Ormai, che Alonso riesca o meno a vincere un Gran Premio, non è più un problema suo, ma della F.1. Perché di un suo successo ne avrebbe più bisogno la trama del campionato che non lo spagnolo. Il quale, sia chiaro, lo cerca con tutto se stesso, lo brama, lo desidera come Dante anelò a Beatrice, ma, alla fin fine, sa benissimo d’aver già vinto politicamente, idealmente e esistenzialmente la battaglia più bella e quasi impossibile. Quella diretta a dimostrare d’essere, passati da un pezzo i quarant’anni, un top driver integro, l’animale anche mediatico oltre che agonistico capace di giocarsi la pole all’ultimo push a Montecarlo, perdendola per il battito d’ali d’un microbo ubraico.
Altro che pensionato
Dai, il biennale firmato lo scorso anno con Stroll senior sembrava tanto agli occhi degli haters un finale alla Raikkonen o alla Vettel: la voglia ben retribuita, tipo Kimi & Sebastian, d’infilare due stagioni strane e altalenanti con qualche bel picco e tanta lotta nella pancia del gruppo, all’interno di una squadra legnosa e difficile. Invece, manco per idea. Tanto per cominciare, la squadra stessa si dimostra elastica, flessibile e meravigliosamente capace di sfornare un missile. Da lì, un mucchio di podi, tanto champagne, mille interviste gioiose, applausi a scena aperta in tutti i circuiti del mondo in cui si va a correre e, infine, nel dopo Montecarlo, quel sottotesto di secondo posto neanche entusiasmante, senza troppi sorrisi.
Alonso, uguale, ma diverso da Mansell, Schumacher e Prost
Perché ormai, per uno come lui, avrebbe importanza solo un trionfo. Anzi due, tre o più, per diventare l’anziano meno vecchio in tutta la storia della F.1 moderna, visto che il più grande ultraquarantenne lo è già. È vero, Nigel Mansell vince Australia 1994 su Williams a 41 anni suonati, ma la verità dice che nel Leone ormai non c’erano più di voglia e motivazione, come dimostrò pochi mesi dopo al suo malinconico commiato alla F.1, a bordo della McLaren stretta di misura e per lui inguidabile. Nigel, al tempo, era bello sano di qualità e capacità, ma finito nella voglia di rischiare, impegnarsi, sbattersi, soffrire ed esaltarsi al volante di una vettura da corsa.
Stessa cosa per lo Schumi ultra40enne in Mercedes che guida ancora bene, una pole poi tolta a Monaco la fa segnare pure, a Valencia va a podio ma la verità è che con la F.1 degli zero test e delle gomme ad alto degrado il Kaiser filosoficamente ha ben poco da spartire, per cui ciao senza rimpianti. Lo stesso Alain Prost 38enne del 1993 era un campione del mondo triste, malinconico, quasi depresso nell’essere condannato a vincere con un’AstroWilliams che non poteva perdere, salvo lasciare l’abitacolo a fine stagione a un Ayrton Senna fortissimo, numero uno in pista, ma anche lui a soli 34 anni con addosso la sofferenza e la pressione - e purtroppo, col senno di poi, pure la maledetta sfortuna - di uno statista inquieto in zona di guerra.
Perché Alonso è di un'altra pasta
Alonso no. Tutta n’altra storia, per dirla alla Pino Daniele. Debuttò in F.1 con la Minardi al Gp d’Australia a 19 anni e 128 giorni, divenendo al tempo il terzo pilota più giovane della storia dei Gran Premi e adesso, ben avviato a compiere 42 anni, il 29 luglio, è pronto a ricevere l’investitura di più forte pilota dei “mid forty” nella storia moderna del Circus. Anche se non riuscirà mai a superare gli exploit di Jack Brabham e di due 46enni terribili, Nivola dominatore nel 1938 a Monza e Donington con l’Auto Union, e Fangio al top al Nurburgring e nel mondiale 1957 con la Maserati, ma non importa. Erano altri tempi, quelli. Tempi in cui la vita di un uomo come media naturale magari era meno lunga, ma senz’altro più larga e la carriera di un pilotissimo poteva superare l’esistenza di un ragioniere, tanto la era meno irreggimentata e più aperta all’elogio alla follia, stile Erasmo da Rotterdam. Ma mi fermo qui, sennò s’arriverebbe lontani.
