Leclerc da depresso a espresso. Sai perché?

Leclerc da depresso a espresso. Sai perché?

In questa F.1 senza un razzo non vai da nessuna parte, che tu sia Lewis o Charles poco conta

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20.04.2022 09:53

Gira, gira, si parla di tanto, si discorre di tutto, però ragionando di Formula Uno non si arriva al punto della questione. Che sarebbe poi questo: la vera sorpresa nell’inizio di stagione iridata non è data dal binomio Charles Leclerc-Ferrari F1-75, ma da quanto il concetto di macchina in generale è in grado d’influenzare ormai totalmente e inesorabilmente non solo le prestazioni, ma anche la valutazione oggettiva del pilota.

Ribaltamento di fronte in pochi mesi

Ricordate? Pochi mesi fa la Formula Uno era una sorta di coatto dualismo a duello, con Lewis Hamilton e Max Verstappen ritenuti supercampioni dal dna diverso dagli altri. E con Charles Leclerc collocato nel circoletto dei depressi, a tratti impreciso, pasticcione e suonato a parità di macchina financo dal compagno di squadra Carlos Sainz. Di più. La coppia dei demotivatissimi piloti Sauber-Ferrari - al secolo Kimi Raikkonen & Antonio Giovinazzi - era in uscita dalla F.1 e quella dei conduttori delle Haas - Schumi Jr. & Mazepin -, sbertucciabile a ogni Gran Premio. Per non dire di Kevin Magnussen, da quel dì un prepensionato, l’umarell più biondo del mondo, estromesso con disgusto dal Circus, che passava le giornate a guardare con licenza d’incidere i cantieri a cielo aperto dell’Imsa e del Wec.

L'occasione sfruttata del nuovo regolamento

Cambia il regolamento, arrivano le nuove vetture e improvvisamente accade quanto segue: Charles torna a essere la Belva dagli Occhi Tristi e diventa nell’immaginario collettivo - mobile qual piuma al vento -, un ircocervo metà Schumi Senior metà Gilles Villeneuve, Max Verstappen è bravissimo ma alla fin fine mica tutto ’sto fenomeno, mentre Lewis Hamilton impreca silente in purgatorio, all’ombra dei depressi, in compagnia di Carlos Sainz medesimo, il quale, adesso che la Ferrari va per davvero, improvvisamente all’amico Leclerc manco lo vede.

E George Russell? Come prevedibile, passando dalla modesta Williams alla togata Mercedes, ha fatto un salto di qualità che lo mette di default in lizza per il podio a ogni gara. Anche se il crollo di prestazionalità della Freccia d’Argento lo tiene per ora distante dalla lotta per la vittoria, divenuta un affare esclusivamente riservato a Charles e Max, ovvero alla Ferrari e alla Red Bull, quando quest’ultima dura sino alla fine.

La rinascita della Haas

Kevin Magnussen, invece, tolto dall’oblio, con la Haas va come una scheggia, esprimendosi improvvisamente e allegramente come un top driver, con Gunther Steiner che sembra diventato in quattro e quattr’otto Alfred Neubauer. E attenzione perché Steiner vale a prescindere e vale tanto. Bene. Allora vogliamo dirla, la verità? Tutto questo, sommato, shakerato, frullato e analizzato, significa una cosina semplice, ossia questa: il pilota ormai, inteso come capacità di incidere, guidare e rappresentare il vero cuore pensante, ormai non conta più niente o, perlomeno, una percentuale del tutto irrisoria. Tendente per asintoto a zero, lambendolo all’infinito, toh.

Il rapporto uomo-macchina nella F1 moderna

Negli Anni ’70 Niki Lauda fece scandalo dicendo fifty-fifty, ossia che il campione spostava metà rispetto alla sua monoposto vincente, circa i meriti del successo d’entrambi. Nel 2016 James Allison, ancora in forze alla Ferrari, poco prima di passare alla Mercedes, diceva chiarissimamente che la percentuale, nell’era modernissima e turboibrida della Formula Uno, era scesa al 20% per il pilota e all’80% per la macchina. Favoloso. E adesso? Si diceva - e giustamente - che il totale cambio di regolamento avrebbe potuto portare a un sommovimento nella scala di valori in pista.

