Grande Charles, ma il vero trionfatore del Gp del Belgio è il team principale della Ferrari, artefice di una Sf90 stile razzo e di una squadra mai così stupenda nel gioco di squadra
Fatevene una ragione. Spa F.1 2019 è il gran giorno di Mattia Binotto, l’uomo gentile dagli occhiali rotondi nonché con i capelli a stelle filanti e rastremati a culo d’anatra. Tutti a guardare Charles Leclerc, a fare festa, a ridere e piangere con lui e non solo per lui. Sì, d’accordo, ci sta, ci mancherebbe altro. Però questo che sfogliate e leggete è un settimanale, mica un tweet, e allora l’imperativo resta quello d’andare oltre. Al di là.
Superando l’impatto agonistico-emotivo del momento e le endofine della festa, tanto felice e anche un po’ triste. E allora dico e scrivo una cosa semplicissima: il vero trionfatore del weekend delle Ardenne, in realtà, non guidava UNA Ferrari, ma guida LA Ferrari tutt’intera e risponde al nome e al cognome di Mattia Binotto. Sì, l’attaccatissimo, ex svalutatissimo e già frecciatissimo, Mattia Binotto, da linciatissimo a lanciatissimo, che in un fine settimana capolavoro sul tracciato più difficile e terribile del mondiale ottiene una delle vittorie più importanti, stravolgenti e significative, sparando in cielo un segnale potentissimo, in una classica-monumento del mondiale. Tale da far planare il campionato verso Monza in un clima di tripudio e esaltazione mai così vivificanti, in un’annata penitenziale e fin qui pestilenziale.
Stagione tuttavia per niente sprecata, perché durante questi mesi Mattia, evidentemente, ha fatto tesoro di tutto ciò che ha vissuto, visto e sofferto al muretto, riuscendo a cambiare ciò che andava cambiato, non solo nella squadra ma anche nella monoposto, nell’alchimia della gestione gara, nell’equilibrio psichico-politico imperante tra i suoi piloti e anche, a completare l’opera, adattando se stesso alla nuova sfida.
La SF90 doveva diventare più tosta, affinarsi, estremizzarsi divenendo affidabile, per riuscire a sfidare e a battere le rivali, evitando finalmente cavalacate disperate e disperanti alla Dorando Pietri, con licenza e rispetto parlando, vedi Bahrain, Canada e Austria. E ci riesce, sui sette chilometri e quattro metri più spietati e probanti del campionato, correndo da protagonista assoluta, in fuga tra libere, qualifiche e gara. Senza mai mancare un colpo, evitando tosse o ansia da palcoscenico, per una Rossa mai così priva di rossori.
E se la monoposto sa recitare a Spa il ruolo di grande protagonista, dopo aver sofferto non ovunque ma spesso, è la prova che la squadra sa reagire, crescere, scegliere e tornare in gioco quando il gioco oltre che duro si fa iperselettivo, sia di telaio che per power unit. Per questo, grande Mattia Binotto.
Poi c’è un’altra cosa, che è rara assai in natura, nelle corse e nella vita, e si chiama duttilità mentale, capacità d’adattamento, visione tale da valutare la realtà adeguandosi a essa. La Ferrari di questo recente strano, drammatico e claustrofobico biennio nel giro di poco tempo perde per sempre il Grande Timoniere Marchionne, vive la crisi umana e agonistica di Vettel, decide di far a meno di Arrivabene e si affida a Binotto che sulle prime non può che riconoscere galloni, autorevolezza e chance da capitano a Seb, tanto da concedergli per tutta la prima parte della stagione 2019 chance, piani di battaglia e status da prima scelta.
Ma, quando si rende conto che ad averne di più è Charles, Binotto non s’impunta. Non fa come certi allenatori che continuano in maniera ottusamente e odiosamente salmodiante a riproporre lo stesso schema all’infinito. No. Si adatta. Diventa malleabile. Non esalta né umilia nessuno, ma crea le condizioni per riconoscere dapprima meritocratica pari dignità tra i suoi alfieri e, infine, pone in essere il passo più difficile, di fatto riconoscendo i galloni di primo pilota a chi più li merita. Senza pregiudizi. Senza paraocchi. Facendo sfoggio di galantomismo modulare, ma anche di intelligenza politica.
