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Viva Las Vegas!

Posso dirlo? A me la F.1 a Las Vegas è piaciuta tantissimo. Bello lo show, sontuosa, gioiosamente trash e pacchianamente divertente la presentazione, quanto succulenta la sostanza agonistica della sfida. E poi, il tracciato. Dio mio, che splendore. Secondo in lunghezza solo a Spa, con tre rettilinei belli ignoranti, il più audace di due chilometri, il secondo da uno e il terzo poco meno. Cristo santo, era ora. Finalmente un posto al mondo in cui le monoposto possono latrare come non ci fosse un domani. Finalmente un lay-out coraggioso, estremo, che accetta ed esalta la battaglia campale.

Las Vegas meglio di tanti circuiti in calendario

Finalmente gente che ha i soldi e non ci rifila un circuito poraccio e arrabattato alla viva il parroco. Niente a che vedere con quei cunicolari budellodromi arabi di stile neomoresco, realizzati in mezzo al deserto o su superfici malleabili e quasi infinite, nei quali incistano vergognosi kartodromi agli estrogeni, infarciti di demenziali ghirigori, tipo Bahrain, Qatar o Abu Dabi, ovvero circuiti cittadini fatti per dispetto, sinuosi e sterilmente insidiosi, coi muri a novanta gradi dopo la chicane, vedi Jeddah. Niente a che vedere pure con l’idea dei tratti snake, serpentine idiote che non servono a niente, giusto a dipingerci bandierine ai lati, vedi Austin, Bahrain e Messico - salvo solo quello all’inizio di Suzuka, il più antico, tecnico, probante e vero di tutti, gli altri sono imitazioni in ecopelle -, della serie vi proponiamo teatri finti per rifilarvi pacchi veri. Stavolta no. Il tracciato di Vegas 2023 spacca. Sembra un’autostrada raccordata da tratti lenti - che non scadono nel rampinesco claustrofobico stile Baku, oh che bel castello - e che presenta perfino vie di fuga dignitose e rassicuranti, all’interno di una location unica al mondo. C’è chi dice che trattasi del primo progetto studiato quasi esclusivamente in funzione Drs, amico delle scie in stile Nascar, e in parte è vero. Ma è anche certo che, più che a un cittadinaccio stile Usa tipo Long Beach, Dallas, Detroit o Phoenix dei bei tempi che furono, Las Vegas 2023 sembra, con rispetto parlando, una Monza senza parco e priva di Parabolica ma altrettanto volenterosa nello spremere all’inverosimile le power unit. Fantastico. Potevano sfoggiare il solito braccino, farci sciroppare l’usuale vomitosa pistina da sto-and go, quasi sempre in terza, quarta, quinta, quarta, terza e invece Liberty Media quando s’è messa a organizzarla tutta lei, una corsa iridata, non s’è fatta canzonare o rider dietro, regalando ai posteri il miracolo più splendente della Formula Uno moderna.

Il tombino? Una stupidaggine

Pure il tombino era una cavolata da niente, che ci poteva stare, al debutto. La stupidaggine odiosa l’ha poi fatta la Fia, salassando con la grid penalty l’incolpevole Sainz, non Liberty a mandare gli scopini. Il che vuol dire una cosa semplicissima: questi, i promoter, tutte le volte in cui fanno le figure da scemi, non ci sono ma ci fanno. Il che per certi versi è anche peggio, però vuol dire che una via d’uscita ci sarebbe eccome, volendo. In fondo da tre decenni tutte le volte in cui si creava un circuito ad hoc o si rimaneggiava uno vecchio, si faceva una bischerata. E il peccato originale, ossia la colpa biblica, primieramente, è stata di Bernie Ecclestone, non di Liberty Media. Le deturpate Zandvoort, Hockenheim e Zeltweg ancora gridano vendetta, tanto per dire. Dagli Anni ’90 ci viene detto e propinato che il solo sostenibile lay-out medio per i Gp d’oggi è quello dei tracciati svirgolati, zigzagati, chicanati - vedi come hanno costretto Imola, tanto per dirne un altro - e poi prendi, vai a Las Vegas e scopri che un universo diverso è possibile, che un mondo alternativo appare gestibilissimo e reale, oltre che bilanciatamente estremo, spettacolare e ragionevolmente sicuro.

