Binotto, fine della storia in Ferrari: una favola senza lieto fine

Binotto, fine della storia in Ferrari: una favola senza lieto fine© Getty Images

Da ingegnere motorista nella squadra test a team principal: la scalata in Ferrari di Mattia Binotto è stata straordinaria, unica e verticale, ma è mancato l'acuto nel ruolo più delicato

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25.11.2022 13:03

Diciamo che è stata una favola senza lieto fine. Per chi è originario di Reggio Emilia con la passione dei motori, la Ferrari non può che essere un sogno, e lo è stato per Mattia Binotto, 27 anni con il rosso del Cavallino orgogliosamente indossato ogni mattina dal suo ingresso a Maranello. Un sogno realizzato e vissuto a lungo, con tanti e tanti successi, senza però l'acuto finale nel ruolo più importante e delicato, quello del team principal.

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Che scalata in Ferrari

La carta d'identità dice Losanna, 3 novembre 1969, ma solo perché papà e mamma, nativi di Reggio Emilia, se ne erano andati in Svizzera. Una seconda terra, la Svizzera, tanto da concludere là la prima parte di studi universitari prima del ritorno in Italia, a Modena, per la specializzazione. Il legame con la terra natìa non se ne era mai andato e nemmeno il sogno di entrare alla Ferrari: sogno realizzato nel 1995, in piena epoca Jean Todt con la presidenza di Montezemolo. Il primo ruolo è da ingegnere motorista (curioso, però, che lui agli inizi avesse più interesse per l'aerodinamica piuttosto che per i motori) nella squadra test, un blocco che fece la differenza nell'era Schumacher. Da allora la scalata è stata verticale: dopo 8 anni nella squadra prove viene promosso a responsabile motori in pista nel 2004, quindi nel 2007 viene nominato capo ingegnere corse e montaggio. Nel 2009 è responsabile operativo del Reparto Motori e Kers, nell'anno dello storico debutto del sistema di recupero, mentre nel 2013 diventa vice direttore del reparto Motori ed Elettronica. Il suo nome, tuttavia, viene davvero alla ribalta nel 2014: Luca Marmorini viene licenziato e Binotto diventa Chief Operating Officer per la power unit, ed è qui che si fa notare da Sergio Marchionne, che nell'estate 2016, con l'uscita di James Allison, lo promuove a direttore tecnico. Quindi la nomina di team principal nel gennaio 2019 al posto di Maurizio Arrivabene.

Un confronto difficile

Già, Maurizio Arrivabene. Un nome che, in un modo o nell'altro, è strettamente legato alle ultime vicende da ferrarista di Mattia Binotto. Quattro anni ciascuno da team principal, quattro anni ad inseguire un titolo iridato non arrivato con nessuno dei due, comune denominatore per due guide piuttosto differenti per indole ed estrazione: sanguigno e manager Maurizio, apparentemente più mansueto ed ingegnere Mattia, il quale però sapeva come muoversi in squadra. Con Arrivabene la squadra doveva risalire dopo un 2014 disastroso e la piazza pulita al termine di quell'anno (cambiarono presidente, team principal, progettisti, pilota di punta), con Binotto invece la speranza era quella di "aprire un ciclo", come disse lo stesso Binotto alla vigilia di Melbourne 2019, all'alba della sua carriera da team principal, migliorando un team che partiva con basi ben più solide. Tra i due i rapporti furono tesi e crollarono, secondo quanto trapelato da Maranello, dopo la scomparsa di Marchionne: Mattia era un protetto dell'allora presidente che già stava pensando ad una sostituzione nel ruolo di team principal. La faida divenne totale a partire dall'estate, in seguito alla scomparsa di Marchionne: fu quasi inevitabile sceglierne uno dei due. Binotto, come base di partenza, si era ritrovano una squadra da 14 vittorie negli ultimi quattro anni, sei nella stagione appena conclusa, il 2018: lui invece ha chiuso con appena 7 vittorie in quattro anni ed un titolo mondiale ancor più irraggiungibile del biennio 2017-2018, quando almeno la piazza d'onore, nel Piloti e nel Costruttori, non fu praticamente mai in discussione.

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