Memorie di Adrian

Memorie di Adrian
Il tecnico più geniale e vincente della F.1 ha guidato due delle sue creature: la Leyton House Cg901 del 1989 e la Red Bull Rb6 del 2010. Un mix esplosivo di emozioni e ricordi

15.01.2013 ( Aggiornata il 15.01.2013 12:59 )

Un giorno imprecisato di fine 2012. Box di Silverstone: Christian Horner è di un così bianco pallore come non lo avevamo mai visto prima. Anche gli ingegneri e i meccanici sembrano in tensione. La Red Bull Racing è abituata a gestire i bizzarri scherzi della pressione, ma questa è una cosa diversa. La risorsa più preziosa del team – il progettista più agognato da tutti i team – sta per uscire in pista, assumendosi un rischio mortale al volante non di una ma di due delle sue stesse creature, perfettamente scolpite, ancora paurosamente veloci tanti anni dopo. Adrian Newey è un idealista della F.1, il più talentuoso ed influente progettista di auto da corsa degli ultimi 30 anni, l’unico uomo ad aver disegnato, a mano, le vincitrici del Campionato Mondiale per tre diversi team. Ciò che non è, è un pilota da corsa, almeno non per i canoni della F1... Certo, è piuttosto abile al volante delle auto da corsa, in più occasioni. Ma su vetture di F1 la sua esperienza è pari a… non molto. Anzi a zero. «Se lascio che Adrian si faccia male oggi, Christian taglia un orecchio ai miei figli», borbotta il responsabile del test team, Tony Burrows. Ma questo test è speciale: due vetture da Gran Premio, 20 anni esatti le separano, alla guida un uomo che muore dalla curiosità di scoprire esattamente come ci si sente a guidare le due monoposto che ha progettato. Sono gli estremi di vent’anni di evoluzione in Formula 1. In un angolo, in color ‘Miami Blue’ (turchese, per intenderci) la piccola e bellissima Leyton House CG901 del 1989 che fu guidata nei Gp da Ivan Capelli. Il risultato finale di una vettura che, col senno di poi, potrebbe essere descritta come il provino di Adrian durato tre anni che ha portato alla gloria nei Gran Premi. Di fianco, in blu scuro, la stravagante e in confronto ordinaria e bruttina Red Bull RB6 del 2010, la prima Red Bull ad aver vinto un mondiale; la monoposto che ha reso Sebastian Vettel il più giovane campione del mondo della storia. Newey le guiderà entrambe per scoprire e raccontarci non solo da tecnico ma anche da pilota cos’è cambiato in vent’anni di F.1. S_MHOWELL__21_ Non ci vuole molto a Newey per mettersi a suo agio con la Leyton House, un’auto di cui rimane ferocemente orgoglioso. L’ex pilota Red Bull ed ora commentatore BBC David Coulthard lo segue in pista con la RB6 durante la breve prova con la CG901 e si complimenta con Adrian per il suo impegno. «Avevo passato quattro anni con la IndyCar quando Robin Herd (cofondatore della March, ndr) disse: “bene, adesso siamo pronti a fare una vettura di Formula 1”», spiega Newey ricordando come è iniziata l’avventura. L’uomo d’affari giapponese Akira Akagi aveva creato una società per riportare al successo il marchio March. Il team, però, avrebbe corso nella sconcertante veste di Leyton House, un esercizio di lifestyle e marketing voluto di Akagi, stranamente basato su un colore. Non era solo il nome ad essere insolito; con la giovane “arma segreta” Newey e il promettente Ivan Capelli al volante, la Leyton House si apprestava a ricoprire un importante ruolo in F.1 con conseguenze durature per lo sport. «In quei giorni la F.1 era una categoria divisa», dice Adrian. «Tutti i top team avevano motori turbo mentre negli ultimi posti in griglia si trovavano le monoposto con motori 3,5 litri aspirati, con una potenza di almeno 150 cavalli in meno. In quel periodo le vetture turbo erano veramente sgraziate. La gente era diventata veramente pigra in fatto di design, avevano così tanta potenza che per trovare più deportanza si applicavano semplicemente alettoni sempre più grandi. Si trattava solo di contenere tutta quella potenza. Noi, con il nostro V8 Judd da 650 cavalli dovevamo trovare velocità altrove, cercandola attraverso una maggior efficienza aerodinamica. Così abbiamo indirizzato la