Non vedo l’ora che Hamilton raggiunga Michael a quota 7 titoli mondiali. Perché l’alloro che il Kaiser ha ora di vantaggio è nient’altro che il premio avuto a fine 1994, a seguito dello scandaloso finale di Adelaide. Ghermendo un campionato che spettava a Damon Hill. Onore, rispetto e affetto per il tedesco for ever,
ma non certo per ciò che combinò in quella stagione...
E adesso Lewis Hamilton con sei iridi in saccoccia dice che sta preparando un capolavoro e c’è da credergli. D’altronde sta andando ad ampie falcate verso un 2020 che ripropone di fatto lo stesso scenario tecnico e umano di quest’anno e proprio non si vede perché non dovrebbe essere lui il favorito pure al settimo sigillo iridato personale. Traguardone che riscriverebbe non solo la cronaca e la storia della F.1, ma soprattutto la leggenda, eguagliando l’eptaprimato del Kaiser Michael Schumacher, con facoltà d’andare perfino oltre.
Ecco, qui ed ora non si tratta di tifare o meno per questo o quello. La faccenda non è personale. Anzi, dirò quello che sto per dire col massimo rispetto nonché totale e commosso affetto non solo per ciò che la figura di Michael Schumacher rappresenta e ispira nell’enciclopedia sportiva, emotiva ed esistenziale del Motorsport, ma anche con convinta e toccata empatia per tutto ciò che la sorte ha riservato e riserva a lui e alla sua stupenda e unita famiglia, Mick in testa. Il punto è un altro. Ci sono cose da dire e penso vadano dette.
Anzitutto continuo a essere dell’idea che i dodici titoli mondiali consecutivi dell’era turboibrida Mercedes non valgano - alla barba della matematica - gli undici dell’epopea aspirata a 10 cilindri della Ferrari di Schumi, perché questi ultimi furono conquistati sfidando team rivali ben più agguerriti e con regole che mutavano le carte in tavola di continuo, mentre di questo passo, continuando all’infinito a correre con questi tram di quasi 6 metri dotati di cicchetti elettrici, i tedeschi e i loro piloti vincerebbero e vinceranno anche 50 iridi di fila. Perché la vera concorrenza è rappresentata solo dalla Ferrari, partita sei anni fa con almeno mezzo lustro di ritardo tecnico, in quanto a Maranello di elettrificato alla radice ne capivano quanto Kit Carson della processione del Venerdì Santo. Per tacere della Honda, arrivata a festa stracominciata, che ci ha messo una vita ad entrare nel ritmo del ballo e adesso chissà.
Ma torniamo al motivo di questo pezzo. I sei legittimissimi titoli di Lewis Hamilton - sì legittimi perché non ha mica colpa lui nelle sperequazioni del turboibrido e poi comunque ha vinto ma anche perso da un rivale in Mercedes, nel 2016 - contrapposti ai sette di Michael Schumacher, uno dei quali resta roba di cui è sportivamente lecito solo vergognarsi.
Perché la pestilenziale, intenzionale e scandalosa sportellata rifilata alla Williams di Damon Hill - togliendolo dolosamente di gara dal Gp d’Australia ad Adelaide 1994 -, quando Michael era già andato a barriere rovinando la sua, di corsa e le sue, di aspirazioni iridate, rappresenta una ferita aperta nella storia della F.1 e dello Sport. Tra l’altro un atto gravissimo antisportivo mai sanato, mai formalmente rinfacciato né minimamente sanzionato dalla Fia, che apre e subito chiude a caldo un’inchiesta sulla faccenda, considerandola mero incidente di gara. Stupefacente. Folle. Una presa per il culo vera. Con Schumacher che dichiara, nascondendo la mano dopo aver tirato il sasso: «Non è stata certamente una bella conclusione, non sono riuscito a controllare la vettura. In quel momento ero così preso dai miei problemi, che non ho guardato lo specchietto e quando ho visto sopraggiungere Hill era ormai troppo tardi. Mi avrebbe potuto sorpassare più avanti, sfruttando la situazione». E Briatore, aggiunge, alla Briatore: «Sicuro che Michael l’ha visto. Ma chi ha perso il Mondiale è Damon. Se avesse visto che Michael era in difficoltà, alzava il piede dall’acceleratore e passava. Per cui non ha meritato il titolo».
Maddai. La squadra, ossia la Benetton sospettata gravemente di avere l’antispin in camuffa, indagata per le stranezze al launch control, pescata dopo il rogo di Hockenheim del papà di Verstappen - meno male che incruento -, senza un filtro nell’apparecchiatura di rifornimento dell’Intertechnique, la monoposto col pattino troppo raspato a Spa e tolta di classifica e recidiva poiché guidata dal pilota che aveva ignorato la bandiera nera a Silverstone e quindi plurisqualificato... Cioè, voglio dire, tirate le somme di questa squisita compagnia cantante, arriviamo ad Adelaide e viene inscenato l’epilogo più inaccettabile, nauseante nonché rubereccio in tutta la storia dello sport a motore e tutti zitti?
