In F.1 Safety First, ma dove cavolo gli pare

In F.1 Safety First, ma dove cavolo gli pare

I  signori del circus iridato hanno uno strano concetto di sicurezza, perché i petroldollari anestetizzano il brivido...

28.03.2022 09:45

No, dico, vogliam parlarne o facciamo finta di niente? Il botto agghiacciante di Mick Schumacher in Q2 non è un semplice crash di quelli che possono capitare in F.1, ma rappresenta qualcosa di diverso assai. È l’incidente particolare che accade solo su un circuito pericoloso. Altroché. Un tracciato maledettamente ignorante. La Haas-Ferrari si scompone sul cordolo, perde d’aderenza, s’intraversa e va a sbattere piatta a circa 240 km/h contro il bordo pista, con angolo d’impatto orrendo, praticamente sparandosi un selfie contro le barriere che restano impressionate stile pellicola, dando luogo a una sorta d’inquietante sindone laica. Peraltro non la sola, perché, fateci caso, nelle altre gare c’era già chi flashato il muro con una precedente spiaccicata. Il resto, tutti lo conoscono. Mick sta bene e vi saluta tanto, ma la sua Haas è ridotta come il grembiule di un macellaio, oltre ogni possibile ipotesi di riparazione subitanea. E, solo a vederla, pare tanto la ex F.1 di un pilota teoricamente messo male, molto male. Assai peggio del tedesco.

Sicurezza al primo posto?

E questo è solo un episodio, visto che la sensazione di fondo va oltre e al di là d’esso, volando alta e salendo nel buio cielo della città araba, recitando una conculsione semplice e interessante: il circuito di Jeddah resta attitudinalmente uno dei più estremi e maligni di tutta la F.1 moderna. La cosa suona strana, stranissima, laddove da un quarto di secolo a questa parte Fia e promoter non fanno altro che gridare a squarciagola “Safety First!”, la sicurezza al primo posto, mettendo in dubbio o in crisi qualsiasi curvetta o zona di fuga del creato sui circuiti continentali più storici, classici e amati del mondiale, ove sembri ravvisarsi il minimo dubbio di rischio. Strano, pure questo, nevvero? Ma andiamo al cuore del problema, facendo però una necessaria e personalissima premessa.

Cavalieri del rischio ovunque

Per quanto mi riguarda, fosse per me, la F.1 potrebbe e dovrebbe correre ovunque. Compreso il vecchio Nurburgring, ossia la meravigliosa e terrificante Nordschleife di oltre 22 Km. Anzi, la vera sfida sarebbe quella di realizzare macchine in grado d’essere relativamente sicure pure lì, tali e quali a una GT. Sempre per quanto mi riguarda, non esistono piste pericolose, ma, paradossalmente, piloti pericolosi. Conosco centauri che corrono da mezzo secolo consecutivo sul Mountain Circuit dell’Isola di Man senza mai cadere o fare un graffio alla carena. Ho passato un quarto della mia vita proprio là, sugli oltre 60 chilometri del tracciato più lungo e maledetto del Pianeta Terra e soffro perdutamente il fascino della sfida potenzialmente mortale ai tracciati più maligni, quello più qualsiasi altro circuito, per due, tre o quattro ruote. Peggio. Adoro gli ovali bastardi, amo incondizionatamente Indianapolis e seguo pedissequamente la filosofia dei wall smacker dell’Indiana - i cosiddetti baciamuri - i quali sostengono, semplicemente e meravigliosamente, che il muro non esiste. Corri e non ci pensi. Non è un problema, ma solo una proiezione mentale eludibile. Punto. Tutto ciò è fantastico. Quindi, fosse per me, dieci, cento, mille circuiti cittadini di Jeddah e viva pure la rivoltante curva 3 di Indy. Perché motorsport is dangerous e se vuoi fare sport sicuro, gioca a scacchi subacquei e ciao. Ma non è questo il punto. Queste sono fantasie e poesie mie e di chi le venera.

