Analisi di un trionfo alla 24 Ore di Daytona con van der Zande, Kobayashi e Taylor che è leggenda nella tregenda
E adesso? Che cosa facciamo, continuiamo a svilire e dire che pure stavolta Fernando Alonso ha vinto contro nessuno, come qualcheduno aveva audacemente azzardato in occasione della passata 24 Ore di Le Mans, portando al successo la Toyota?
Nell’automobilismo - e tanto peggio nelle gare endurance - nessuno non esiste. C’è sempre chi ti può fare lo scalpo. E, male che va, corri contro te stesso e certe notti se ti guardi negli occhi fai un gran brutto incontro.
E c’è dell’altro a impreziosire e a rendere assolutamente unico questo trionfo di Fernando Alonso alla 24 Ore di Daytona su un letto di Cadillac by Dallara guarnito di Kobayashi, van der xande e Jordan Taylor. Perché fino a oggi nell’albo d’oro della classicissima della Florida troneggiavano spuriamente solo due ex campioni del mondo di F.1, vale a dire Phil Hill e Mario Andretti.
Be’, Phil Hill aveva fatto bingo nel 1964 con la Ferrari quando la corsa si correva ancora sulla distanza dei 2000 Chilometri e lo stesso “Piedone” aveva trionfato nel 1972 in coppia con Jacky Ickx, pure lui su Ferrari, tuttavia sulla distanza ben più esigua di 6 Ore. Quindi, piaccia o no, udite udite, morale della favola è la prima volta nella storia che un campione del mondo di F.1 vince la gara endurance di Daytona sulla distanza canonica della 24 Ore.
Oddio, un giorno esatto d’orologio proprio no, certo, viste le tante e corpose neutralizzazioni, anche se resta vero che Nando non ha mica fatto piovere lui...
L’ex stella della Formula Uno ormai sta toccando traguardi e raggiungimenti che sono da grido e inconsueti non solo per uno che proviene dal Circus, ma anche e soprattutto per uno specialista endurance.
In fondo la 24 Ore di Daytona da fine Anni ’90 per motivi politico-regolamentari s’è andata sempre più allontanando - per macchine in pista, gestione normativa e sanctioning body - dalla filosofia della 24 Ore di Le Mans, dando vita a una civiltà endurance non omogenea, concorrente e addirittura a essa fieramente alternativa. Tanto che nell’ultimo ventennio i piloti in grado di vincere sia Daytona che alla Sarthe erano stati solo Wallace, Baldi, Bernhard e Rockenfeller. Ecco, adesso a questi eletti va aggiunto anche Nando.
Il quale è insieme allo stesso Rockenfeller il solo ad aver vinto nell’era più recente al di qua e al di là dell’Atlantico, ossia a Daytona e a Le Mans, negli stessi dodici mesi, anche se Rocky mantiene il vanto d’esserci riuscito entro lo stesso anno solare, il 2010. Ma a ben guardare sono inezie, spuntature da nerd.
La verità è che l’intuizione che Alonso ha avuto due anni fa di staccarsi progressivamente dalla Formula Uno per diventare una specie di Michel Vaillant in carne e ossa o di Graham Hill senza baffi ma con non meno gloria, si sta mostrando sempre più indovinata, straordinariamente efficace e premiante.
Mese dopo mese il suo palmarés sta lievitando, la sua esperienza sta divenendo romanticamente sempre più adamantina e il suo coraggio provato, oltre che le palle - con licenza parlando -, ultraquadre assai.
Con una voglia di mettersi in discussione così, con una capacità di rischiare, osare, provarci e giocarsi la reputazione in qualsiasi tipo di terreno e condizione.
Dal giorno alla notte, passando per il tramonto struggente, dal secco al nubifragio, dall’Hunaudieres al banking di Daytona, fino alle quatttro curve bastarde del superspeedway di Indianapolis, ormai Fernando Alonso Diaz ha lavato l’onta dei mille giri dietro a Petrov nella maledetta Abu Dhabi 2010 e l’altro finalone depressivo e deprimente di Interlagos 2012, dove aveva fatto flop anche nel 2007.
L’Alonso over 35 è qualcosa di diverso, di poeticamente chiamato all’impresa e d’automaticamente pronto a condurla in porto, suonando - con un volante che sembra un violino - un meraviglioso inno alla poesia dell’interdisciplinarietà dell’automobilismo da corsa.
Capace ormai di istoriare la corona che sta mettendosi in testa di gemme inattese, rarissime e iperpreziose, dal valore ormai sempre più sorprendente e incalcolabile.
Chiaro, bisognerebbe tirare un bel fendente e sbancare pure Indy per mettere a posto il discorso e eguagliare Graham Hill. Fatto sta che, intanto, in questo regale copricapo in divenire brillano Montecarlo, Monza, due mondiali di F.1, Le Mans, Daytona e un mondiale piloti endurance probabilissimo se non presumibilmente già mezzo vinto.
Fantastico. Mai nella storia delle corse s’era visto un pilota uscire così famelico, arrapato, entusiasta e cannibale dalla F.1, storicamente la competizione più difficile e appagante ma anche la più logorante e pertanto anche la più satollante, smosciante e svuotante del mondo.
Poche storie. Grande, Fernando.
Stai dando una meravigliosa lezione di guida, ma anche di storia e cultura dell’automobilismo. Ottenendo un risultato che va ben oltre una coppa di qua e una di là, riuscendo a diventare simpatico, amabile e tifabile anche a chi prima, in F.1, per certe tue stranezze e protagonismi, manco ti sopportava.
E stai ridicolizzando il monopoensiero analfabeta di ritorno che ama solo la F.1 e null’altro, rifilando uno dopo l’altro una sequela memorabile di schioccanti sganassoni ideologici a chi vedeva, bramava e riteneva praticabili, degni e credibili per un campionissimo solo i Gran Premi e null’altro.
Visto? Alonso vi sta spiegando che della magia delle corse non avevate e non avete capito niente.
La sfida, la poesia, la gloria s’annidano anche altrove, dove alligna l’epica del nostro frastagliato, complesso e, proprio per questo, affascinantissimo sport.
Continua così: adelante, campeón.
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