Poi, guarda caso, questo alloro non è che conti poco o solo per se stesso, ma diventa - e di questo Michael mica ne ha colpa, ma le cose stanno ahimé proprio così -, ma diventa, dicevo, la gettata fondante, la base, il piedistallo infrastrutturale del record dei record. No, guarda, quando sento dire che Hamilton è a caccia ora del primato dei primati di Schumi, mi viene da ridere, perché la verità sportiva incontrovertibile è che Michael ha vinto legittimamente sei titoli e non sette e Lewis, ragionando qualitativamente e sportivamente, a questo score c’è già arrivato nel recente pomeriggio di Austin. E adesso che nessuno venga a dirmi che sto applicando a un’era passata i dettami ben più polizieschi, sorvegliati e stringenti del presente, perché tutti sanno che non è così. Questo si può dire quando Jones al primo via di Montreal 1980 attacca malamente il rivale per il titolo Piquet contro il muro, costringendolo a partire poi con un muletto dal motore spompato, che presto rende l’anima e consegna l’iride all’australiano. Sì, quella era un’era filosoficamente diversa, nella quale imperava la legge del menga e per cortesia evitatemi di sciorinare la rima con menga. Il 1994 no. Era l’anno della morte di Senna. Della Grande Presa di Coscienza. Ed anche, magari lo cito del tutto casualmente, neh, giusto per non trascurare nessun elemento, del grande rapporto tra Michael e il suo pigmalione Bratore che aveva un’immensa amicizia col padrone della F.1 Bernie, il quale mai come in quel periodo andava d’accordo col Presidente della Fia Mosley e non posso certo aggiungere la chiusa alla Branduardi “che al mercato mio padre comprò” perché questa non è la canzone la Fiera dell’Est, ma la Formula Uno del 1994 e quella volta nessuno aveva comprato nessuno. Zero. Semplicemente, a quel punto ci si guardò tutti nelle palle degli occhi e si decise che Michael in fondo era stato abbastanza figlio di buona donna da meritarsi quel mondiale e Damon Hill - la vera rivelazione di quell’anno, con un trionfo sotto la pioggia battente di Suzuka la cui visione andrebbe tuttora resa obbligatoria nei licei, nelle sale d’aspetto degli aeroporti e pure nelle sale riunioni dei corsi di guida sportiva - sì, appunto, Damon Hill alla fin fine era stato troppo onesto e boccalone, così ciao cocco, fatti furbo pure te, la prossima.
Una ladrata senza ladri, quindi. Un furto senza effrazioni. Ma una refurtiva che ora fa mappo e scrive la differenza, un quarto di secolo dopo, nella sfida delle sfide, tra il Grande Detentore Michael Schumacher e The Great Pretender Lewis Hamilton.
E non mi venite a dire che mi straccio le vesti per niente, visto che Prost e Senna nel 1989 e nel 1980, stessa spiaggia e stesso mare, a Suzuka avevano fatto rispettivamente uguale o peggio. Oh yes, è verissimo, si trattò di due momenti non meno irrespirabili, ma in quel caso, a sanare il tutto, in saecula saeculorum amen, ci ha pensato il principio della compensazione, perche Alain e Ayrton, fregandosi un titolo ciascuno, alla fine è come se non ne avessero inficiato nessuno, a prescindere dall’aiutino mica tanto carino del presidente d’allora Balestre al connazionale Alain. Quand’anche la Ferrari e soprattutto Cesarone Fiorio avrebbero - e lui ha tuttora - montagne di rimpianti e ragioni comunque da far valere per aver preso una tramvata senza colpa, alla curva 1 di Suzuka 1990, legnata pur’essa impunita che cambiò la vita e la storia di quel Cavallino. Fatto sta che nel 1997 alla curva Dry Sac di Jerez Schumi prova a rifare lo scherzetto di Adelaide 1994 non più a Hill bensì alla Williams di Jacques Villeneuve, ma stavolta viene giù il teatro con tanto di maschere e loggione e poco ci manca che al tedesco non gli tolgano pure la licenza da pesca e la tessera del Club del Libro.
Perché era un aridaje, perché perfino Bernie & Mosley buttarono là un mo’ basta, perché la verità poco popolare ma sacrosanta è che l’impresentabile sportellata di Adelaide 1994 ancora gridava vendetta, sportivamente sanguinava e, per come sono poi andate le cose, la grida tuttora. Tanto che Damon Hill, a fine 2012, al momento del definitivo ritiro dalle corse del caro Michael, se ne esce con una delle battute più belle da Omero a Oscar Wilde: «Saluto Michael Schumacher, top driver che ha lasciato grandi tracce nella storia delle corse, parecchie delle quali sulla fiancata della mia Williams».
Per questo, ribadisco il concetto: a titoli buoni e giusti, Hamilton, dopo Austin, è già sei a sei con Schumi. E nel mondo dello Sport con la maiuscola, se vince anche l’anno prossimo, vuol dire che come Campionissimo, per quanto i confronti tra epoche diverse son disomogenei, eccetera eccetera, bla, bla, altro che pari: Hammer gli sarà già idealmente davanti.
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