progettazione in quel senso scendendo a piccoli compromessi nel pacchetto meccanico per ottenere il risultato. E in questo senso, queste sono le vetture di cui personalmente, mi sento più orgoglioso. Penso di non sbagliare se dico che questo approccio ha cambiato la direzione della progettazione in F1». Nel 1988, l’anno del quasi totale predominio della McLaren-Honda di Senna e Prost, Capelli si dovette accontentare del ruolo di coraggioso eterno sconfitto nonostante un sorprendente sorpasso a Senna nel Gp d’Estoril e i pochi giri passati al comando a Suzuka. S_MHOWELL__4_ Incredibilmente in quel 1988 la March 881 fu la migliore F.1 a motore aspirato, meglio della Williams FW12 e delle vetture con motore Judd, scoprendo anche nuovi orizzonti tecnici precedendo di quasi due anni il muso alto con baffi ad ala di gabbiano della Tyrrell 019 di Harvey Postlethwaite. «In quell’anno abbiamo introdotto molte novità aerodinamiche su quella vettura - spiega Newey - per esempio sollevando la parte inferiore del telaio per gestire l’alettone anteriore, il muso e il telaio come un unico dispositivo aerodinamico; poi abbiamo sagomato le paratie dell’alettone anteriore e realizzato un diffusore molto speciale, tutto allo scopo di realizzare una vettura più piccola e compatta possibile. Queste innovazioni attirarono molta attenzione, furono tutte cose che non passarono inosservate», nota Newey. L’anno successivo, però, il buon lavoro svolto iniziò a disgregarsi. L’eccessiva ambizione, la mancanza di esperienza in prima linea in F.1, la scarsa stabilità finanziaria di Akagi e la politica interna del team avrebbero minato le premesse iniziali. La CG891, non è stata all’altezza delle aspettative. Anche la vettura del 1990 che l’ha seguita, basata sullo stesso telaio con una nuova aerodinamica, pareva dovesse avviata a rivelarsi un flop, ma una nuova scoperta a metà stagione avrebbe cambiato tutto, dimostrando l’utilità... dei fast food per la F.1. L’arcano lo spiega Andy Brown, che oggi lavora al team Ganassi in IndyCar e all’epoca era ing. di macchina di Gugelmin.  «Se guardate le foto della CG901 - ricorda Brawn - sfoggia quelli che in gergo delle corse chiamiamo i i flap “a vassoio da té”. Si tratta di estensioni sull’ala anteriore per aumentare la deportanza. Durante i primi test al Paul Ricard ci siamo resi conto che l’alettone anteriore non era sufficiente a tenere giù il muso. Così per diminuire il sottosterzo abbiamo realizzato in fretta e furia delle estensioni sull’alettone anteriore realizzandole con alcuni vassoi rubati al McDonald’s vicino al circuito! I flap veri sono stati fatti per il fine settimana di gara…». S_MHOWELL__41_ Dal Gran Premio di Francia nel luglio del 1990, la CG901 è diventata una monoposto competitiva a tutti gli effetti, quando Ivan Capelli è stato in testa alla corsa per 45 giri su 80 al Paul Ricard ed ha finito la corsa al secondo posto soltanto per la mancanza di benzina nel finale, quando al precedente Gp del Messico non era nemmeno riuscito a qualificarsi. Ma era già troppo tardi: Adrian Newey aveva già lasciato il team e avrebbe iniziato il suo nuovo lavoro alla Williams otto giorni dopo: il lunedì dopo il Gp d’Inghilterra, il 16 luglio. «Sono stato alla Leyton House praticamente dall’inizio e anche se abbiamo commesso errori pensavo che come team stessimo facendo progressi - dice. - Se la Leyton House avesse continuato a godere dei finanziamenti necessari avremmo potuto fare un lavoro soddisfacente, forse - chi lo sa - avremmo iniziato a vincere qualche gara. Ma era chiaro che Akagi aveva problemi economici ed era evidente come sarebbero andate a finire le cose. Questa è la ragione per cui me ne sono andato. Francamente, poi, ho avuto un grosso litigio con l’amministratore (Simon Keeble, ndr) cui Akagi aveva affidato la gestione del team e con cui non andavo affatto d’accordo. Non si può affidare a un ragioniere la gestione di una squadra corse, non funzionerà mai». Akagi sarebbe poi stato arrestato per frode qualche tempo dopo e il team, tornato a chiamarsi March, avrebbe chiuso