Hypereroi, la hit del momento

Hypereroi, la hit del momento

Questo di Le Mans è un successo epocale per la Ferrari perché italianissimo

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12.06.2023 09:20

Questa, sappiatelo, è la vittoria secca più importante e italiana nella storia della Ferrari. La 499P che espugna Le Mans per la prima volta nell’era ipertecnologica asfaltando Toyota, Cadillac, Porsche e Peugeot, la All star dei tre continenti telescopici e trainanti, punte aguzze d’altrettante civiltà di hybrid car manifacturing e di un secolo di storia della 24 Ore, è il trionfo del ritorno. La notte degli amori ritrovati e delle gioie perdute. La tenebra della grande fuga della Rossa. Sono andato a vederla dal bosco, tra Mulsanne e Indianapolis, alle tre di notte di domenica, sparata a vita persa fendendo l’asfalto tra file d’alberi ad alto fusto, la 499P, col motore che latrava quasi a sfogare la rabbia di una storia di settantasei anni, fatta di gioie terribili ma anche d’appuntamenti mancati, di treni persi e digiuni inquietanti. Volava, la Hypercar di Pier Guidi, Giovinazzi e Calado, sfareggiando e chiedendo strada un po’ a tutti, quasi a cercare di vederci chiaro in una buia vicenda strana, fatta di passione, di sogni impossibili ma non rinnegati, di schiaffi presi e mai ridati.

Perché è così importante questa vittoria

La sporca verità? Le Mans è la classicissima più importante del mondo e la Ferrari non la vinceva dal 1965. Peggio. Dal 1966, dalla prima vittoria Ford, il Cavallino mai s’era più affermato nell’assoluta, alla Sarthe. Non ho finito. Nessuno dei suoi quattro prototipi più forghieriani, belli e mitografici nell’era moderna aveva mai vinto a Le Mans. Né la P4, né la 312 P, né la 512, né la PB. Zero. Avrei altro. Era da metà Anni ’70, guarda caso, da quando la Rossa lasciò l’endurance per concentrarsi in F.1, che qualsiasi successo by Maranello era venato, nobilitato, galvanizzato, accompagnato e inesorabilmente ascritto a un merito straniero. E stato così che abbiamo visto vincere e rivincere la Ferrari di Lauda e la Ferrari di Scheckter tanto che poi, per rinascere, il Drake come ultimo gesto, scelse un inglese che voleva restare a casa sua e nacque la Ferrari di Barnard, mentre l’ultima di Forghieri, che fu anche la prima d’Alboreto, più quella di Renzetti, non lasciarono per niente bel ricordo. E per colpe mai chiarite, ma di sicuro non loro. E Cesare Fiorio? E Aldo Costa?

Un trionfo italiano

Dai, da mezzo secolo a oggi gli italiani uscivano da Maranello pugnalati e i forestieri invocati e arricchiti. Ci volevano sempre gli stranieri, i maghi, gli Helenio Herrera dell’uni-ball e della fibra di carbonio a insegnarci qualcosa. Fino a ritrovarsi sempre al capezzale sempre strani e costosissimi veterinari e avidi e a tratti bizzosi sciamani, per un Cavallino spesso malato e triste, nonché solo raramente guarito e vincente. E anche, per carità, la Ferrari del volitivo e fortissimo Todt, del divino Schumi, di Byrne e Brawn che costituivano un leggendario manipolo di racer, di mitografico aveva tutto meno che il genio italiano in quota maggioritaria, così come l’ultimo trionfo iridato di Raikkonen, nel 2007. Sembrava quasi che per rinverdire allori bisognasse per forza convincere uno da fuori. Fino a pochi giorni fa, peraltro. Horner, Newey, Hamilton. Uno vale l’altro. Con la simpatica novità che questi qua, oltre a non venir da noi, manco ci verrebbero per tutto l’oro del mondo. E allora penso alla Ferrari 499P, al trionfo fresco di Le Mans e mi viene in mente anzitutto Antonello Coletta - l’uomo che ha convinto il Presidente John Elkann a varare il programma -, il giorno della presentazione ufficiale della belva, quando gli chiesi: Ma, potessi scegliere, preferiresti vincere il mondiale o Le Mans? E lui deglutendo fitto fitto buttò là un sofferto: "Be’ dai, ti dico che intanto preferirei vincere Le Mans, ché tanto poi col coefficiente doppio di punti ci ritroveremmo messi bene anche nel mondiale, no?".

