Formula 1, viva la nostalgia curativa!

Formula 1, viva la nostalgia curativa!

Nel bel mezzo dell’inverno, a motori spenti, vale la pena sperimentare la teoria del rimpianto dei paradisi perduti

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17.01.2017 10:03

Mentre scrivo queste righe imperversa il Blue Monday, il lunedì più triste dell’anno. Non che ci creda davvero, è la solita cavolata, ma fuori il cielo è color latta, il vento fischiando promette neve e difatti fa un freddo boia, anche se non succede proprio nulla d’interessante. Perfino se ti metti a pensare fitto fitto di corse e motori. 

Anzi, soprattutto.

Allora vorrei, così per gioco, esorcizzare il lunedì blu e pure l’incipiente martedì - cioè quando leggerete ’sti pensieri - e seguenti, inscenando un Throwback Thursday, cioè uno di quei momenti in cui ci si lascia andare guardando indietro, impantanandosi in un’acquetta tiepida e cialtrona obliquamente salutare, fatta di reducismo, tepore differito dei paradisi perduti e sterilissima nostalgia consapevole, ma non per questo meno autocompiaciuta.

La testa mi torna indietro e penso ai Blue Monday di quarant’anni fa, quando di Autosprint ero solo lettore. Oh yes, era un mondaccio rombante diverso, quello, diversissimo, sissignori, ma che fosse peggiore o meno interessante di questo, proprio non direi. A dirla tutta, a rivederlo ora, il piccolo mondo antico d’allora, mi sembra appunto fantasticamente migliore di questo - anche se quando uno si fa trascinare dal richiamo insopprimibile dell’amore pungente per le cose perdute, poi, puntualmente, esagera, però chissà, anche no.

Il 2017 è già scattato a tutto gas

Interessarsi di corse, amarle, adorarle perdutamente, equivaleva far parte d’una specie di fratellanza segreta, aliena alla Tv, alla maggior parte dei quotidiani, ai salotti, ai benpensanti e al malpensanti esagerati e sostanzialmente avente come punto di riferimento principale, se non unico, il settimanale dalla scritta bianca in campo rosso, al secolo Autosprint. 

Autosprint era la sola fonte del sapere. 

Il fascicolo sequenziale d’un libro immenso che andava componendosi, stratificandosi nei mesi, anni e decenni, quasi a formare un’enciclopedia sapienziale misteriosa e esoterica. 

Tanti erano gli appassionati, poche le fonti, quasi rare le copie. Era bene prenotarlo, ecco.

Nel Centro Italia, dove vivevo, in una cittadina di media collina, rarissimamente arrivava il martedì e spesso spuntava di mercoledì. 

L’attesa era ansiogenamente spasmodica. Tale da non farmi aspettare che la copia nuova di pacca fosse posata dall’esercente sui ripiani di vendita dell’edicola, no no, il rito era di tutt’altra natura. 

Autosprint andava agognato, cercato, individuato e puntato come un fagiano da un bracco già la mattina presto, specie d’inverno, quando il furgone scaricava il mucchio fresco e informe delle riviste, della roba appena arrivata, col tubo di scappamento che sbuffava a carezzar la brina. 

Tex, Zagor, Il Piccolo Ranger, Il Comandante Mark e Alan Ford nulla avrebbero potuto: qualsiasi prosecuzione di storia avventurosa o fantastica poteva attendere, ma non Autosprint ancora intruppato nel brogliaccio dei giornali appena arrivati. 

L’Autosprint di Marcello Sabbatini, per la precisione. 

Perché al prezzo di un’inumidita d’indice sfogliante, As avrebbe avrebbe aperto da lì a poco il sipario su un mondo fantastico e fantastico sostanzialmente per due motivi: primo, perché Marcellone era un direttore fantastico davvero: autoriale, istrionico, trascinante e caratterizzante, capace di sorprenderti a ogni pagina, financo in ciascuna notiziola di quattro righe e, secondo, perché quello delle corse Anni ’70 era un universo fantastico davvero di suo - se vogliamo perfino a prescindere da Marcellone medesimo -, rutilante, vivo effervescente e sorprendente perfino d’inverno, se non soprattutto. 

Sai com’è, certe volte a ripensarci sembra che nella vita in fondo nulla cambi ma la verità è che gira, gira, tutto se ne va. Ecco, in quei tempi, diciamolo chiaro, automobilisticamente e agonisticamente parlando, i Blu Monday manco esistevano e la tristezza agonisticamente e quaresimalmente automobilistica neppure. 

In questo periodo postbefanesco la Formula 1, addirittura, era appena iniziata o stava per cominciare, perché il Gp d’Argentina si correva entro la prima metà di gennaio. Dopo che per tutto l’inverno, chi più e chi meno, aveva portato avanti sessioni di test in cui era possibile notare ogni volta colorazioni strane, macchine ibride, piloti provvisori e soluzioni sperimentali. Una goduria cangiante e senza tregua, insomma.