alla vigilia della stagione 1993 – mentre Newey veniva acclamato come il nuovo genio della F1. Oggi sorride al ricordo di quell’esperienza.Anche perché in quegli anni ci fu il suo battesimo al volante di un’auto da corsa. «Le prime due volte che ho guidato in pista un’auto da corsa è stato direttamente al volante di una F.1, niente vetture intermedie - ricorda Adrian con un sorriso. - La prima volta avvenne con una 881 a Vallelunga dove stavamo provando verso la fine di quell’anno (il 1988, ndr). Entrambi i piloti, Capelli e Mauricio Gugelmin, si lamentavano di non avere spazio per muoversi nell’abitacolo, cosa che da allora mi ha fatto impazzire! Ivan mi disse: “guidala e dimmi cosa ne pensi”. E così ho fatto! Sono entrato in pista, sono arrivato fino all’ultimo tornante – e in uscita sono andato in testa-coda. Ecco, è stato questo il mio debutto in pista! La seconda volta è stata con una Williams alla fine del 1993 quando il team ha organizzato una giornata per i giornalisti al Paul Ricard e Patrick Head pensò che sarebbe stata una buona idea che lui, io e Bernard Dudot della Renault ci cimentassimo al volante anche noi». Sfortunatamente pioveva a dirotto, l’esperienza per Newey risultò un po’ scoraggiante. Newey non ha grande esperienza, ma non gli manca la fiducia in se stesso. Si sente a suo agio sulla macchina quasi subito e, come potete vedere dalle foto, la sua fiducia deriva dalla perfetta preparazione delle Leyton House CG901 ben curate dal proprietario Patrick Morgan e dal suo Dawn Treader Performance team. Sia Newey sia Coulthard, anch’esso salito a bordo per qualche giro, si sono goduti l’occasione di ritornare ad un periodo più “puro”, quando le auto da corsa venivano fatte con le giuste proporzioni e non erano piene di deviatori di flusso e alette e alettine di ogni genere, soluzioni aerodinamiche in cui Newey stesso oggi deve specializzarsi. Indian GP Saturday 27/10/12 «In effetti la CG901 è molto comoda, strano a dirsi, considerato che non ho mai guidato un’auto come quella», dice Adrian. «Ha una buona visibilità tutt’intorno grazie al basso abitacolo. Dal punto di vista della sicurezza, si potrebbe dire che lasciava i piloti piuttosto esposti. Ha un motore, il V8 Judd, molto docile e l’atto fisico di guidare l‘auto è semplice. Ovviamente, siccome si tratta di una monoposto privata non ho voluto azzardare, ma la sentivo perfettamente bilanciata: sterzo diretto, buoni freni e pochissimi sballottamenti violenti, cosa sorprendente. Me la sentivo bene, come indossare un vecchio guanto, davvero strano visto visto che non l’avevo mai guidata prima». Eravamo sollevati per il fatto che Newey era riuscito ad infilarsi nell’abitacolo dalla forma a V, date le proporzioni striminzite della Leyton House. Aiuta il fatto che sembra che Adrian quasi non abbia le anche. «Si, Capelli e Gugelmin si lamentavano di quanto fosse stretto l’abitacolo e della difficoltà nel cambiare le marce, cosa che abbiamo migliorato moltissimo sulla 891 e sulla 901», ammette. Patrick indica un rigonfiamento sul fianco destro – una rara concessione aerodinamica ai piloti e alla pelle delle loro nocche durante il cambio di marcia. Un rigonfiamento che si è reso necessario fare nella carrozzeria all’altezza della leva del cambio per permettere ai piloti di afferrare la leva con le mani perché altrimenti non c’era spazio per infilare nemmeno le dita! Newey sorride. «Per me, con le mie misure lo spazio nell’abitacolo era sufficiente. Non so di cosa si lamentassero così tanto!». La CG901 non ha mai vinto una gara, ma la sua importanza per Newey e per la F.1 nel suo complesso è ovvia se paragonata alla Williams FW14 del 1991. «Di certo dalla Leyton House alla Williams, la filosofia aerodinamica era molto simile - dice Adrian. - Quando sono andato alla Williams nel luglio del 1990, avevo relativamente poco tempo per progettare l’auto dell’anno successivo. Fondamentalmente ho portato con me, nella mia testa non certo i disegni ma l’idea di come sarebbe stata la Leyton House dell’anno successivo se fossi rimasto là. Ovviamente la