Le Mans ’66, la grande sfida è già vinta

Le Mans ’66, la grande sfida è già vinta

Quasi una pagina diaristica dell’esperienza unica data dalla visione esclusiva e anticipata di quello che viene annunciato tra i film più importanti nella storia  delle corse  e non solo. Opera attesa come una sorta di Ferrari Vs Ford, che invece brilla e commuove per il suo Umanesimo rombante

07.10.2019 10:19

Giaccio sprofondato sulla poltroncina azzurra di un mini-cinema da venticinque posti a Roma, presso la sede della 20th Centyry Fox, reduce dalla visione in gran segreto, in grande anticipo e con grande emozione, dell’attesissimo film “Le Mans ’66-La grande sfida”, diretto da James Mangold.

Siamo ai titoli di coda, dopo due ore e mezzo di proiezione letteralmente volate via e mi sento addosso una voglia matta di mettermi a scrivere per farvi sapere cose non di questo film, ma su questo film. 

Perché, per precisi accordi e nondimeno in ossequio a una dovuta forma di correttezza, non ho alcuna intenzione di sparare spoiler, discovery o rovinose anticipazioni, ma solo d’andare oltre e ben al di là della trama, per produrre una serie di riflessioni magari in grado di prepararvi e farvi gustare appieno le potenzialità di un racconto importante, che è tutta una lunga, stordente, sporca, dura e cruda poesia dell’Uomo contro il Sistema. 

Facciamo così: dimenticate Ford contro Ferrari, Le Mans 1966 e le corse. Lasciate stare Henry Ford II, Lee Iacocca e Enzo Ferrari, più la partecipazione straordinaria di Gianni Agnelli. Corporation e capitani d’industria sono figuranti, in fondo, e le macchine da sogno, ossia le Gt40 nonché le temutissime e bellissime Rosse, fungono solo da odalische metalliche flessuose e ammalianti, ma nient’altro, per una volta.

Perché “Le Mans ’66-La grande sfida” realizza perfettamente quello che è il bersaglio mancato dell’io narrante di migliaia e migliaia tra registi, scrittori, giornalisti e entità mediatiche che da oltre un secolo si occupano di corse e cronaca o storia delle corse e s’arrovellano incaricandosi di raccontare, affabulare e dipingere il Motorsport svelandone l’intimo senso.

E, aggiungo, mancando il più delle volte il bersaglio, poiché si perdono puntalmente tra bulloneria tecnologica, retorica rombante, tromboneria rutilante o sciatteria ricca di rischi folli, incidentoni, coraggio muscolare e tragedie spaventevoli per impressionare sartine da neorealismo profumate di lavanda.

No, “Le Mans ’66-La grande sfida” finalmente va al cuore della questione, concentrando direttamente, coraggiosamente e sorprendentemente il laser dell’io narrante sull’Uomo. Punto. Scoprendo e riscoprendo il Motorsport classico e con esso i suoi nomi più amati, patinati e altisonanti come semplici occasioni magnetizzanti per portare direttamente e sorprendentemente proprio l’Uomo, anzi, un uomo, al centro di gravità reale di tutta la storia, che non ha nulla a che spartire con gloria, soldi, fama, sfide epocali o chissaché.

Il vero protagonista è una persona semplice, punto. Presumibilmente, anzi, sicuramente, il meno ricco di tutto il film. Ha gli anni del pilota finito, la carriera del campione mai cominciato, una vicenda personale ricca di storture, fallimenti e incomprensioni con tanti se non con tutti. Ma dalla sua vanta un che di particolare. Talento allo stato puro, unito a un codice morale che gli impedisce d’essere unto, felpato e leccaculo.

Uno così, inserito in un sistema, può far cambiare la storia. Mettendo in crisi il sistema stesso o, paradossalmente, salvandolo. La portiera della sua Ford Gt40 che non vuole saperne di chiudersi nelle prime, convulse fasi della 24 Ore di Le Mans edizione 1966 sembra tanto la farfalla che sbatte le ali a Pechino rischiando di far crollare la borsa a New York. 

Quest’uomo si chiama Ken Miles.

Non vi dico altro, sul film.

Però, adesso che lo schermo torna buio e la poltrona abbastanza comoda da farmi fermare a pensare, dico che sarebbe bello applicare la filosofia di “Le Mans ’66-La grande sfida” alla nostra vita di inguaribili tifosi e appassionati di questo Sport, per andare a vedere e scoprire quali sono, per ciascuno di noi, i piloti, ossia gli uomini, che più ci hanno colpito, andando contro il Sistema. Facendo il salto sportivo-esistenziale importante, incarnato da un semplice ma tonitruante quesito che qui vi propongo, cioè questo: e se la parte più calda, indimentiìcabile, bastarda e meravigliosa dell’intera storia delle corse fosse proprio incarnata dalla sfida Uomo contro Sistema? 

