Marko, il duro della F1

Marko, il duro della F1
Un sasso in faccia al GP di Francia 1972 gli fece perdere un occhio, spezzandogli una carriera luminosa. Lui non s'è arreso, divenendo eminenza grigia della Red Bull, in pratica "braccio destro" del boss Mateschitz, oltre che consigliere di Vettel. Insomma, uno degli uomini più influenti della F1 moderna

16.04.2013 ( Aggiornata il 16.04.2013 13:28 )

Nel paddock della F.1 Helmut Marko è il personaggio più potente tra quelli che per trovarsi lì non hanno investito neanche un euro. Eppure la F.1, mentre era al volante di una Brm nel Gp di Francia 1972, gli è costata, tutt’altro che metaforicamente, un occhio della testa. Così l’amico più automobilisticamente ascoltato di Didi Mateschitz, boss Red Bull, il consigliere più intimo e autorevole di Seb Vettel, si ritrova anche a ricoprire il ruolo di uomo forte dello Young Driver Programme finanziato dalla multinazionale austriaca. L’ex pilota austriaco dal visus dimezzato, paradossalmente, nel mondo delle corse occupa il posto di lungimirante supervisore più importante che c’è. E lo fa con talento, tempra, coraggio e un’innata tendenza ad assumersi le sue responsabilità. Andrea De Adamich, che nel 1972 fu suo compagno di squadra all’Alfa Romeo nel Mondiale Marche, a tutt’oggi non esita a dichiarare: «Marko in pista andava forte, molto forte e come uomo mostrava carattere. A neanche trenta anni d’età era maturo ed era uno con le palle, figuriamoci adesso». Lo stesso Daniel Ricciardo, alfiere Toro Rosso, quando gli si parla di Marko risponde senza problemi: «È uno che può costruirti o distruggerti. Potrebbe far paura, ma non è così perché sa essere allo stesso tempo spietato ma intellettualmente onesto ed è un uomo di un’immensa intelligenza». Un vero duro Marko nella galassia agonistica Red Bull è uno che sceglie netto e parla chiaro. Se c’è da piazzare un ragazzo in un team di una formula propedeutica, tocca a lui l’ultima parola non solo sulla categoria o il team da scegliere, ma anche sul percorso pluriennale previsto, se il baby manterrà le promesse. Ed è sempre lui, parimenti, a staccare implacabilmente la spina a chi ha deluso. Oppure a mettere diabolicamente pressione o salvificamente a toglierla a chi secondo lui ne ha bisogno. A partire dall’ultimo fresco ex kartista fino a Mark Webber, ormai negli anni un suo bersaglio tradizionale, centrato a colpi di «deve mostrare qualcosa di più se vuole conservare il suo posto a fine anno nel team Red Bull F.1». Fin qui la parte emergente dell’iceberg chiamato Helmut Marko. Immenso, ghiacciato, frastagliato e minacciosamente tagliente. Il vero punto è un altro. Qual è la parte immersa, antica, dimenticata, della sua lunga storia nelle corse? Cosa ha contribuito, in anni di vissuto caldo, entusiasmante e a tratti drammatico, a fare di lui l’uomo che è diventato? Compagno di follie di Rindt La sua storia adeloscente inizia nell’Austria di fine Anni ’50 e s’intreccia inestricabilmente con la leggenda di uno dei più grandi e rimpianti campioni della F.1 moderna: Jochen Rindt, del quale è un anno più giovane. Il padre di Marko commercia in materiale elettrico, la sua è una famiglia alto-borghese e, in una città di provincia come Graz, un rampollo come Helmut non può che ritrovarsi nel giro dei boys dell’upper class, con gente quale il futuro campione di trial Stefan Pachaneck, il rampollo della omonima dinastia della birra austriaca Helmut Reininghaus e un estroverso ragazzotto, nativo di Magonza, in Germania, ma austriaco di adozione, che si chiama appunto Jochen Rindt, erede dell’impero Klein & Rindt, industria di condimenti e spezie che nella seconda guerra mondiale riforniva la Wehrmacht, dando sapore alle razioni dei fanti. Avendo perso i genitori nei bombardamenti di Amburgo del 1943, Rindt a un anno d’età viene adottato dai nonni e va a vivere in Austria. Ecco, ancora minorenni lui e Helmut Marko sono fondamentalmente due ragazzi fuori controllo. Già noti alle forze dell’ordine, selvaggi, indisciplinati e senza paura, i due, ancor privi di patente, si producono in