L'ipocrisia di fondo

Qui si parla di tutt’altro. Ossia del rapporto indecifrabile che sembra correre tra Fia, promoter e sicurezza, tralasciando del tutto come la penso io come appassionato e andando direttamente al punto di come vedono le cose i poteri forti della F.1 e dello Sport dell’Automobilismo. In altre parole, i Padroni del Vapore da decenni e decenni, quand’ancora nel Circus comandava solo Bernie, hanno fatto sì che tutti i tracciati mitici e amatissimi che costituivano il cuore del mondiale finissero tagliati, accorciati, amputati, bonificati, sverminati, devastati se non vaporizzati per dare vita a simulacri violentati e superstiti dei bei giorni andati, roba tipo le new version di Hockenheim e Interlagos, tanto per intenderci, o, in una certa misura, Imola con le varianti aggiuntive, ovvero il Ricard senza Signes o la stessa Spa sempre più botulinata da vie di fuga e minacce d’intervento ancor più radicali.

Per contaminare il resto con le mediamente famigerate tilkate dell’architetto medesimo, che ha costruito in ogni dove claustrofobici monasteri per suorine barbute, sostituendoli alle più amate cattedrali del coraggio. Bene. Un trionfo. Guarda, una castrazione che dura da tre decenni, ormai.

Coi Cavalieri del Rischio di Sabbatiniana memoria ormai ridotti a supernerd playstation oriented, Monza e Spa a parte e salvando Montecarlo sol per amore di Frankenheimer.

Sicurezza è un concetto relativo

Poi però ecco Jeddah. Il circuito cittadino tra i più veloci del mondo, con una media di oltre duecentocinquanta chilometri orari sul giro, mentre al Tourist Trophy motociclistico non si superano i duecentoventi, neppure nelle medie record delle Superbike. Certo, il TT si corre tra le case, mentre a Jeddah si corre con le case, belli protetti da barriere, ma una cosa va fatta notare, ossia che a Melbourne, per esempio, si va di circa 15-20 km orari meno veloci, anche se il nuovo lay-out dell’Albert Park pare permetta quasi di eguagliare la pista araba. Ma il punto non è neanche questo. L’Albert Park medesimo, in confronto alla pista da mille e una notte degli arabi, pare un aeroporto. E non solo. Sul cittadino di Jeddah in origine si sarebbe dovuto correre una volta sola, di passata, per poi trasferiursi su un nuovo e modernissimo circuito permanente, che però è ancora di là da venire. E allora la conclusione di tutto questo certificato ragionamento non può che essere una.

Sta al "sicuro" chi paga

Nella F.1 moderna la sicurezza è un valore mica tanto assoluto, sottoposto a una specie di cambio di velocità a due rapporti, il quale funziona oliato così: sui tracciati storici della F.1, quasi tutti europei e con gli organizzatori che pagano poco, Safety First tutta la vita. Viva la sicurezza, a costo di devastare, snaturare e sbudellare ogni curva storica, magari mandando a quel paese financo Spa alla minima scusa. Dove invece impera la grana, vedi paesi Arabi, new economy o in via di stordente sviluppo, frega niente della sicurezza. Si va, s’incassa cash sull’unghia e chi ha dolori strilli. Coi petroldollari pronto cassa, se facessero copia incolla con la Nordschleife che piace tanto a me, andrebbero pure lì, magari con le dune e i cammelli al posto dei terrapieni brinati, ma chissenefrega, perché i soldi mandano l’acqua a rovescio, volendo. In altre parole, a prescindere dai risultati, dai protagonisti, dai vincenti e dai perdenti, la sussistenza stessa del circuito cittadino di Jeddah, le sue medie orarie sparate e le sue barriere piatte e sfacciate traggono origine solo dagli stellari bonifici dei locali signorotti. E proprio nella notte illuminata a giorno del Gp d’Arabia deflagrano il perbenismo, l’ipocrisia, la mancata credibilità, il peloso moralismo e l’inaccettabile e specchiato abitino bianco della Formula Uno di oggi, che Ella indossa con chi vuole, quando le pare e a seconda di quanto incassa.


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