In F.1 rimpiango i simboli del coraggio

In F.1 rimpiango i simboli del coraggio

Caschi dai colori decisi e numeri grandi per i piloti erano metafore di personalità vere e accese: uno spirito tutto da ritrovare

14.02.2017 10:09

Posso dirlo? Adesso che ferve l’attesa per veder finalmente svelate le nuove monoposto, visto che alla fin fine saranno come sempre mezze uguali, ci son due cose che pagherei oro non per scoprire, ma, più semplicemente, per ritrovare. Diciamo a titolo di godimento forse nostalgico, ma, come minimo, risarcitorio.

In poche parole, mi riferisco ai colori dei caschi e ai numeri del bel tempo che fu. E con la definizione ellittica di bel tempo che fu, intendo, precisamente, fino all’inizio degli Anni ’80.

C’erano una volta i caschi colorati precisi e fissi, ecco. 

La faccenda funzionava in modo semplice: un pilota, per motivi suoi, sceglieva, nella maggior parte dei casi fin da inizio carriera, disegno e colorazione, che poi religiosamente manteneva negli anni. Esattamente come si trattasse di stemmi e colori araldici per un cavaliere medioevale in guerra o a torneo. 

Di fondo, certo, c’era una forte componente identitaria, ma anche un non dissumulato intento scaramantico. In sintesi il casco, specie quello integrale, impediva di mostrare il proprio volto, ma una colorazione immediatamente riconoscibile avrebbe connotato il personaggio tanto quanto le fattezze somatiche, se non di più. 

I simboli del London Rowing Club di canottaggio per Graham Hill, piuttosto che il tartan per Jackie Stewart o l’acceso verde pisello per Henri Pescarolo, fino all’aquila bicipite per Ignazio Giunti, son solo esempi, turaccioli in un mare immenso in cui ciascun onda tendeva a distinguersi immancabilmente dall’altra, mantenendo negli anni, molto spesso immutabilmente per tutta la carriera, l’orgogliosamente prescelta caratterizzazione. 

E anche chi non sceglieva o sembrava non scegliere, finiva col distinguersi. Se in F.1 vedevi un casco anonimamente bianco, mica aveva nulla di scialbo: se c’era la scritta Rmo, si trattava di René Arnoux, se invece non c’era scritto un cavolo e calotta e mentoniera avevano l’ignoranza meravigliosa e aggressiva della Simpson, l’uomo che avevi davanti era Geoff Lees, magari nella trafelata ricerca d’un improbabile qualificazione.

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Ecco, poi, un bel, anzi, un brutto giorno, tutto è finito. S’è iniziato con i piloti del motomondiale e poi l’infezione è dilagata in F.1 e nell’automobilismo tutto. 

Non solo disegni e livree delle calotte sono diventati caduchi e cangianti, ma anche le stesse tonalità hanno smesso d’esprmersi a contorni decisi, divenendo sfumate, sfavillanti, frastagliate scie di una sorta di via lattea cromatica che ha reso ciascun casco un esercizio sterile fatto di mille riflessi e di nessuna personalità.

Parallelamente e in modo inquietante - quasi fosse un contemporaneo impoverimento in una sorta d’analisi psicologica collettiva - più si mescolavano e diventavano ibridi nonché superficialmente moltiplicati, fusi e superficialmente più spettacolari i colori dei caschi, più si stingevano le personalità dei piloti. 

E le loro teste - comunque potenzialmente brillanti - si celavano sempre più alla stampa e agli appassionati dietro frasi da luoghi comuni ripetitivi e imbarazzanti e le immagini diventavano piatte e patinate, tutt’altro che calde e tridimensionali.

Un confronto pratico tra il prima rimpianto e il dopo deludente?

Provate a leggere un’intervista di Graham Hill nel 1970 e a ogni riga v’è un aforisma, una battuta arguta o un motto di spirito, financo la sincera certezza ben espressa del suo declino in atto. Sembra Oscar Wilde, mica un campione quasi a fine corsa.

Provate invece a leggere un’intervista a un pilota di secondo piano dagli Anni ’90 in poi, magari nell’interstagione invernale, e vedrete che dirà le stesse cose di chiunque nella sua posizione, quasi rispondesse a un ciclostilato della mutua. 