Cosa accadrebbe se per una volta smettessimo di guardare i Gran Premi e le classicissime più belle dell’automobilismo non come sfide tra piloti o tra bolidi, ma alla Terminator, ossia uomini contro bolidi, ovvero individuo contro struttura e/o sovrastruttura? Così facendo, che so, smetteremmo di interpretare l’automobilismo come il paradiso della brugola, addentrandoci piuttosto nei meandri psicanalitici dello scontro titanico di personalità tra Fangio e Ferrari nel 1956 o di Musso contrapposto agli amici-complici Hawthorn e Collins nel 1958 o di Surtees che perde il mondiale 1966 perché al Drake mette più piacere di cacciarlo che di vincere. 

Ma andiamo oltre. Rindt che scrive a Chapman chiedendo (inutilmente, ahilui)  più sicurezza, Fittipaldi alla Lotus rovinato da Chapman medesimo nel 1972, quando s’innamora sportivamente di Peterson, Regazzoni lasciato in braghe di tela dalla Ferrari al Glen 1974, snobbato nel 1975 e quindi abbandonato al Fuji 1976, con conseguenze devastanti.

Vado avanti a senso e mi appare Reutemann perculato dalla Williams nella stagione 1981 sol perché non prono agli ordini di scuderia e costretto per tutto l’anno a correre contro la sua stessa squadra e il compagno Alan Jones che lo fottono a Las Vegas 1981, nel finalone, quando quest’ultimo dal podio afferma sorridendo al neocampione del mondo Piquet: “In gara doppiare Reutemann in totale crisi emotiva è stato semplicemente meraviglioso”.

E di Villeneuve preso nelle maglie del sistema Ferrari l’anno dopo, fino all’epilogo tragico di Zolder, se ne parla e ne riparla da sempre. 

Ma meriterebbe il cono di luce del palcoscenico sublimante anche Eddie Irvine, infilato pericolosamente nel sistema di potere Schumacheriano della Ferrari 1999 e vicinissimo a vincere un titolo mondiale che da solo ridimensionerebbe ruolo, importanza e futuro in Rosso di tante persone molto importanti. Un Eddie Irvine, al quale verso la fine, dicevo, finisce col mancare una gomma in un pit stop e soprattutto attenzioni, vere, aggiornamenti e una spinta in più perfino all’ultimo Gran Premio, fino a che quell’alloro mondiale, divenuto così scomodo, lo va a perdere e contenti tutti. Tutti no. Ma tutti quelli che contano, sì. E, verrebbe da dire pure che solo se Leclerc, Vettel e Binotto saprenno fare squadra e sistema tutti insieme, uscitranno incolumi e forse vincenti dallo snodo di storia che vive ora la Ferrari in F.1.

Insomma, attenzione, perché “Le Mans ’66-La grande sfida” è un film dal passo lungo e dalla miccia corta e quando deflagra fa rumore, scuote, sposta e, raccontando una storia tutta vera e tutta sua, suggerisce perfino un metodo, una sensibilità d’analisi e una chiave di lettura di tanti momenti fondanti della storia dell’automobilismo più o meno recente.

Nello stesso tempo, volando sul piano squisitamente cinematorgrafico, è bello, dolce e anche carezzevole pensare che in questo periodo fecondo tre film su tre sfornati dal paradiso dei sogni a stelle e strisce mettano gli outsider per protagonisti.

Perché se di fatto il beatnik Ken Miles (ossia l’attore premio Oscar Christian Bale) è il vero trionfatore di “Le Mans ’66-La grande sfida”, con la sua meravigliosa storia d’amicizia con Carroll Shelby (Matt Damon), Cliff Booth (ovvero lo stuntman impersonato da Brad Pitt) giganteggia in “C’era una volta a Hollywood” sull’amico attore in declino Rick Dalton-Leonardo DiCaprio e Joaquin Phoenix è fascia meravigliosamente marginale nel disturbante e sorprendente “Joker” di Todd Phillips.

Uomini quali ingranaggi dolenti ma reattivi verso il meccanismo. Questo è il senso di tutto. “Le Mans ’66-La grande sfida” avrebbe tutto per essere una sorta di guerra mondiale tra grandi marchi, Ford Vs Ferrari, invece si rivela stupendamente quale storia di due vecchi amici che si trovano ad affrontare una sfida nella quale sono i soli a non dimenticare il senso dei sentimenti più veri e profondi.

Se ne esce commossi, da “Le Mans ’66-La grande sfida”, rabbiosi e un po’ felici d’essere tristi. Non solo vi consiglio d’andare a vedere il film, ma v’avviso: se lo fate, rischiate terribilmente di tornarci. 

Buona visione quando sarà e, magari, buon ritorno. Sì. “Le Mans ’66-La grande sfida” andrò a rivederlo assieme a voi, a partire dal 14 novembre, col gusto di riguardarmi tanti episodi e momenti di storia delle corse e anche con l’Umanesimo e i codici interpretativi delle realta che il film stupendamente suggerisce. 


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