Alberto Antonini: il suo ultimo racconto tra Autosprint, Ferrari e Formula 1

Alberto Antonini: il suo ultimo racconto tra Autosprint, Ferrari e Formula 1

Per 21 anni Alberto è stato giornalista della nostra testata, vivendo l'ultimo periodo della F1 ancora aperta e accessibile. Riviviamo insieme a lui, nella sua ultima intervista ad Autosprint, i momenti più importanti della sua esperienza

15.12.2023 12:51

Chi è il gancio?

"Giorgio Serra, meglio conosciuto come “Matitaccia, al secolo fratello di mia mamma Laura: è lui a informarmi che stanno cercando persone. Ma io sono ancora giovane e selvaggio, così, reduce da una notte brava, la mattina dopo dormo della grossa e mi scordo dell’appuntamento. Colloquio rimandato, quindi. Poi finalmente arrivo puntuale, trovando il Direttore Cavicchi in compagnia di Boccafogli e Nugnes. L’esito è sintetizzato dalle parole di Cavicchi: se ha resistito quattro anni con Marcello Sabbatini, vuol dire che potrà stare anche qui".

Qual è il tuo feeling con Autosprint, sulle prime?

"Era una redazione da oltre venti cristiani, si faceva fatica a trovare una scrivania libera e sopra tutte c’erano monumentali macchine da scrivere, inoltre si lavorava ancora con la fotocomposizione. La mia Olivetti era stata di Schittone, tanto che stazzava ancora la cenere di mille sigarette, al punto che quando pigiavo i tasti si formava una specie di nube… Ma, al di là degli aspetti pittoreschi, era un gran bell’Autosprint. E questo è un mestiere, se lo vogliamo chiamare mestiere, che lascia tanto spazio alla creatività e diventa bellissimo se fatto con le persone giuste. Nel mio caso, il Direttore Carlo Cavicchi ha sempre creduto in me, senza mai abbandonarmi e facendomi un’ottima scuola".

Il Cavicchi maestro sintetizzato in una frase?

"“Mi raccomando, se non riusciamo a scrivere una cosa di cui abbiamo certezza assoluta, che almeno sia verosimile”. Ovvero, l’onestà intellettuale e la sagacia fatte persona".

Un momento esaltante dei tuoi inizi?

"Phoenix inverno 1992, quando Senna prova la Penske di Indycar e riusciamo in extremis ad avere le foto per metterle in esclusiva nell’ultimo numero dell’anno. Chiamo il circuito alla cieca, chiedo informazioni e mi dicono “Bah, sta girando uno col casco giallo…”. Fantastico, ora si tratta di beccare un fotografo e il prescelto chiede timido: “Sì, ma me li dareste cento dollari?”, ecco, ma magari anche duecento… Capito? Era un mondo così, tutt’altro che iperconnesso… Tanto che le foto arrivano giusto in tempo, grazie alla macchina a rulli. Voglio dirti, fu bellissimo prendere coscienza di stare in un posto che poteva anche produrre anteprime mondiali e in quel modo… Ora sarebbe impossibile, visto che tutto accade e viene pubblicizzato ovunque in tempo reale… Ma allora lo spirito d’iniziativa pagava e funzionava, eccome".

Ricordo che diventi inviato di F.1 seguendo i test a Estoril di fine 1993.

"Giusto. E svolgo questo ruolo per più di venti anni, ovvero fino a tutto il 2014. Sai, ho ancora in mente il titolo del mio servizio su quelle prove collettive: “La settimana enigmistica”, perché bisognava restare nel vago: il team Benetton voleva Lehto, però c’erano in ballo anche Badoer e Alboreto, quindi era giusto accennare ma non precludere niente a nessuno… Sai, la scopri subito l’importanza dell’opportunità, della cautela, della misura e di un pizzico di politica: in un ruolo come questo, non puoi non tenerne conto".

I tuoi momenti più belli da inviato?