Stessa cosa riguardante qualsiasi campione moderno, con l’aggravante della maggior cautela usata, per evitare rogne.

In poche parole, caschi sfavillanti ma poca sostanza. Teste brillanti, ma di fatto senza qualcosa da dire. 

Miriadi sbaffate di colori, sovraesposizioni mediatiche quasi infinite e nucleari, ma di fondo il vuoto estetico che ben si sposa all’ostentato nulla pneumatico dialettico.

E, calma, eh, non sta scritto da nessuna parte che i piloti di ieri fossero più intelligenti di quelli di oggi. Mica è vero. Magari è più plausibile il contrario. Ma semplicemente ai ragazzi viene inculcato fin dal kart che più si nasconde la propria personalità, meno si rischia. Giacché ormai in un mondo in gran parte patinatino e finto, un incidente dialettico spezza più carriere di una botta contro il rail. 

Se fosse un pittore e noi tutti dei critici in galleria, dalle esagerazioni che brillano in tavolozza da ciascun casco, magari non da tutti, ma dalla maggior parte, potremmo evincere che troppo spesso l’artista, cioè il pilota, nella sua composizione cromatica intende esprimere il desiderio neobarocco di meravigliare aver niente da dire. Peccato.

E a ben guardare, tra gli ultimi fedelissimi ai colori decisi e alla filosofia cromatica vintage, restano Robert Kubica e Daniil Kvyat, due east boys che non a caso il cento per cento delle volte amano dire ciò che pensano e nondimeno pensare prima a ciò che poi diranno.

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Poi ci sono i numeri di gara. 

Un tempo grandi, immensi, in campo bianco, talmenti sinceri che svelavano non solo il contrassegno di gara senza tema alcuno di smentita, ma tali in prova da rivelare anche se la monoposto era quella ufficiale piuttosto che il muletto, indicato da una inequivocabile lettera T che stava per “test car”.

Poi, anche qui, dai e dai tutto cambiò. 

Caschi a colori sempre più confusi, incassati in abitacoli sempre più protettivi e quindi pure numeri microscopici e illeggibili, tanto che per distinguere le proprie monoposto i team dagli Anni ’80 sono costretti a mettere striscioline fluorescenti su musetto o roll bar, altrimenti manco riescono a rendersi conto di veder sfrecciare davanti al muretto un pilota o l’altro, perfino se sono i loro conduttori, cosiccome le interviste di Tizio potrebbero sembrare quelle di Caio e pure le altre di Sempronio.

Ecco, in un mondo così, in un circus tale e quale, vedete, la nostalgia non è sterile ricerca di un passato mitico e perduto, ma umanissima e futuristica voglia di riappropiarsi dell’essenza bella, della sostanza individuale e fondante di cose e persone.

Bene ha fatto la Fia a inizio 2015 a fissare per tutta la stagione i colori dei singoli caschi per prevenire continui cambi in corsa e conseguente disorientamento, anche se sarebbe più bello tornare a caratterizzazioni individuali e soggettive ben più personalizzate, immutabili e riconoscibili. 

Quanto ai numeri, che senso ha averne di fissi per ciascun pilota, nei secoli dei secoli, copiando i centauri, se poi sulle monoposto, salvo apprezzate eccezioni, restano a tutt’oggi per la maggior parte illeggibili o quasi e utili soltanto a vendere merchandising? 

Tranquilli, qui in fondo nessuno cerca di rimettere indietro l’orologio del tempo, no, ma scherzi, perché mai, in realtà lo scopo di ragionamenti come questo sarebbe ed è quello semplice e caldo di tornare finalmente a mettere al centro - con la scusa di disegni, numeri e colori -, il pilota nei confronti dei meccanismi di cui è vittima: l’uomo sul sistema, la personalità rispetto all’opportunità furbina, mercificante e mortificante.

Al solo scopo di ritrovare tra le pieghe di tutto, in una frase, in una scodata, in una curva bella, nel sorriso di un campione e perfino nei suoi numerati colori, quello che giustifica da più d’un secolo il vero miracolo, che è quello infinito della passione di chi le corse si limita a guardarle sorridendo, amandole davvero.

Al solo scopo di ritrovare tra le pieghe di tutto, un briciolo di poesia.

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