Williams aveva risorse molto maggiori rispetto alla Leyton House e tutta l’esperienza, in particolare dal punto di vista meccanico. Penso, però, onestamente, di dover dire che ciò che stavamo facendo alla Leyton House dal punto di vista aerodinamico fosse molto più evoluto rispetto a quanto stavano facendo, all’epoca, alla Williams. Quindi se si mette una FW14 di fianco a una 901 si noterà più di una semplice somiglianza». Formula One World Championship Con la FW14B a sospensioni attive del 1992, Newey ottiene il suo primo titolo mondiale con Nigel Mansell che si faceva strada con le sue maniere forti verso un titolo piloti da dominatore. A dispetto di quanto tutti credono, Newey ritiene che la Williams non abbia usato il migliore sistema di sospensioni attive allora disponibile. «Il nostro uomo del reparto R&D, Max Nightingale aveva iniziato a lavorare su un sistema di controllo elettronico delle sospensioni nell’89 - dice. - Naturalmente Lotus e Williams avevano realizzato il proprio sistema di sospensioni attive in modo molto diverso. Quelle della Lotus erano completamente attive mentre noi avevamo un sistema meno complesso, messo assieme più frettolosamente. Alla Leyton House invece avevamo lavorato su un sistema di controllo della piattaforma il cui unico scopo era quello di tentare di controllare l’altezza dal suolo in base alle variazioni di velocità e di deportanza invece di cercare di gestire gli input del terreno. Lasciavamo che a occuparsi di questi fossero molle e ammortizzatori tradizionali. Pensavo che fosse quello il modo per andare avanti. Piccoli come eravamo alla Leyton House, probabilmente eravamo troppo ambiziosi per iniziare con un sistema di sospensioni pienamente attive. Ironia della sorte, era il sistema che McLaren ha continuato ad usare nel 1993. Era il primo studio di sospensione attiva che avevo fatto ma alla Williams per la vettura del 1992 abbiamo continuato con il sistema a tre punti, che per me non era un altrettanto valido tanto quanto il sistema di controllo della piattaforma. Praticamente questo sistema Williams aveva due molle davanti e una unica dietro e poi c’era un singolo attuatore posteriore per controllare la compressione collegato a un singolo attuatore anteriore per l’estensione. E questo era ciò che dava la rigidità di marcia. Ci forniva ciò che volevamo in termini di compensazione per la deportanza, ma nel processo di collegamento al sistema idraualico si andava un po’ a compromettere l’altezza dell’auto e questo dava qualche problema, a Patrese in particolare. Il sistema McLaren che avevamo usato sulla Leyton House, invece, era molto semplice. Si metteva un attuatore sotto la base delle molle e si compensava lo schiacciamento delle molle e dei pneumatici estendendo l’attuatore. Era il sistema migliore. Se le sospensioni attive non fossero state vietate alla fine del 1993 la Williams avrebbe abbandonato il sistema a tre punti per usare il sistema di controllo della piattaforma, ma con gli attuatori sul puntone della sospensione invece che sotto l’alloggiamento delle molle». Formula One World Championship L’entusiasmo di Newey per l’era delle sospensioni attive è evidente. Quanto è stato frustrante il divieto nei confronti di quei sistemi elettronici alla fine del 1993? «Molto - risponde - È un peccato perché penso che l’era dell’elettronica, fosse un bellissimo periodo, e non parlo solo delle sospensioni attive. Alla fine del 1993 avevamo gli Abs a quattro canali, il servosterzo elettronico, il controllo della trazione, le sospensioni attive e avevamo costruito e usato il cambio a variazione continua Cvt, che in effetti era un sistema di trasmissione tipo Daf Variomatic. Lo collaudammo proprio qui a Silverstone. Era molto strano sentire un motore con giri praticamente costanti. Ma anche quello è stato vietato. Sfortunatamente si trattava di un caso di “Aiuto Internazionale Ferrari», aggiunge con malizia Newey. Questa espressione va spiegata bene: si tratta di un gioco di parole in inglese ottenuto modificando il significato della sigla FIA in “Ferrari International