Guai ai vintage? No, per fortuna c'è Sainz Senior!

Guai ai vintage? No, per fortuna c'è Sainz Senior!

A tutti i livelli questo è l’automobilismo dai bolidi più facili, meno fisici e ormai ipersicuri. Invece il motorsport i vecchi campioni, altro che valorizzarli: li stufa sempre più... E così l’impresa dello spagnolo, a 57 anni vincitore della Dakar, vale come la rivincita di una generazione

20.01.2020 14:47

Caro Carlos Sainz senior, dopo questa, per dirla con le parole di una canzone di J-Ax e Max Pezzali, non sei parte di un genere, no: sei un genere a parte. 

La terza vittoria di Carlos Sainz alla Dakar a 57 anni d’età fa rumore ancor più della seconda e della prima. Primo, perché è una storia sempre più bella. Quella del veteranissimo che non s’arrende - indipendentemente dall’ascesa del figlio sempre più stellina della rinata McLaren in F.1 - e piazza il terzo colpaccio. Dopo quello con la Volkswagen nel 2010 e l’altro nel 2018 in Peugeot, ecco il tris in Mini Buggy. 

Due volte iridato rally, 1990 e 1992, ora ha in saccoccia 26 trionfi iridati Wrc e 34 tappe in 13 edizioni disputate nella maratona delle sabbie

Secondo, perché l’esperienza conta, in una gara come la Dakar è quasi tutto, se è vero che gli altri due in lizza per farcela son stati fino all’ultimo Nasser Salih Nasser Abdullah Al-Attiyah, di 49 anni, e l’eterno Stephane Peterhansel, cinquantaquattro anni e mezzo.

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E allora qual è la cosa strana e interessante della faccenda? Be’, volendo proprio tirare le conseguenze del segnale della Dakar 2020, a colpire non è solo il podio della regina dei raid, ma il confronto con tutto il resto delle corse.

Perché, fatta una botta di conti, va bene per Sainz e i vecchioni delle dune, ma la verità è che gli anzianotti, aggiungo stranamente, stanno sempre più scomparendo dal top delle competizioni che contano.

In F.1 Kimi Raikkonen coi suoi quaranta compiuti in ottobre, ormai è una mosca bianca, l’ultimo di una generazione. Mentre tanti, fin troppi analisti sopraffini, cominciano a fare le pulci a Lewis Hamilton perché ne ha compiuti trentacinque, ossia gli anni che aveva Schumi mentre vinceva il suo ultimo titolo iridato.

Nella serie maggiore della Nascar, dove le carriere vincenti tradizionalmente duravano trent’anni come ridere, ormai i poco più che quarantenni tipo Ryan Newman, Jimmie Johnson, Kevin Harvick e Kurt Busch sono eccezioni, mentre si è completamente estinta e appare distante secoli la generazione dei Good Ol’Boys, i cari vecchi ragazzi in servizio e spendibili fin oltre i cinquanta, che costituirono l’ossatura e pure il lancio mediatico e la vera, storica fortuna della leggendaria Nascar, ovvero la generazione dei Richard Petty, di Cale Yarborough, di Darrell Waltrp, Benny Parson, David Pearson, Harry Gant, dei fratelli Allison Bobby e Donnie, e soprattutto non v’è traccia d’una resilienza anagrafica simile. Quanto a Dale Earnhardt senior, la sorte, ahinoi, decise per lui.

Stesso discorso in IndyCar, dove la generazione al top negli Anni ’60 e ’70 degli AJ Foyt, degli Andretti, Mario su tutti, ovvio, dei John Rutherford, dei Gordon Johncock più gente come gli Unser, Bobby e Al, senza trascurare attori non protagonisti quali Lloyd Ruby, Danny Ongais, George Snider, Jim McElreath e Roger McCluskey, è riuscita a stare sulla breccia, a podio o, come minimo, nelle griglie di partenza, tranquillamente fino alla non più verde età di cinquant’anni abbondanti, con Foyt stesso nono a Indy 1992, a 57 anni compiuti, mentre adesso i veterani di Indy molto raramente vanno fin solo oltre i quarantacinque. Peggio: di over 40 alla Indy 500 del 2019 c’erano solo Sebastien Bourdais (40), Takuma Sato (42), Tony Kanaan (45), Helio Castroneves (44) e Oriol Servia (45).

E anche nell’endurance, la tendenza è sempre più quella d’avere degli equipaggi freschi, bilanciati e poco caratterizzati dai vecchioni che rappresentavano culturalmente e filosoficamente l’ossatura della categoria, un po’ come gli specialisti seigiornisti nel ciclismo.

No, ecco la vittoria di Carlos Sainz alla Dakar stavolta, e sempre più, riveste un valore del tutto speciale, perché rappresenta un ormai raro grido di resiliente inaffondabilità degli anziani campioni in un automobilismo non esattamente sempre più disposto a riservagli spazio, platea, fiducia, auto top e gioie facili o fin solo possibili. Da questo punto di vista anche il trionfo Wrc di Loeb nel 2018 in Spagna resta un bel segnale, ma la tendenza generale appare ormai opposta e un po’ ovunque.

Eppure, c’è qualcosina di strano, in ciò.

