La Ferrari per le Mans è una realtà che fa sognare

La Ferrari per le Mans è una realtà che fa sognare

Desta sensazione e speranza la stupenda 499P

31.10.2022 12:12

La Ferrari 499P non è solo un prototipo, ma miccia e dinamite di una possibile rivoluzione esplosiva e destabilizzante. Perché il Cavallino che torna alle corse di durata lottando per l’assoluta, dopo mezzo secolo d’assenza, è la realtà più tellurica, sommovente e geneticamente mutante degli ultimi cinque decenni di corse. Le prestazioni si giudicheranno con i cronometri e i risultati si vedranno in pista, ma i dati politico-strutturali funzionano da subito, hanno effetto immediato e producono conseguenze a lunga gittata.

La Ferrari è la più grande, unica e vera potenza costitutiva delle corse di durata, con nove mondiali nella classe maggiore vinti nelle prime undici edizioni, dal 1953 al 1963, più altri tre fino al 1972. Ciò vuol dire che, oltre alla Casa più amata - lo è ovunque - e rimpianta, è anche quella indissolubilmente legata al periodo ruggente, l’imprinting dell’endurance, fino all’inizio degli Anni ’70, quando il prestigio del campionato per prototipi era superiore a quello della F.1. E nessuno, fino a poco tempo fa, avrebbe potuto ragionevolmente prevedere un ritorno in ballo del Cavallino a Le Mans e nel Wec, con tutti i crismi dell’ufficialità. Dal punto di vista sportivo, storico e culturale, è come se la MV Agusta si reiscrivesse alla MotoGp, ovvero l’Impero Romano chiedesse d’entrare a far parte della NATO. Non è un caso che la categoria Hypercar - la gestazione più lunga e travagliata, dapprima più volte minacciata d’aborto - lì per lì abbracciata dalla sola Toyota, è letteralmente germogliata solo quando si è avuta la certezza che la Ferrari avrebbe aderito, a sua volta rincuorata e convinta dalla possibilità di realizzarsi una macchina geneticamente tutta sua. Attirando poi anche a cascata Glickenhaus, Peugeot, financo la rigettata ByKolles/Vanwall basata sul telaio ENSO CLM P1/01, più, in prospettiva, la nascitura Isotta Fraschini/Michelotto alle quali vanno aggiunte le puledre LMDH Acura ARX-06 (per l’IMSA) basata sul telaio Oreca 07, l’Alpine (telaio Oreca), la BMW M Hybrid V, su telaio Dallara P217, la Cadillac basata pure essa sul telaio Dallara P217, per il 2024 la Lamborghini, su telaio Ligier JS P217, e, dulcis in fundo, la già scalpitante e ambiziosissima Porsche 963, che si fonda su un telaio Multimatic Mk. 30. Insomma, chi per un verso, chi per un altro, chi vero e chi verosimilissimo, chi già in pista e chi ancora atteso, fanno in tutto non meno di dieci partecipanti reali e veri in condizione di dire tostamente la loro. Mai visto niente del genere, in settant’anni di gare di durata iridate. Né nelle Sport, nelle Silhouette, nel Gruppo C o chissà quando. Mai una saga tecnica è partita con così tante Case e mai una 24 Ore di Le Mans si ritroverà con tante acceditate pretendenti come nel 2023, festeggiando il centenario.