Cosa ci insegna Las Vegas

Questa Las Vegas, rintuzzando e smentendo tutte le paure e gli scetticismi della vigilia, dimostra una cosa semplice e destabilizzante. Cioè che quando si vogliono fare le cose per bene, ci si riesce alla grande, salvaguardando la qualità del valore tecnico nonché del banco di prova tecnologico e facendola conciliare con show, esigenze di monetizzazione e voglia di clamore & glamour a tutti i costi. Poi a colpire e per certi versi a far sbudellare dal ridere c’è un fattore a oggi poco evidenziato: il rutilante, immaginifico e apprezzabilissimo pistone di Las Vegas in realtà deve progettazione, concepimento e natali allo studio Tilke Gmbh e alla manina fatata di Carsten Tilke, figlio di Hermann, quest’ultimo protagonista dei più famigerati scempi d’inizio secolo e specialista nel rovinare circuiti gloriosi amputandoli orrendamente o nel crearne di nuovissimi mediamente insignificanti, con l’eccezione dell’accettabile Sepang, peraltro il primo ad essere dismesso dall’odierna F.1. Tilke jr. ha proposto a Liberty e alla città di Las Vegas non meno di trentuno, dico trentuno, possibili opzioni di lay-out e alla fine la scelta è caduta su una soluzione ben distante dal concetto di compitino e non aliena alla voglia di stupire e fornire un prodotto orgogliosamente verace. Tanto che lo stesso Max Verstappen, sincero ma troppo frettoloso nei giudizi, dopo aver anticipato d’essersi sentito pagliaccio nelle sfilate del pregara, dopo la bandiera a scacchi, mezzo travestito da Elvis, quale Saulo sulla via di Damasco, s’è infine detto felice non solo della vittoria ma anche del cimento a lui offerto sull’asfalto. Della serie, è tanto sincero Max, ma se solo riflettesse di più prima di parlare e sparlare, sarebbe meglio ancora. In fondo si sta peggio in altri posti meno sparati e sperati, in cui però ti fanno correre nei vicoli della Sora Assunta e da pagliaccio ti ci prendono mentre guidi, mica solo alla preview.

Ha vinto Liberty Media

Detto questo, a vincere a Las Vegas, più che la Red Bull e Max, stavolta è Liberty Media, che si è accollata da sola i costi di organizzazione del megaevento, stimati complessivamente circa in 800 milioni di dollari, di cui 400 solo per la parte paddock e tutto il cinema fatto, con un ritorno annuale presunto decisamente premiante. Vedremo come e quanto. La bella notizia è che la strada intrapresa è interessante assai. Per loro ma anche per noi. Prima parlavo di via d’uscita possibile. Secondo me, preso atto del successo qualitativo di Las Vegas, sarebbe questa.

Proposta/Provocazione

Esiste un budget cap per i team? Bene. Creiamone uno anche a vantaggio degli organizzatori dei tracciati. A Liberty Media, per esempio, non si possono né si devono dare gettoni superiori a 30 milioni di dollari. Così finisce per sempre lo scempio di mettere i posti in calendario all’asta. Tutti pagano lo stesso, punto, ricchi e poveri. In tal modo le location storiche che hanno tradizione, cultura racing e attirano più spettatori tornano competitive rispetto ad arabi, indiani, vietnamiti, esarchi, gerarchi, oligarchi, petrolricchi e quattrinari qualsiasi. A Liberty si coincede guadagno senza tetto e illimitato quanto a diritti Tv e altro, ma non sulle fee dei tracciati in calendario. Allora sì che ’sto mondo si raddrizzerebbe. FIA, vuoi pensarci? Tocca a te. Poi, se Liberty stessa da promotore e organizzatore vuole spendere l’inspendibile rispetto ad altri, proprio come a Las Vegas, faccia pure. Visto che rischia, potrebbe godersela, perché lo meriterebbe. Ma questa, per ora, è fantascienza. Per adesso e per una volta, Liberty Media si goda applausi a scena aperta, per tutto ciò che è riuscita a realizzare a casa sua. Viva Las Vegas.