Tutti gli uomini di Coletta

Ecco, fermo immagine, adesso. Lui la battuta furba l’aveva fatta, ma c’era quasi rimasto male da solo. Perché ad Antonello di dar risposte vispe da politico grifagno mica interessa, in fondo. E all’autocompiacimento preferisce la sincerità. Così aveva guardato nel vuoto, quasi a cercare ricordi e valori, aggiungendo con un sorriso quasi dispiaciuto: «No, lo dico seriamente: meglio vincere la 24 Ore di Le Mans, perché so, sappiamo, che cosa significa. Lì se fai i fatti e vinci, si fa la storia. Lì, si, va nei libri. Ma adesso non mi ci far pensare». Bene, ora puoi pensarci, Antonello. Tu e tutti quelli della 499P. La Ferrari degli italiani, finalmente. Non per bieco nazionalismo né per malinteso superomismo in salsa tricolore, ché non servirebbe a niente, ma per l’orgoglio culturale di un’identità studiata e preziosa, di un gruppo di lavoro intellettualmente complesso e umanamente omogeneo. Di una scuola doverista e tenace, di uno stile sottotraccia meravigliosamente fatto di umiltà nei modi e di rigorosa spietatezza nei target, a far da sostanza. Figlio d’una mitragliata di titoli mondiali in GT, nata da eccellenze avvezze a un modus operandi che i nostri vantano quando sono speciali davvero L’italianità del progettista e capo del programma Ferdinando Cannizzo e con lui il tecnico Giuliano Salvi, il team manager Battistino Pregliasco, le maestranze d’eccellenza maranelliana, il Racing Partner Amato Ferrari e tutto il paradiso viaggiante e la compagnia di giro di AF Corse, più i piloti Alessandro Pier Guidi, Antonio Giovinazzi e James Calado, che sarà pure nativo del Worcestershire, ma vanta un cognome che sembra un participio passato pronunciato da uno di Foligno. Senza trascurar di ricordare la pole di Antonio Fuoco o la mano data da Andrea Bertolini e Davide Rigon nei test e non solo, giusto per citarne altri due.

Enzo sarebbe felice

Lo dico? Se il Drake, ovunque egli sia, potesse far sua una sola vittoria secca di tutte quelle ottenute dal giorno di Ferragosto 1988 - ovvero da quando dovette passare a miglior vita -, penso sceglierebbe questa. Perché più di qualsiasi altra rimette le ali alla Ferrari, ricollegandole alle radici. Alla sua gente, alle sue macchine. Ai parafanghi, - anche se bucati -, alle notti magiche, alle grandi classiche. L’economista Vilfredo Pareto una volta disse: «Gli italiani amano le grandi parole e i fatti piccoli». Domenica a Le Mans si sono sublimati italiani accomunati dall’amare grandi fatti e poche parole. E, ripensando a questo weekend così dolcemente destabilizzante, chiudo pensando a un silenzio e a due musiche che da esso e di esso mi restano appiccicate. Sì, al silenzio fisso e un po’ odioso in sala stampa alla pole di Fuoco, il giovedì, e al traguardo, la domenica, con la Ferrari finalmente al sicuro e trionfatrice. Alla prima musica che m’è entrata fissa in mente sabato alle 16, quando i sessantadue partecipanti hanno preso il via della 24 Ore, mentre dagli altoparlanti l’organizzazione mandava a palla “Also Sprach Zaratustra” di Richard Strauss, ovvero la colonna sonora di “2001 Odissea nello spazio”, a sottolineare subliminalmente la valenza grandiosa di kolossal all’evento del Centenario. E poi, sul podio, dopo l’inno nazionale, ad addolcire gli animi, “One More Time”, dei Daft Punk. Penso ci sia il senso di tutto, in ciò. Vinto il kolossal, adesso pensiamo a rivivere giorni come questo, una volta ancora. Da bellissimi italiani, quali voi siete, cari Coletta & Company. Mucchio selvaggio di sentimentali vincenti, di razionalissimi creativi, di cui noi tutti siamo e resteremo orgogliosi. Perché la vostra non è solo una squadra ma ormai sembra una nazionale. Anzi, LA Nazionale. Essù, col calcio neanche ci qualifichiamo più ai mondiali, invece grazie a voi dalle polo e dalle pole rosse e gialle abbiamo visto nascere, crescere e vincere in un solo anno solare un bolide che mai dimentichermo, nato sostanzialmente da un sogno romantico.


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