C’è un qualcosa che mi consola, in questo peraltro monocorde, spaventosamente chiaro e privo di residue speranze Gran Pemio di Gran Bretagna. Perché se è vero che le macchine ormai hanno preso letteralmente il sopravvento sugli uomini - e non lo scoprio mica io e tanto meno stavolta, perché è vero da una vita, ben peggio che nella saga di Terminator -, è anche vero che, a quanto pare, Silverstone rappresenta una bella rivincita per le capacità individuali e il valore aggiunto che un pilota sa dare, ovviamente a parità di macchina.
In altre parole, non è andata come tante, tantissime, troppe altre volte, in cui si notava una sterile processione di vetture dello stesso colore a due a due, a dare un senso di triste processione a prestazioni livellate e quasi indistinguibili tra compagni di squadra. Al contrario, dal barbecue di Silverstone i verdetti più importanti etranchant son tutti umani e creano sensazioni contrastanti, spettacolari e forti. In casa Mercedes, tanto per cominciare, dato per assodato che la W11 è la sola top model che sculetta tra una mitragliata di panzone col culo basso, il resto della faccenda lancia segnali del tutto decisivi. Il problema di Bottas non è nelle capacità, nella velocità né tanto meno nello scatto. Il finlandese è in possesso di doti di talento assolutamente prodigiose, ma, al cospetto di Hamilton, soffre desolatamente, inesorabilmente e immancabilmente di braccino. Chiamasi complesso d’inferiorità, timore reverenziale, eccesso di sussiego. Sono tanti e diversi i modi per definire lo stesso problema, che, però, essendo interiore e non avendo niente a che fare con tattiche e assetto, appare francamente a oggi irrisolvibile.
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La verità è semplice e delineata: così come in passato, fino al 2016, in seno alla Mercedes Nico Rosberg non aveva nessun problema a mettere inconto di fare il muso e litigare, cordialmente contraccambiato, con Lewis Hamilton, Valtteri Bottas vive invece un inferiority complex più mentale che reale e tale da vederlo scattare meglio di Lewis al via ma da non affondare, guai mai come avrebbe dovuto, la staccatona alla prima curvaall’insegna dell’o la va o la spacca. Proprio perché è e resta letteralmente terrorizzato all’idea di toccarsi con Lewis e danneggiarlo. Bottas, in altre parole, per dirla alla Checco Zalone, ama molto più il posto fisso alla Mercedes che non l’opportunità che esso stesso potrebbe dargli se lo sfruttasse come trampolino. Così con questa postura psicologica può battere Lewis solo in qualifica, perché lì neanche lo vede, o, al limite, in corsa, ma solo se il Capitano ha problemi, parte dietro penalizzato o è vittima di uno sfigato contrattempo. Sennò, se il primo cambio gomme avviene regolare in regime di Safety e il sorpasso decisivo va fatto in pista, Bottas ad Hamilton non lo infilerà mai, quand’anche abbia i numeri, la classe e la capacità per riuscirci, perché solo l’idea di provare a farlo a oggi gli dà infinita ansia, consigliandolo d’astenersi.
E queste cose la Dea Fortuna, che è Dea bendata ma mica scema esoprattutto femmina, le fiuta animalescamente e deliziosamente le elabora in un nanosecondo, decidendo lì per lì di buttarsi tra le braccia di chi il braccino non lo ha, abbracciandolo con voluttà. Ecco, la spiegazione psico-cabalistico-cinetica del Gran Premio di Gran Bretagna, ma temo anche dell’intero mondiale 2020, salvo sommovimenti caratteriali, metamorfosi belluine o colpi di scena hitchcockiani maimplausibili, è tutta qui. L’uomo conta ancora. Una cifra. Prendi la Red Bull. Ormai i giochini di adattamento, la pazienza da luna di miele e gli sconti Ikea son finiti: laverità è che Albon rispetto a Verstappen va peggio adesso che nei primi Gran Premi. Perché Max è uno che farebbe smettere di lavorare pure il leggendario Aleksej Grigór’evic Stachánov. Perché Max è belva, martello, uno che psicologicamente a parità di macchina in pista ti devasta da subito e poi, più ti ci confronti e peggio stai.
Così, dopo aver spiegato come funzionala faccenda nell’ordine a Sainz, Ricciardo e Gasly, adesso sta facendo lastessa cosa anche con Alexander, il quale, a parte il bel finale in rimonta - ma non è che la cosa cambi le carte in tavola -, sta vivendo un supplizio psicologico atroce, per niente invidiabile e presumibilmente senza rimedio. Gasly ora pare il più indicato a dargli il cambio, proprio perché sta ottenendo risultati bellissimi, tra il finale con podio della scorsa stagione in Toro Rosso e il settimo posto a Silverstone 1 con AlphaTauri, ma la sensazione è che la rivincita eventuale a parità di Red Bull non potrà che finire allo stesso modo. Perché Max è uno di quelli talmente bravi che per secondo devi mettergli una zia, così non si arrabbia mai, te la tieni a vita e tranquilli tutti.