Perché, al contrario, negli ultimi trent’anni, le macchine a tutti i livelli sono diventate più facili da guidare. Schumi quando provò l’antica Ferrari del 1983 mise i capelli bianchi, Loeb salendo a bordo della gloriosa Peugeot Gruppo B la trovò pesante e maneggevole come un furgone incazzato, una Coyote o una Parnelli di F.Indy degli Anni ’70 rispetto a un gioiellino Dallara d’oggi rappresentano un tuffo nell’autolesionismo, per non parlare dei prototipi.

E tutte le belve di oggidì, nessuna esclusa, in qualsiasi categoria, vantano, oltre che un’affidabilità quasi assoluta, anche un livello di sicurezza esponenzialmente più alto.

Tanto che, a differenza di quindici, venti anni fa, nelle interviste dal taglio esistenziale o improntato al bilancio, nessuno e poi nessuno dei top driver vecchi o nuovi parla mai di paura, rischio o problemi nell’andare avanti affrontando le incognite delle corse. Perlomeno quelle cui eravamo abituati da oltre un secolo.

In altre parole, vista l’evoluzione tecnologica esponenzialmente efficace, tale, di fatto, da semplificare le dinamiche di guida e da abbattere nettamente lo sforzo fisico richiesto per portare a termine una competizione ad altissimo livello - Hunt vomitava nel casco all’ultima curva del Gp di Francia 1978 perché la sua McLaren M26 per stare in strada faceva venire il mal di mare, gli svenuti in F.1 c’erano negli Anni ’80, non più ora -, e il livello di sicurezza raggiunto, altro che storie: in F.1, F.Indy, Prototipi e Nascar questa dovrebbe essere un’epoca trionfale per i vecchi.

Anzi, di più. A tutti i livelli per un veterano mai domo dovrebbe essere assai più facile correre e difendersi oggi, rispetto a ieri, mediamente in ogni categoria o quasi.

Campionissimi iperesperti, baroni universitari dell’asfalto, vecchie lenze: ecco, per come si sono evolute tecnicamente le cose, sarebbe toccato a loro spadroneggiare e tenere ben distanti i baby, confinati alla Ps4 e a Netflix.

Invece, pensa te, avviene tutto il contrario. 

L’automobilismo del terzo millennio, quello ipersimulato, semielettrificato, superpoliticizzato, nelle mani sempre più dei rispettivi enti di gestione, eterodiretto dai pupari, ipersponsorizzato, bonificato, asetticizzato, televisizzato, payperviewizzato e un po’ ovunque, si passi il termine, ecclestonizzato, ha finito col tagliar fuori un’ampia fetta di campioni, così come negli Anni ’50 il Rock and Roll pulì le balere dagli indesiderati matusa.

In questo caso, in F.1 hanno fatto fuori tutte le grandi personalità e mica solo per cambio generazionale, perché Fernando Alonso – non a caso 13esimo alla Dakar –, non ce lo vogliono più, nel paddock, perché – a detta dei padroni del vapore – appena appre bocca rompe le palle a qualcuno, per vero o meno vero che sia.

E un po’ ovunque il Motorsport è sempre più uno sport di praticanti sempre ragazzini/e appena maggiorenni e, di converso, appassionati sempre più vecchioni, come certi locali di spogliarello alle propaggini del deserto di Mohave, che tanto piacerebbero a Quentin Tarantino per impiantarci un set.
Ormai gli stagionati race fans idolatrano sempre più vecchie corse, delle ultraclassiche, tipo Daytona, Sebring, Le Mans, Indy e, perché no, la Dakar,  non avendo quasi più antichi campioni da tifare...

Ecco, la verità sembra questa. Per reggere il gioco, a qualsiasi livello, per carità, dove più e dove meno, nelle corse, per come son diventate oggi, ci vogliono soprattutto dei ragazzetti postkartisti pronti a star zitti e a dar retta, limitandosi soprattutto a guidare.

E non è mica solo un fatto di pressioni terribili, asfissianti, di guida estrema, insostenibile o che.

No, no, è tutto meno profondo e più semplice. La verità è che nelle competizioni d’oggi, ad altissimi livelli e un po’ in ognidove, dopo tot anni, ti fanno fuori e te ne devi andare. Raus, aria. Per due motivi fondamentali, del tutto sconosciuti alla generazione dal 1899 al 1999 e cioè, in sintesi, questi:

1) Perché hai rotto i coglioni.

2) Perché ti sei rotto i coglioni.

Una volta ci si ritirava piangendo, salutando commossi i tifosi ala Graham Hill, in un ultimo struggente giro di saluto.

Adesso perfino il campionissimo mitico se ne va sbattendo la porta a valigia mal fatta, come quando ti lasci con la fidanzata per reciproca incompatibilità e sopraggiunta irrespirabilità dell’aria.

Invece con questa Dakar finalmente torna d’attualità pensionisticamente parlando gente che ha superato quota cento e che è in possesso della pietra filosofale delle corse moderne, ovvero della più preziosa, premiante e salvifica delle caratteristiche. 

In particolare, caro Carlos Sainz padre, una volta di più, a bordo della tua Mini Buggy, a quarant’anni esatti dalla tua prima corsa, sei riuscito a dimostrare a tutti un paio di cosette incredibili, per un uomo in età matura nelle corse di oggi. 

Altro che solo vincere, no, molto di più: trionfando meritevolissimevolmente nella Dakar 2020 ci hai fatto capire che ancora non ti sei stufato e, contemporaneamente, che non hai stufato proprio nessuno, tantomeno noi tutti. Credimi, sei un grande.


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