aggiunge alla verità, direbbe saggio Indro Montanelli. In poche ore il direttore Carlo Cavicchi prende alcune decisioni che lo rendono, da gran giornalista, un timoniere straordinariamente immenso. Il suo settimanale eviterà di speculare nella spettacolarizzazione della morte in diretta, uscirà semplicemente con copertina nera e s’impegnerà a cercare e dimostrare, giorno per giorno, durante mesi di ficcante giornalismo d’inchiesta, che Ayrton non ha sbagliato, è morto senza commettere errori e che a cedere è stato il piantone dello sterzo della sua Williams, della quale è divenuto all’improvviso innocente passeggero. Una lezione profonda e coraggiosa, una ricerca della verità che gli anni valorizzeranno, coronandola d’un successo comunque amaro ma che ora è giusto riconoscere.

Niente e nessuno, neppure le risultanze processuali, riusciranno poi a essere più precise e puntali, del rigore professionale, delle capacità e del rigore deontologico dimostrato da Cavicchi e Orsi per primi, coloro che avevano in mano lo scoop della vita e che preferirono segretarlo in cassaforte sino alla fine dei secoli, perché Ayrton Senna era un uomo, un campione, un amico, che in quel momento meritava qualcosa d’altro e di più. Un supplemento di moralità e affetto, un risarcimento esistenziale definitivo alla ricerca dell’ultima verità, dell’ultimo disperato tentativo di difesa della sua memoria, che nei decenni sarebbe comunque stupendamente riuscito.

Cosa resta

E adesso,venticinque anni dopo, qualcosa di poetico e irrosolto galleggia ancora nell’aria, tra noi tutti e Ayrton. Come in una storia d’amore immensa bruscamente interrotta ma mai finita davvero, nella quale ciascuno sentiva di volere e potere dare di più, se solo ce ne fosse stato il tempo. Per motivi semi-psicanalitici, sembra quasi che tutti pro- vino, che tutti noi proviamo ancora, un senso di debito con Ayrton Senna.

Per le emozioni, l’esaltazione, i momenti in cui ci ha fatto dire, come il Faust di Goethe, “Fermati, attimo, sei bello”, per quella stima infinita che non abbia- mo neanche avuto le occasioni giuste per dimostrargli. Per quei suoi occhi che ancora oggi, dalle immagini, divorano chi li guarda, regalando un senso di serena enigmaticità, dell’incompiutezza di una celeste corrispondenza che sentiamo insopprimibilmente di voler colmare e onorare.
È stato il campione più mediatico, poliglotta, financo sgradevolmente sincero e puntualmente vero delle corse vissute dal Villaggio Globale dei media.

Era bello, buono non a tutti i costi, caldo, mistico, vulnerabile, vendicativo e corazzato, velocissimo, quasi imbattibile e voglio- so di dare un senso alla vita pensando che fosse un dono troppo grande da gustare nella sola, banale e distratta inconsapevolezza dell’uomo di successo qualsiasi. A venticinque anni dalla scomparsa, questo non è un semplice viaggio di retrospettiva, riscoperta o conoscenza retroattiva di un mito. No, in verità vuol essere molto più o molto meno, ma qualcosa di diverso assai. Sono schegge balenanti di una vita, colpi di specchio preziosi e forniti da chi Ayrton l’ha conosciuto bene.

Semplici nuovi contatti con “Beco”, per riprovare la sensazione unica d’avere un debito emotivo ed esistenziale con lui, in grado di suscitare di nuovo, come allora, un magnetismo che ci attira al suo vissuto. Invitandoci a dedicargli ancora tempo, in un reincontrarsi amico, che non finirà mai.


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