Anche in McLaren, sfighe gommiste di Sainz nel finale a parte, Lando Norris è sempre più una sensazionale rivelazione. Per come spinge sul giro secco, per come tiene bene il passo gara e per quanto sa essere intenso nei finali. Tutto il contrario di quello che sembrava in formula cadetta, quando più di una volta aveva mostrato una tendenza ad ammosciarsi, specienella seconda parte della stagione. Macché, il ragazzo è cresciuto quelt anto e quanto da farlo sembrare uno dei talenti più interessanti e indivenire dell’intero Circus.
Stessa cosa alla Ferrari. Passano i Gran Premi e le differenze tra il confermatissimo, stabilizzatissimo e futuribilissimo Leclerc con il giubilato Vettel si evidenzano, crescono e si moltiplicano senza dubbio alcuno. Certo, a Silverstone, come è successo in gara tra Hamilton e Bottas, le prove hanno indirizzato la sfortuna tutta sul biondo, però è anche vero che Seb, comprensibilmente, sta andando al lavoro in azienda, ovvero in pista, timbrando gli ultimi cartellini prima del TFR solo con lavoglia che il tempo da qui a fine stagione passi presto e senza residue rotture di scatole. In una situazione così, meritata e pure anche no, che Leclerc in confronto sembri Jim Clark ci sta eccome.
E in Reanult? Daniel Ricciardo, anche se non sta mica più tanto simpatico al boss del team, ancora una volta fa vedere chi comanda, in pista, capitanando alla grande la riscossa di una squadra, la quale gara dopo gara sta facendo crescere una monoposto che potrebbe diventare un piatto sempre più stuzzicante in chiave 2021 per la fame del rientrante, voracissimo e astinente Fernando Alonso. Quanto alla Haas, i tanto indagati e criticati Grosjean e Magnussen restano talenti scabri, duri e puri, talmente umorali e imprevedibili che è rarissimo vederli fare una gara bella, intelligente e piana incontemporanea. Statisticamente funzionano bene, come minimo, uno alla volta.
E anche in Gran Bretagna, complice una speronata di Albon giustamente sanzionata, il destino segue trame da copione. Alla Williams, Russell ha tutto un altro passo rispetto a Latifi, il quale comunque non va pianissimo, non è certo male e ha anche un suo perché, ma è in F.1 sol perché ha chi gli paga i salti sui gonfiabili. Quanto a Racing Point, tra indagini Fia e Covid per Perez, mi astengo dal giudizio, augurando il meglio a chi sta male. E poi, per chiudere, c’è l’Alfa Romeo e anche qui la differenza umanamente in questo 2020 paretanta. Perché il 3-1 in qualifica a vantaggio di Giovinazzi e i puntualiesiti di gara paiono sempre più tombali e conclusivi verso le residue motivazioni e speranze del vecchio Raikkonen, il quale ormai sta correndo con una sazietà psicologica rispetto all’Alfa Romeo tale da ricordare quella di Totò per la moglie Ave Ninchi, nell’immortale film Totò e le Donne.
E così il mondiale 2020, quello più ritardato e anche più banale e scontato sul piano dei confronti tecnici tra monoposto rivali, sta mostrandosi interessante, spietato e indicativo soprattutto nei derby, ovvero nel torneo intersocietario e intracutaneo fatto di convivenze e connivenze sofferte, di coabitazioni scomode e di confronti diretti rivelatori all’interno dei singoli team.
Non a caso questo pare tanto il mondiale che, paradossalmente, ribadendola supremazia delle macchine, sta premiando sempre più l’incidenza dell’uomo. La sua capacità di dare e fare qualcosa di diverso e di più, rispetto al compagno di squadra. Della serie, tanto è moscia e spersonalizzante sul piano tecnico-prestazionale la formula turboibrida, che nel suo appiattimento porta quasi senza volerlo al fiorire di un consolatorio, gustoso e rivalutante neo-umanesimo delle individualità.
Certe volte penso a quanto sarebbe bello vedere questo campionato monomarca, con 20 Mercedes W11 al via e i ragazzi di oggi tutti sullo stesso piano. Ma nel frattempo, proprio come nella saga di Terminator, ti odio sempre più, macchina. E, a prescindere, bentornato, Uomo. Chiunque tusia.