Aid”, cioé “Aiuto Internazionale Ferrari” come gli inglesi definiscono maliziosamente tutti i casi in cui una norma regolamentare viene in aiuto della Ferrari). Dice ancora Newey: «La Ferrari e la Fia si sono riunite, il consueto modus operandi Ferrari: se non riuscivano a far funzionare qualcosa, lo facevano vietare. Non erano in grado di far funzionare le sospensioni attive e certamente non sarebbero riusciti, in poco tempo, a far funzionare il Cvt e così, di conseguenza, tutto l’insieme è stato messo da parte». Grand Prix of Hungary È affascinante ciò che Newey dice poi sulla Fw16 “passiva” del 1994, nel contesto del 1 maggio e della morte di Ayrton Senna. Il divieto dell’elettronica colpì in maniera particolarmente pesante la Williams, dice. «È stato un grande passo indietro per noi. Avevamo usato le “attive” per due anni, avevamo almeno un anno di vantaggio rispetto ai nostri concorrenti e naturalmente avevamo sviluppato attorno a questo sistema tutta l’aerodinamica. Così, quando siamo dovuti tornare indietro (a fine 1993, ndr), ci è voluto in effetti del tempo per renderci conto dei problemi che ci causava un telaio che si muoveva molto di più. Di conseguenza devo dire francamente che la Fw16 era aerodinamicamente instabile. Le fiancate erano troppo lunghe, si sarebbe verificato un enorme stallo del fondo e non c’era via d’uscita. Mantenendo alta la vettura si poteva evitare lo stallo del fondo ma si perdeva deportanza. Se la vettura era bassa, diventava instabile. All’inizio della stagione era un po’ uno schifo e solo dopo aver accorciato le pance a Magny-Cours, in luglio, siamo riusciti finalmente a risolvere il problema». Ma Senna a quel punto era già scomparso. Nel 1997, quando Jacques Villeneuve portò la Williams al quarto titolo mondiale piloti ispirato da Newey in sei anni, Adrian lasciò il team per un nuovo capitolo della propria vita alla McLaren. Quando la sua elegante Mp4-13 vinse la gara di apertura della nuova era delle monoposto a carreggiate strette del 1998, il passaggio da un team all’altro sembrò essere passato liscio e senza strappi. Liscio quanto la sua tecnologia del cambio che sarebbe diventatata una caratteristica delle sue McLaren. «Certo, il passaggio non è stato semplice - replica. - Lavorare alla McLaren rispetto alla Williams era molto diverso. La Williams assomiglia molto all’officina amatoriale di Frank e Patrick, cosa che talvolta potrebbe risultare frustrante. D’altro canto, però, dava una sensazione di familiarità e Patrick era molto buono con me e mi lasciava molta libertà. La McLaren è un po’ più simile alla IBM, non che abbia lavorato alla IBM, ma ci si sente come in una grossa azienda che ha metodi e standard ed è in questo modo che bisogna muoversi. Sono entrato in McLaren il 1 agosto 1997 e quindi i tempi per progettare la nuova auto erano veramente molto stretti. Da agosto ad ottobre ho lavorato per 12 ore al giorno sette giorni la settimana per riuscire». La convivenza con Ron Dennis è stata piena di battaglie, tutte ben documentate. Nel 2001 Newey è stato lì lì per lasciare la McLaren per andare dal suo vecchio amico Bobby Rahal alla Jaguar - che sarebbe poi naturalmente alla fine diventata Red Bull - per poi abbandonare l‘idea quello stesso giorno. «In effetti sono rimasto alla McLaren un paio di anni di troppo - dice Newey - La macchina del 2002 era discreta ma Coulthard vinse solo una gara, non era una vettura destinata a vincere un campionato. Ho sbagliato poi pensando di dover essere aggressivo, progettivamente parlando, con la macchina del 2003, la Mp4-18, che non ha mai corso. Ma c’erano molte cose in ballo in quel periodo…». Patrick Morgan, il proprietario della monoposto Leyton House del nostro test, che all’epoca lavorava per Ilmor, la società che costruisce i motori Mercedes F.1, si inserisce: «Ricordo che in quel momento c’erano sedici diverse specifiche di albero a gomiti e stavamo facendo un motore a valvole rotanti che non ha mai corso e che venne vietato prima di riuscire ad essere montato su una vettura. Poi c’era il motore “M” per la