duelli stradali stile “Gioventù Bruciata”. Jochen sgomma con una Simca Montlhéry, Helmut lo insegue al volante della vecchia Chevrolet paterna, di notte, nelle strade che collegano Graz a Bruck. In uno di questi pazzi riti d’iniziazione Marko alle 4 del mattino, nel tentativo di evitare un autotreno mentre procedeva contromano, polverizza la Chevy contro una roccia e affronta l’ira funesta del padre, sintetizzabile in un semplice concetto: Helmut non avrà mai un centesimo per correre. Tantomeno in pista. E se vorrà farlo, dovrà andare avanti da solo. Poco dopo stesso destino per Rindt, che squaglia la Simca del nonno contro uno spazzaneve. I due, neopatentati e anche no, si rivedono su una malconcia Vw per andare a seguire da spettatori il Gp di Germania di F.1 1961, sulla Nordschleife e lì a entrambi la passione per le corse divampa e gli va in evoluzione 2. Marko, il pilota venuto dal nulla Jochen comincia coi rally e con le salite, correndo su un’Alfa Romeo Giulietta Ti preparata da Conrero, mentre Helmut si battezza in moto, in gare locali enduro. Niente di che. Poi la parabola di Rindt s’impenna: vince la 24 Ore di Le Mans nel ‘65, approda in F.1 e procede vorticosamente fino a quel maledetto giorno alla Parabolica di Monza, quando la sua Lotus impazzita si schianta rubandogli la vita ma non il titolo di campione del mondo di F.1 postumo. Per Marko il cammino è più lento e sinuoso ma con la stessa direttrice che punta verso i Gran Premi. Nel 1967 acquista una Austro, la sua prima monoposto, per la F.Vee. Il giovane austriaco, nel frattempo neolaureato in giurisprudenza, ci sa fare fuori e dentro la macchina, facendo quadrare i conti, perché la famiglia, inflessibile, non lo aiuta. Nel 1969 è in gara con la McNamara F.3 e si cimenta anche nelle gare Turismo e Sport, mostrando un manico sopraffino. Lo chiama Hans-Dieter Dechent, ex pilota poi boss del team Martini nell’endurance, il che significa diventare pilota ufficiale Porsche. Sulla terribile Spa stradale di 14 km il giovane austriaco è il più veloce tra tutti i piloti della 908. Poche storie, Marko sta sfondando. Il 1970 è l’anno della svolta. Nell’EuroTurismo è in gara con la Bmw Alpina - per lui c’è una vittoria al Salzburgring - e oltre al Mondiale marche bazzica pure l’Interserie, sempre con una Porsche 908, e pure la serie Springbok sudafricana di fine anno, con una Lola T210. Mentre Steve McQueen sta girando il film sulla 24 Ore di Le Mans, Marko è sorprendente terzo alla Sarthe, sulla fida 908 in coppia con Rudi Lins. E siamo solo all’antipasto, perché l’anno dopo nella classicissima francese, il pilota austriaco entra nei libri di storia. Il trionfo alla 24 Ore di Le Mans 1971 Okay, Le Mans 1971. Stavolta Marko, in coppia con Gijs van Lennep, fa saltare il banco, trionfando a 222 Km/h di media e percorrendo 5335 chilometri in 24 ore, un primato sulla distanza che reggerà per 39 anni secchi, grazie anche alla modifica e al rallentamento del tracciato dal 1972. Eppure il fascino di quell’exploit velocistico resta a tutt’oggi intatto. Nel dopo corsa, Ferdinand Piech, membro nobile della famiglia Porsche, gli fa i complimenti e rivelandogli che quella di Marko era la 917 più candidata a fermarsi prima del tempo, perché dotata a insaputa dei piloti di un telaio sperimentale alleggerito e altamente infiammabile, sulla cui tenuta aleggiavano fondati dubbi. Ancora oggi Marko ricorda con una punta di humour: «La verità è che la Porsche 917 era una vettura realizzata ancora artigianalmente. Ne ho guidate diverse e non ce n’era una che si comportava esattamente uguale all’altra. Però, se la mettevi a punto bene, poi c’era da divertirsi davvero. Anche se viaggiare a Le Mans sull’Hunaudieres carezzando i 400 Km/h solo con un po’ di fibra di vetro a proteggerti, davanti ai piedi, non creava proprio una situazione di totale tranquillità». Il debutto in F.1 nel 1971 Il 1971 segna la stagione del decollo definitivo. Nell’Euro 2000 per vetture Sport, al tempo una platea di rango, si mette in evidenza con la Lola T212 dell’indimenticabile Jo Bonnier, quindi