Della serie, la Ferrari ha un primo pilota ed è quello più bravo giorno per giorno. Senza preconcetti. In altre parole, la flessibilità del Capo a vantaggio dei sottoposti. Per questo, grandissimo, Mattia Binotto.
E siamo al punto tre della faccenda. Quella relativa alla capacità di creare una nuova alchimia di squadra, non rinunciando né tantomeno smobilitando il numero uno di prima, ossia Vettel, ma, al contrario, riconvertendolo in arma micidiale per mettere la nuova punta di lancia Leclerc in condizione di pungere e fare davvero male ai rivali. Perché, attenzione, a Spa senza l’utilizzo di Vettel medesimo in funzione di nobile tappo e marcatore a uomo di Hamilton, mai e poi mai Charles sarebbe riuscito a condurre in porto il trionfo belga con la disarmante freddezza mostrata negli ultimi minuti di gara.
Senza nulla togliere al trionfo attesissimo e meraviglioso del ragazzo, anzi, dell’uomo Leclerc, la vittoria di Spa-Francorchamps è una delle più colletivizzabili, divisibili, plenarie e condivise dalla squadra in novant’anni di vita della Scuderia Ferrari, ossia da quando il marchio di Costruttore manco esisteva. In fondo il trionfo in pista di Charles con la SF90 che filava in rettilineo come un Mirage puntato verso New York, è frutto complesso e sincronico di un lavoro d’insieme meraviglioso, allo stesso tempo tattico, tecnico, politico, pilotico e perfino esistenziale.
Era dal Gp di Sepang 1999 che non si vedeva un pilota partito da numero uno nella gerarchia Ferrari, mettersi a lavorare stupendamente a esclusivo vantaggio dell’ex numero due. Capitò in Malesia tra uno strepitoso e rientrante Schumacher nei confronti del lanciatissimo Irvine pre-Suzuka ed è capitato stavolta con un Vettel utilizzato come stopper e uomo d’interdizione nei confronti della punta avversaria scatenata a rete, rispondente alle fattezze in altri momenti terrorizzanti di Lewis Hamilton. Con Mattia Binotto capace di evolvere nella capacità di gestione, dando vita - sia ben chiaro, assieme ai suoi, nessuno escluso -, a un gioioso meccanismo in grado finalmente di dare scacco agli avversari.
Perché il tempo che in corsa Seb ha fatto perdere a Lewis somiglia tanto a quello con cui Charles ha preceduto sotto la bandiera a scacchi il Pentacampione. Per questo, appunto, Spa 2019 va letta e decifrata come vittoria complessa, speciale e tutta da assaporare. Una pietra miliare, auspicabilmente, per la Ferrari, nella quale, per una volta, svaniti i fumi della festa, vale più la pena concentrarsi sul mandante che non nell’esecutore. Perché questa Ferrari di Mattia Binotto in Belgio non ha vinto solo grazie alla prodezza di un ragazzo, ma sfoggiando uno schema, una filosofia, un dosaggio di vita agonistica, un sistema nuovo e una capacità di gestione che lanciano messaggi esaltanti per l’imminente Monza, ma anche per tutto ciò che da lì in poi verrà.
Su questa rubrica e in queste righe avevo chiesto al Cavallino Rampante la spietatezza di fare un atto di forza, chiamando un Grande Bastardo al fianco del galantomista Mattia Binotto, forse troppo buono per asfaltare tutti, al di qua e al di là della plancia di comando. Lui a Spa ha risposto a modo suo. Con i fatti e con stile, sfoggiando un atto d’intelligenza. Meritorio, netto, da gustare e rileggere con la calma dovuta, appena posatisi i coriandoli. Verranno altri trionfi, okay e magari saranno ascrivibili a Leclerc o magari a una revivescenza orgogliosa di Vettel, chissà. Ma questo, il CAPPOTTO DI KEMMEL confezionato, fatto e regalato a Wolff, ricordatelo soprattutto come un capolavoro di Mattia Binotto e dell’elasticità della sua testa.
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