Mp4-17 che venne usata in gara nel 2002 e 2003, e la versione “P” che era il vostro motore con basso centro di gravità per il quale abbiamo preparato appositamente quella strana biella. E poi, allo stesso tempo, c’era lo sviluppo della doppia frizione e anche il cambio in carbonio… Si, troppa carne al fuoco - dice Newey - e la Mp4-18 ne fu il risultato. Progetto troppo ambizioso. La Ferrari era uscita con una eccellente vettura nel 2002 (vinse tutte le 17 gare del mondiale eccetto due, ndr), pensai che dovevamo fare un grosso passo in avanti e così commettemmo errori. Dal punto di vista aerodinamico la nostra auto era instabile a causa di una cosa che non si era vista nella galleria del vento, ma che comparve subito in pista. Raikkonen ebbe un enorme incidente all’ultima curva a Barcellona, proprio a causa dell’instabilità che si manifestava quando l’auto viaggiava a ridotta altezza dal suolo. Abbiamo capito quale fosse il problema e abbiamo bocciato la macchina. Verso la fine dell’anno volevo fare una vettura nuova per risolvere quei problemi, ma Martin Whitmarsh e alcuni degli altri ingegneri credevano che la 18 che non aveva corso potesse essere resa più competitiva montando il cambio a doppia frizione e così via. A dire il vero hanno preso loro il sopravvento sulle scelte, avrei dovuto abbandonare allora. Alla McLaren c’era tanta politica e tanto desiderio di mettersi in mostra. A quel punto abbiamo finito col correre con quella che era diventata la MP4-19, ma in effetti era una 18 cui era stato cambiato il nome e naturalmente non si rivelò una buona vettura. Invece la 19B, che debuttò a metà stagione e che vinse a Spa il Gp del Belgio 2004, quella si fu un grande passo in avanti, una vettura discreta. Se l’avessimo avuta dall’inizio dell’anno avremmo potuto lottare con la Ferrari per il titolo. Invece ci è rimasto l’amaro in bocca». Formula One World Championship La McLaren del 2005, la Mp4-20, sarebbe stata l‘ultima di Newey con il team e ancora una volta il tecnico inglese offrì innovazione con la configurazione della sospensione “a chiglia zero”.. Nonostante dieci vittorie stagionali divise tra Raikkonen e Juan Pablo Montoya, il terzo titolo, da aggiungere a quelli ottenuti con Mika Hakkinen nel ’98 e nel ’99, non si concretizzò. Era il momento per un’altra sfida nella vita di Newey. Passò alla Red Bull. «Approdando alla Red Bull sentivo di aver chiuso il cerchio - dice Newey - ciò che mi attirava era che mi sentivo come riprendere un progetto lasciato a metà dai tempi della Leyton House. In Red Bull avevo la possibilità di far parte di un team più o meno dall’inizio, di costruire qualcosa e crescere insieme per arrivare a un punto da cui forse avremmo potuto vincere delle gare». Newey, come tutti sanno, lavora ancora al suo tavolo da disegno, proprio come faceva alla McLaren, alla Williams, alla Leyton House e March, alla Fittipaldi e all’Università di Southampton dove si è laureato nel 1980. «Sono un po’ troppo antiquato - sorride - In effetti dai giorni della March, Indycar incluse, ho sempre iniziato il layout di una macchina considerando prima di tutto l’aerodinamica e cercando, poi, di aggiungere attorno ad essa le parti meccaniche. Non sono mai riuscito a capire come fa la gente a procedere in modo diverso. Penso che adesso le cose stiano cambiando perché le normative sono così severe e restrittive che in un certo senso la forma della macchina si disegna da sola. Ma non ho mai veramente capito come sia possibile avere un reparto meccanico che non lavora a strettissimo contatto con il reparto aerodinamico. E si vede. Si vedono macchine per le quali è chiaro che l’ingegnere aerodinamico non ha comunicato con il progettista capo e il risultato assomiglia a un... cammello. Mi sono laureato nel 1980, molto prima che i sistemi Cad (computer-aided design, ndr) fossero perfino immaginati nell’ambiente del motor racing. I sistemi Cad hanno iniziato ad essere usati nelle corse verso la fine degli Anni ’80, inizio Anni ’90. Probabilmente, ad eccezione del mio, tutti i tavoli da disegno erano già