prova a prendere la partenza al Gp di Germania con una McLaren-Brm, ma la gioia è rimandata alla corsa di casa, a Zeltweg, dove debutta in F.1 su una Brm P153, lo stesso giorno in cui il connazionale Niki Lauda, di sei anni più giovane di lui, esordisce nel Circus con una March. Il provino spacca, se è vero che Louis Stanley, patron della Brm, decide di ingaggiare Marko per il 1972, col team nobilitato dalla sponsorizzazione Marlboro. Sembra l’anticamera di un decollo vorticoso verso traguardi da antologia, perché arriva perfino la chiamata dell’Alfa Romeo per il Mondiale marche. Morale, in una gara non valida per il campionato di F.1, è 4° a Interlagos, quindi straordinario secondo alla Targa Florio. E attenzione perché all’Osterreichring è 2° in coppia con Carlos Pace su una Ferrari 312 Pb. Ormai si parla di Marko come possibile pilota di Maranello per il 1973. E gira voce anche di un’opzione da lui già firmata con la Ferrari. L’austriaco nel futuro del Cavallino potrebbe essere lui e non l’ancora semi-sconosciuto Niki Lauda, ma poi il destino decide diversamente. Il dramma di Clermont-Ferrand La smazzata che gli spezza la carriera cambiandogli la vita si gioca al Gp di Francia 1972, a Clermont-Ferrand, dove al via Marko è autore di una partenza demoniaca che lo vede viaggiare nel gruppo di testa. All’8° giro, però, quando è in zona punti, la March di Peterson gli spara un sasso che lo colpisce nella visiera, sfondandogliela e lesionandogli l’occhio sinistro. Il resto lo racconta lui: «Sento un dolore terribile e capisco che sono nei guai. Sto per perdere il controllo, ma so che devo mettere la macchina in sicurezza, perché il 12 cilindri Brm è molto assetato, ho un oceano di benzina a bordo e dietro di me sta arrivando tutto il mucchio selvaggio, visto che viaggio con quelli davanti. Riesco a fermarmi in un posto sicuro, a scendere dalla monoposto e poi svengo. Arriva il mio amico Vic Elford con una Vw-Porsche 916, che per l’occasione era la medical car, e mi porta al centro medico del circuito. E qui purtroppo le cose vanno male, perché provano a fare qualcosa mettendomi dei liquidi disinfettanti che peggiorano la situazione del mio occhio sinistro. Quindi l’ambulanza, la corsa in ospedale, il trasferimento in un altro nosocomio, fatto sta che prima delle 22 nessun specialista oftalmico mi visita. Per il mio occhio non c’è più niente da fare, la mia carriera di pilota finisce qui. Peccato davvero, anche perché con le moderne tecnologie laser sarei guarito: avrei potuto continuare a vederci e a correre senza problemi. Ho solo un rimpianto. La mattina del Gp di Francia nel team parlammo della mia posizione di guida, troppo alta. Di taglia non sono un fantino e col casco stavo addirittura sopra il roll-bar. Decidemmo di non fare nulla e di aspettare la gara successiva per abbassare la seduta. L’avessimo fatto in tempo, la mia esistenza sarebbe stata diversa, ma penso che nella vita di tutti ci sono dei se e dei ma...». Il pilota diventa libero pensatore Il resto, comunque, è vita. Senza casco, ma con le stesse palle. A Graz per anni gestisce i suoi due alberghi, lo Schlossberghotel e l’Augartenhotel, ma resta collegato alle corse facendo da manager prima al giovane Gerhard Berger e poi a Karl Wendlinger. Quindi l’avventura da team manager in F.3000 con la Rsm Marko e il trionfo nel campionato 1996, con Joerg Muller.È solo l’anticamera della sua entrata nella galassia Red Bull, nella quale, ormai da tre lustri pieni, è pianeta attorno al quale orbitano decine e decine di giovani piloti in veste di satelliti. Offeso dalla sorte, volitivo, tenace e spietato, con gli altri come con se stesso, Helmut Marko, dai giorni in cui correva di notte per strada col compagno di scuola Jochen Rindt, è restato il duro che era. Uno che nel 1972 non ha sbagliato un colpo. Sì, ha chiuso un occhio, ma ha sfruttato la cosa: da allora con la vita ha preso meglio la mira, facendo centro. di Mario Donnini da Autosprint n.15 del 16 aprile 2013 Marko 2Marko 3

  • Link copiato

Commenti

Leggi autosprint su tutti i tuoi dispositivi