"Suzuka 2000, il primo mondiale piloti vinto da Schumi per la Ferrari, che vissuto dal vero dà la consapevolezza di vivere un momento storico, atteso da 21 anni, tanto da strapparmi qualche lacrima. Poi pure il titolo vinto da Raikkonen a Interlagos 2007 e, per terzo, un altro episodio che ha per teatro il Brasile, cioè un Novotel a San Paolo, anno 2014, quando alle cinque del mattino ricevo una telefonata la quale mi informa che mi vogliono all’ufficio stampa Ferrari".

E i momenti peggiori?

"Il primo, aggiungo ovviamente, a Imola 1994, ovvero il weekend del Gp di San Marino, con la morte di Ratzenberger e poi di Senna".

Alberto, ricordo benissimo che in quel numero di Autosprint tu sei il primo in assoluto al mondo a fare riferimento allo sterzo. Mi sai dire come e perché?

"Perché sento alla radio una frase che il tecnico Patrick Head dice a un suo ingegnere o a Damon Hill, non so, che suona così: “Controlla se il power steering era attivo, perché a volte si può spurgare da solo…”. In altre parole, a differenza dei tanti che pensavano a un guaio a una sospensione, alla Williams avevano subito pensato a qualcosa che avesse a che fare con lo sterzo. E io stesso, con questo dubbio e con questa percezione, telefono immediatamente in redazione parlando sottovoce, perché l’imbeccata potrebbe essere buona. E infatti la realtà delle giornate e delle settimane successive conferma e specifica meglio lo scenario".

E poi, quale secondo momentaccio in carriera, cosa metti?

"Metto Jerez 1997, quando sfuma il mondiale per Schumi e la Ferrari, in un clima brutto, in cui la tensione si trasforma in delusione cocente. E nel libro su Vettel rivelo di passata un primo particolare che qui posso solo accennare, ma è decisamente succulento..."

Vai.

"Quando Schumi tocca Villeneuve alla Dry Sac, sia Michael che gli uomini Ferrari sanno perfettamente che la Rossa non potrà terminare la gara".

Quindi Schumacher con la macchina quasi kappaò che tira una botta a Jacques sta allo Schumacher che ad Adelaide 1994 mette fuori gara Damon Hill: ovviamente a Jerez col risultato opposto, ossia vincendo il titolo prima, in Australia, e perdendolo poi, in Spagna.

"Se la vuoi leggere così, sì. Stesso comportamento, con la differenza che nel 1994 Schumi aveva appena messo la sua Benetton fuori uso picchiando, mentre a Jerez non aveva commesso errori. Il resto sta nel libro…".

Pensi d’essere stato un giovane inviato nel momento migliore della F.1?

"Di certo in un’era più aperta di quella di adesso. Sinceramente, non invidio oggi chi cerca di fare questo lavoro. Se anche le grandi cariatidi della F.1 al tempo del Covid-19 hanno rinunciato ad andare ai Gp perché non ha senso starsene blindati in sala stampa senza poter fare vita da paddock, vuol dire che siamo a un’ulteriore svolta restrittiva… Prima, ben al di là del coronavirus, non era così. I piloti non erano blindati, i rapporti meno rigidi. Lo stesso Senna, anche dopo avermi visto le prime volte, già mi parlava, era disponibile. Anche se non ero mica suo amico, pur considerando che Ayrton è stato il pilota che ha avuto più sedicenti amici, dopo morto…".

A parte questo, fare il giornalista ora in un weekend di Gp, anche senza Covid, non è più un bell’andare.

"In posti come Barcellona ed Estoril se facevi tardi al circuito poi incontravi Schumi che in due minuti ti spiegava tanto, se non tutto. Oppure ricordo che nel 1999 ci scappò lo scoop sulle ali flessibili, grazie anche all’aiuto di Fisichella, tanto da provocare un’investigazione FIA. Voglio dire, erano tempi in cui, se non ti accontentavi di vivere in sala stampa e curavi i rapporti giusti, riuscivi a dare al giornale e al lettore un prezioso contributo, quel famoso qualcosa in più. E l’ambiente era tale da premiare un comportamento del genere".

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