scomparsi dalla F.1 alla metà degli Anni ’90. Il passaggio è stato veloce. Ma in un certo senso non è importante il tavolo da disegno, per me è solo un modo per afferrare i pensieri, buttarli giù con uno strumento, svilupparli con quello stesso strumento e poi, se si tratta di un’idea aerodinamica passarla al Cad e alla galleria del vento. Inoltre io sono fortunato abbastanza da essere nella posizione di avere due o tre persone che scansionano i miei disegni e li trasformano in modelli concreti». Nel 2010, 20 anni dopo aver lasciato Leyton House e la sua CG901 per la Williams, Newey si rese conto che il suo “nuovo” team era pronto per vincere un campionato. Il successo fu ben lungi dall’essere immediato. Perfino al genio di Adrian servì tempo prima di raggiungere risultati in un team che, quando si chiamava ancora Jaguar, era stato così malamente gestito. Ma ora, con la Rb6, il team aveva compiuto davvero una svolta. «La RB5 del 2009 in effetti era piuttosto buona - dice Newey dell’auto che aveva progettato - per la nuova normativa di quella stagione che doveva apparentemente ridurre la deportanza ed era inferiore solo alla BrawnGP col suo controverso doppio diffusore doppio. Sfortunatamente non ci sono classi in F.1, ma la Rb5 era l’auto più veloce... di tutte quelle con un singolo diffusore». «In ogni caso come team la Red Bull era troppo giovane. Vettel era giovanissimo (all’epoca aveva appena 22 anni, ndr), Webber ha guidato bene ma ha avuto un po’ di sfortuna e ha commesso alcuni errori. Come team, poi, stavamo compiendo sbagli da tutte le parti. La macchina non era affidabile, le nostre strategie di gara spesso non erano poi così intelligenti. Avevamo bisogno di un altro anno in prima linea per imparare a fare le cose come si deve». Poi nel 2010, Vettel, la Red Bull e la Rb6 iniziano a far bene, dopo diversi passi falsi lungo il percorso. Formula One World Championship «Ho bei ricordi della Rb6. L‘inizio è stato frustrante, con un sacco di ritiri a causa di sciocchi motivi: il dado di una ruota che si è allentato a Melbourne, Sebastian che è rimasto coinvolto in incidenti forse a causa della sua inesperienza. Poi, però, nella seconda parte dell’anno tutto si è aggiustato». Per dimostrargli la sua gratitudine il proprietario della Red Bull, Dietrich Mateschitz ha fatto a Newey un regalo eccezionale: la RB6 usata in questo test. Il sollievo di Horner è palpabile quando Newey esce dalla sua monoposto e l’abbronzatura ritorna visibile. Adesso nel box sono tutti sorrisi. Newey pareva impegnato alla Woodcote, anche se, come un Coulthard decisamente impressionato fa notare, scalare un paio di marce alla Copse che generalmente si affronta in settima, è un segno rivelatore che lui non è ancora proprio pronto a sostituire Vettel e diventare l’unico progettista-pilota di F.1 dei giorni nostri. «Voi dimenticate quanto è strano anche soltanto sedersi lì dentro. La sensazione di claustrofobia è molto maggiore che nella Leyton House perché i lati dell’abitacolo sono alti, i piedi sono su in alto e i pedali sono diversi: la frizione si aziona con la mano e si frena solo con il piede sinistro. Tutto è molto meno familiare, più estraneo. L’erogazione di potenza è impressionante, come un tremendo calcio da dietro. Anche la Leyton House fa così, ma sulla Rb6 è perfino di più. E naturalmente il rombo del motore è completamente diverso da qualsiasi cosa cui siete abituati, ma tutto questo svanisce dopo un giro; è impressionante quanto in fretta ci si faccia l’abitudine. Sembra quasi di fare un giro al luna park. Arrivare al punto in cui si possono rallentare le cose nella propria mente per guidare l’auto in velocità richiederebbe un bel po’ di tempo». Comunque sia, eri totalmente impegnato, gli diciamo. «Si - risponde con quel sorriso familiare ed enigmatico - Ma anche così so esattamente ciò che devo fare». Quando ti chiami Adrian Newey, hai tutti i diritti di fidarti del tuo lavoro. di Damien Smith   Belle e impossibili Ivan Capelli ha guidato le F.1 griffate newey, nella metamorfosi da march in leyton house, dal 1988 