Torno all’Alonso di Montecarlo. Quello che avrebbe potuto perfino vincere, se gli avessero montato subito un set di intermedie, alle prime gocce, al 55esimo giro. E invece gli piantano addosso quattro inutili gomme medie, cambiate la tornata dopo, facendogli perdere un po’ più di venti secondi. Ossia il distacco finale da Max Verstappen. Va bene, pazienza. In fondo manco importa. Perché la morale di tutta questa storia è un’altra e non serve solo per capire questo mondiale o comprendere meglio Alonso, bensì è utile per assaporare meglio la Vita.
Il segreto di Alonso
Sapete qual è il segreto dell’asturiano? La Rabbia. L’insoddisfazione. Il senso di dissipazione d’aver vinto solo due mondiali quando uno con la sua classe poteva farne suoi sette o otto. L’inconsolabile voglia di restare in piedi, dopo aver litigato e sbaraccato mezzo paddock. Furibondo nella McLaren di Ron Dennis con Hamilton rookie, indenne dalle spire dello spy-gate, quindi bello strizzato dalla Renault dell’ultima era Briatore con il crash gate, salvo pure stavolta. E, infine, devastato dai mancati mondiali in Ferrari, dal tramonto stizzito dell’era Montezemolo, con due mondiali buttati via nel 2010 e nel 2012, poi dal flop motoristico del ritorno Honda in F.1 alla McLaren, col “Gp2 engine”. Insomma, si contano sempre i titoli vinti per stabilire il più grande, ma se per una volta s’elencassero quelli persi per vedere chi è andato più in bianco, il trionfatore sarebbe Alonso Fernando d’anni quasi 42. E allora qual è il senso vero di tutto, la lezione, la morale, la frase d’amore la quale racchiude il film che tutti noi stiamo vedendo e rivedendo quest’anno, con protagonista l’Aston Martin numero 14?
Filosofia di vita
Il filosofo Bertrand Russell stilando la ricetta per la felicità diceva che il segreto di una vita bilanciata e serena era quello di togliersi tante soddisfazioni, ma non tutte. Perché tra gli ingredienti giusti per allungare la quantità e l’aspettative d’esistenza, oltre che la qualità, c’è l’avere ancora qualcosa d’inevaso e insoddisfatto. «Non consolatevi troppo con le gioie, perché saranno le moderate insoddisfazioni a darvi carburante supplementare e inatteso per andare avanti. Date importanza non alla sazietà ma ai tardivi e temperati digiuni perché vi regaleranno successivi e salvifici appetiti».
Eccolo il senso di tutto. A quasi 42 anni Fernando Alonso è un uomo non del tutto soddisfatto della sua carriera di pilota ed è avvampato dalla voglia, proustiana più che prostiana, di andare ancora a cercare il tempo e le vittorie perdute. Non le troverà e recupererà mai tutte, perché ciò che è perduto è appunto proustianamente perso per sempre e sol rimpianto, punto. Però, così facendo, in questo anelito un po’ superomista, mezzo poetico, un pizzico paraculo, un tantino da figlio di buona donna e assai da campionissimo meravigliosamente arruffato, lo spagnolo continuerà a regalarci, tutte le volte che potrà, dei fine settimana memorabili. Cercando il miglior tempo in pista, avvampato dal retrodesiderio di fermare il Tempo per sempre. Non quello delle lancette, ma l’altro, quello tosto, con la maiuscola. Quello delle fasi della vita. Aston Martin firma con la Honda dal 2026? Lui non esclude di non esserci più. Chiaro, no? Sapete cosa dobbiamo salvare di tutto questo? La vitalità infinita dell’uomo e del campione Alonso. Che nel suo palmarés strano, da bambino prodigio e genio precoce, comprende pure la precocità negli errori politici, strategici e esistenziali evitabili, che lo hanno così deviato dalla retta via, facendo di lui un quasi 45enne mai domo. Con gli occhi accesi di passione, di gusto racing, di amore per la sfida, d’eterna sinfonia ammaliata per il fascino delle corse di cui, ormai, lui stesso fa parte integrante. Con le vittorie antiche e i rovesci, le sconfitte portate a medaglia, le cicatrici a ornamento. Regalandoci una passione ferita, vulnerabile, imperfetta ma calda, infinita e ricca di un’entusiasmo folle e dionisiaco che lo sta portando avanti, oltre i confini delle stelle. Là dove nessun altro quasi-quarantacinquenne dell’epoca e dell’epica d’oggi -, così ruffiana, precisina, bracciocortesca, pallettara e perbenino -, potrà mai arrivare.