Be’, il rimescolio delle carte e con esso dei giocatori vincenti c’è stato eccome. Tuttavia stranamente, come abbiamo visto, sono i rendimenti delle monoposto a influenzare, esaltare o coartare la competitività dei singoli campioni e non viceversa. L’uomo è una guarnizione, un terminale, un’escrescenza pur nobile ma necessaria e non sufficiente Max Verstappen, Lewis Hamilton, Charles Leclerc, Carlos Sainz e George Russell più Kevin Magnussen sono esattamente gli stessi di dicembre 2021, eppure sul borsino della F.1 ora per ciascuno le quotazioni si sono talmente invertite, tanto da far sembrare la bilanca totalmente impazzita e per niente oggettiva.

Chi ha ragione?

Delle due l’una: o la citata frase di Allison ha trovato perfettamente compimento, oppure la situazione è talmente peggiorata, con il pilota ora conta solo il 15% se non il 10% secco, rispetto al mezzo che conduce in pista. Ovvio, direte, però il pilota conta eccome al 100% se riesce a battere il compagno di squadra. E invece no. Non in assoluto. Perché ciò ha un senso in condizioni di massima competitività del mezzo, ossia se la vettura è vincente.

Con una Rossa che spacca, Leclerc sta davanti, seppur di poco, a Sainz. Ma, se la Ferrari è quella sbagliata del biennio 2020-2021, può succedere che Carlos si dimostri di poco più prestazionale e redditizio del compagno monegasco, perché il mezzo moscio deprime sempre il più forte e compensa al confronto le magagne con quello che va appena di meno.

È il motivo per cui il supercampione Hamilton con la per ora recalcitrante W13 in pista e a quota punti rende appena di meno del motivatissimo e per niente intimidito George Russell.

Nostalgia dei tempi passati

In altre parole, quelli che godono, fanno festa e tirano i cappelli per aria visto il ritorno alla vittoria della Ferrari e di Leclerc, un po’ li capisco, ma non del tutto, perché vado oltre e mi prende la malinconia. Li capisco, sì, son contento pur’io, però, se è lecito gioire perché col ritorno dell’effetto suolo la Mercedes non è più schiacciasassi e la Red Bull ha le sue fatiche, sarà anche bene dire che in quello che nel 1950 era nato esclusivamente come Mondiale Piloti, ormai il pilota senza la macchina giusta non ha la benché minima possibilità di dire la sua.

Dov’è la notizia, direte, qual è la novità? Di nuovo c’è che le monoposto contano ancora di più e gli uomini sempre di meno. Negli Anni ’90 si diceva che Michael Schumacher con una Minardi avrebbe fatto poco meglio di Esteban Tuero e forse era vero (senza contare che Minardi coi soldi e gli sponsor che avrebbe portato Schumacher avrebbe avuto altri motori e ben altra monoposto), adesso il problema è un altro e di gran lunga peggiorato, perché a queste condizioni si fa fatica ad arrivare a podio financo con una Mercedes, tanto il mezzo non concede margini di creatività a chi lo guida, pioggia o gare matte a parte.

La vera rivoluzione è svelata

In conclusione, godiamoci la Ferrari sola al comando, ammazziamo il vitello più grasso a lode e gloria alla scala dei valori rimescolata, cinguettiamo perché le monoposto riescono finalmente a correre in scia e a fare qualche sorpasso senza Drs - sempre pochi quelli veri -, ma il vero problema, il tarlo, il male filosofico, il peccato originale della F.1 da fine Anni ’70 a questa parte, resta: il Mondiale Piloti è sempre più mondiale e sempre meno piloti. Poi che Leclerc, Hamilton e Verstappen siano i più bravi e quasi alla pari tra loro, non ci piove. Peccato però che a turno possano fare la figura dei geni o dei coglioni ma solo perché, da un anno o da un mese all’altro, hanno la ventura di guidare un missile o un catorcio, senza averne colpe e meriti perché ormai lo sviluppo lo fa il simulatore. Forse, per più onestà intellettuale, varrebbe la pena di certificare la vera rivoluzione già avvenuta e cambiare la denominazione del campionato di F.1 in “Mondiale Piloti che in quei dodici mesi hanno la fortuna di ritrovarsi per le mani il mezzo giusto”. Peggio ancora, in “Mondiale Piloti di chi, tra quei tre davvero più bravi degli altri, in quel periodo gli va di culo d’avere in mano un razzo”. Dai, pensiamo a Imola, che è meglio.


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