al 1990. Un’esperienza affascinante e estrema Lui sì che Adrian Newey lo conosce bene. Ivan Capelli è legato ai momenti più sorprendenti ed esaltanti del lancio della sua carriera in Formula 1, nell’era delle March-Leyton House, che per il geniale designer britannico si protrasse dal 1988 al 1990. «Newey era votato all’aerodinamica - ricorda Ivan con un pizzico di nostalgia - e qualsiasi elemento della vettura, pilota compreso, doveva essere votato e perfino sacrificato ad essa. Faccio un esempio su tutti: per quanto riguarda i volanti, nei Gp lo stato dell’arte era rappresentato dalla McLaren, che ne usava una padella da 28 centimetri di diametro. Roba bella comoda da manovrare. Ebbene, noi con Newey, visto l’abitacolo angusto e al limite dell’abitabilità, eravamo costretti a usare un volante da 25 centimetri, che, senza servosterzo, doveva essere azionato in tutto e per tutto con la forza delle sole braccia ed era una vera tortura». E le cose si mostravano addirittura peggiori per il compagno di squadra di Capelli, Gugelmin: «Mauricio è uno più o meno alto quanto a me, ma al tempo era ben più robusto di spalle, così per lui era un mezzo supplizio guidare tra dolori e ristrettezze». Per entrare dentro le monoposto di Newey si faceva di tutto, dall’escludere la cucitura delle tute ignifiughe a... «...A fare a meno della cintura sopra l’addome - spiega Ivan -, sulla quale tradizionalmente gli altri stampigliavano il nome del pilota e del gruppo sanguigno. Ogni millimetro andava limato alla ricerca di un’abitabilità sostenibile che restava comunque una chimera». E non finisce qui: «Be’, poi c’era il sedile. In realtà chiamarlo così è una parola grossa, perché si trattava di uno strato sottilissimo di gomma spalmato sul carbonio, quasi simbolicamente. E anche questo acuiva i problemi fisici, perché la schiena risentiva di ogni minima asperità del tracciato. Già nel 1985 con la Tyrrell ad Adelaide avevo preso una bella botta quando mi si era rotto il sedile e con le monoposto di Newey gli acciacchi divennero praticamente cronici». Una vera filosofia costruttiva controcorrente, la sua: «Sì, possiamo dirlo. Era ingegneristicamente ancora acerbo, stupendamente intuitivo ma completamente votato ai riscontri ideali che provenivano dalla galleria del vento e poco incline a calcolare nel dettaglio le conseguenze pratiche delle sue scelte, teoricamente inappuntabili». Formula One World Championship Newey era destinato a diventare uno dei più grandi tecnici nella storia della F.1, eppure incuriosisce chiedersi fino a che punto un pilota come Ivan Capelli, soffrendo, potesse rendersi conto di essere di fronte ai primi passi nella leggenda di un vero genio: «Guarda, ricordo nel 1988, ai primi giri con la sua monoposto, capii d’essere di fronte a una filosofia costruttiva nuova e ben diversa dalle altre. Ebbi la sensazione da lì in poi di guidare vetture pensate da uno che aveva qualcosa in più degli altri. La sua grande fortuna, chiusa la parentesi con la Leyton House - di cui fu prima designer e poi technical director nel biennio 1989-1990, ndr -, fu l’ingaggio da parte della Williams, dove incontrò Patrick Head, che seppe razionalizzare e ricondurre sul piano della sostenibilità pratica gli orientamenti estremi dello stesso Newey». In due parole, qual era il pregio più sorprendente e qual era il difetto meno sopportabile delle monoposto del giovane Adrian? «Esaltavano la velocità di percorrenza di curvoni strappacuore quali il Raidillon a Spa e la sezione retrostante il paddock di Suzuka. In posti come quelli con le sue vetture riuscivi a fare cose che pensavi impossibili perfino da pensare. Quanto al difetto, semplice: era un passo impossibile da mantenere regolarmente nell’arco di un Gran Premio. Fare 300 chilometri negli stessi ritmi sarebbe stato disumano: fisicamente le monoposto di Newey ti permettevano l’inimmaginabile ma ti mettevano kappaò. Non riuscivi a essere costante nell’arco di una gara». di Mario Donnini Da Autosprint n.1-2 del 15 gennaio 2013

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