E poi, dall’altra parte del mondo, downunder, direbbe adesso chi ha studiato, si correva eccome e di buon livello. Perché in Australia e Nuova Zelanda impazzavano le F.5000, per lo più Lola T 330 e 332 dagli airscope immensi e affamati d’aria, ma anche Elfin, Talon, Leda e quant’altro, con un parco piloti di prim’ordine, tra i quali, certe volte, pure la nostra Lella Lombardi piuttosto che Alfredo Costanzo, italo-australiano ormai trapiantato tra i canguri, che correva con una Lola dall’immensa presa d’aria sulla quale campeggiava la scritta Stock84, la stessa pubblicità di brandy dell’ultimo Carosello della storia, quello con Raffaella Carrà. 

Ecco, non esistevano divieti di test, simulatori, calendari ferrei, contratti al titanio, diritti televisivi faraonici, dividendi pantagruelici e non c’era neppure la certezza certa di vederli tutti, i Gran Premi. Forse Argentina e Brasile in diretta, ma, occhio, che il Sudafrica lo danno in differita. In poche parole, ascoltarsi un paio d’ore Mario Poltronieri e Enrico Benzing in un weekend di gara era gratis, ma non certo assicurato. E a seguirli non eravamo in tantissimi.

Formula 1 2017, dove costa meno seguire un GP

Eppure era una pacchia, perché ogni volta - non come ora -, a ogni inizio di weekend di Gp, specie nelle prime gare ancora invernali, poteva esserci il sorpresone. Un pilota nuovo che cerca di debuttare, un appiedato improvviso, un altro che gironzola ai box con un pugno di dollari, pronto a saltare in macchina tra il venerdì e il sabato. Insomma, nulla era ferreo, sicuro e prevedibile come oggi e Autosprint, piuttosto che Marcello Sabbatini e Eugenio Zigliotto, in un mondo come questo ci sguazzavano goduriosi, inzuppandoci il pane e proponendocelo mai così saporito e fragrante.

Poi nel bel mezzo dell’inverno si iniziava con le prime presentazioni delle F.1, ma senza fretta alcuna, perché i primi Gp si correvano con le macchinacce vecchie, altroché, senza ansia di presentazioni concentrate e il più delle volte finte, via internet. Mica come oggi, eh, che in dieci, quindici giorni, si svolgono tutte e per lo più risparmiosamente e spocchiosamente virtuali. Macché. I vernissage potevano iniziare alla fine della stagione precedente e finire a primavera inoltrata, scoppiettanti e sorprendenti come una tornata infinita di fuochi d’artificio. 

Una monoposto diversa dall’altra, nessuna uguale a qualcuna. Con Colin Chapman che spesso sbruffonava un entusiasmante: «Vedrete, appena caleranno i veli sulla mia ultima nata, tutte le altre vetture sembreranno autobus». E il più delle volte manteneva perfettamente le promesse. E d’inverno spazio ve n’era mica solo per Chapman, ma anche per chi costruiva una F.1 figlia d’un dio minore, la mostrava timido e pure certo che non avrebbe mai corso, perché coraggiosa ma anche tanto casareccia e squattrinata, vedi Dydo Monguzzi con le sue Dywa, fiori interessanti ma troppo poveri e finanziariamente plebei per sbocciare davvero. Ma sol per questo amabilmente indimenticabili.

E poi c’era la Ferrari di Mauro Forghieri, che tutto l’inverno o quasi arava Fiorano, anche tra mucchi di neve, provando soluzioni spesso fantasmagoriche, perché l’ingegnere aveva e ha un cervello che non sta a riposo neanche un secondo. 

In quell’epoca, in quella Ferrari e in quelle interstagioni gelide, le cose più strane, rinascimentali, michelangiolesche e leonardesche, le vedevi provate col verglas in pista, in certi presunti Blue Monday, mica d’estate. E la stessa endurance le grandi classiche iniziava a viverle prestissimo, col mondiale Marche che bussava alle porte in men che non si dica. Un tempo con la 1000 Km di Buenos Aires, poi con la 24 Ore di Daytona, infarcita di Porsche 935.

Ohi, ma quanto la sto tirando lunga? Ecco, magari stasera, inverno 2017, finisce che nevica. Qualsiasi cosa succeda, la più automobilisticamente tonitruante è l’annuncio straprevisto e straprevedibile di Bottas alla Mercedes e di Massa che torna alla Williams, sai che gioia, poi, per un pezzo, il nulla.

Termosifoni al massimo, sul piatto del Cd ho appena tolto “Disco Bass” dei DD Sound, fatidica sigla della Domenica Sportiva di fine Anni ’70 e ora gira “Non c’è più niente da fare” di Bobby Solo.

In mano una vecchia raccolta di Autosprint Anni ’70, mentre la canzone dice, ruffiana e sorniona: «E domani forse troverai quello che vuoi e domani forse ciò che voglio troverò, ma so già che fra noi niente mai cambierà; basta solo che ti ricordi che, anche se non c’è più niente da fare, è stato bello sognare. La vita ci ha regalato dei lunghi giorni felici, qualcosa che il tempo non cambierà mai».


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