Godiamoci questo momento, allora, perché non durerà a lungo. In questa festa di Costruttori nobili, coriandoli e vernissage, alla fine, quando ci sarà da riscuotere trionfi veri, godranno solo uno o massimo due, mentre tutti gli altri finiranno col piangere. Perché un buon marchio non si può permettere il lusso di perdere tanto e per troppo tempo. E alla Sarthe e per l’iride più di due all’anno, salvandosi la stagione, proprio non possono farcela... Quindi questa lotta ben presto diverrà come un reality show dal quale progressivamente uno alla volta diversi tra i tanti iscritti cominceranno a sfilacciarsi e a sparire, in un gioco spietato e crudele. Così, questa è una storia di puro coraggio Ferrari, perché accettare di gettarsi con piena consapevolezza in tale meraviglioso e terrificante tritacarne, benché ibrido e sostenibile, non è cosa da poco. Il tema tecnico Hypercar è un ciclo prorogabile e dalla durata minima di cinque anni, per i quali la Rossa starà sempre in pista, a flusso costante, accettando una delle sfide più grandi, difficili e stimolanti della sua storia. Facendo un salto nell’ignoto, perché, a parte la batteria mutuata dall’esperienza F.1, tutto il resto è nuovo, scaturito dal foglio bianco. E in questi cinque anni vincere sarà difficilissimo ma perdere letale, per l’immagine, la storia e l’identità stessa del marchio nella categoria. Ma tutto questo invece di sminuire o impaurire, titanizza e amplifica intensità e atmosfera del cimento. Perché questa non è tanto e solo la Ferrari millenaria, quella che trasmuta vincendo dal secolo breve al terzo millennio come un’entità eterna, pomposa, quasi retorica, la quale pulsa gloria e imprese, ma è una Rossa nuova, concreta, tangibile, reale, stupendamente fatta di uomini e donne reduci da gavette, carriere faticosamente verticali e sacrifici h24.

John Elkann e Antonello Coletta: "La 499P è un sogno che ci farà vincere"

Questa è anche una storia di personalità forti e di volontà telescopiche. Parlando con Antonello Coletta, vero motore umano del programma, il sereno agitatore d’uomini, si scopre che lui stesso pensa e definisce la Ferrari 499P una macchina aggressiva, estrema e niente affatto conservativa, visto che non nasce per esserci, ma per lasciare un’impronta. Per creare problemi ai rivali. E tutto ciò, in una civiltà planetaria di braccini, distinguo e paraculismo sottotraccia, è semplicemente meraviglioso. Sì, la 499P nasce per stare là davanti, possibilmente in testa, magari solo nei giri che contano, quelli finali, ma al comando: non conosce schemi a catenaccio e gioca a due punte secche, per fare tanti gol. Questa è una storia di italianità. Non sterili nazionalismi o esaltati sciovinismi, bensì un esempio delicato e suadente di rispetto del lavoro frutto di una caratterizzazione tricolore, sì, tanto nostra, tutto qui, sentita e vissuta come quieto orgoglio. A partire dall’artefice ideale, idealista e ideatore di questa vettura, Ferdinando Cannizzo, ingegnere a ventiquattro carati, ma anche appassionato duro e puro di corse. Uno che si è formato sportivamente sognando e trepidando per i suoi eroi Villeneuve, Arnoux e Tambay anche sfogliando Autosprint. Un’italianità anche voluta con orgoglio infinito da Antonello Coletta, che chiama Cannizzo “Ferdi”, conferendo perfino all’eloquio del vernissage una connotazione semantica amicale e lieve e che vede come inscindibile anche il rapporto con AF e il suo leader, il piacentino Amato Ferrari, col quale in questi lunghi anni ha costituito un sodalizio in grado di riscrivere storia, leggenda e allori alla voce Gran Turismo.

Questa, certo, è anche una storia di impegni crecenti, di gradualità acquisite, di umiltà diventate esperienze e consapevolezze mutatesi in giuste ambizioni, corroborate da successi stimolanti. A forza di vincere mondiali GT e dare lezioni alle più grandi Case del mondo, non si poteva che giocare infine da neopromossi nella serie maggiore, tenendo fermo il rapporto con Amato Ferrari, braccio agonistico e anche propaggine ricca di talento di gestionalità essenziale e puntuale, che parte da lontano. Questa è anche una storia di personalità forti, capaci di trattare, dialogare, proporre e mediare con tutte le consistenti e scaltre autorità in causa, ossia la Fia, la Federazione, l’Aco e la potentissima Automobil Club de L’Ouest, ossia il centro di potere di Le Mans, più l’Imsa ovvero l’endurance Usa. Tanto ha fatto la Ferrari e altrettanto dovrà e saprà fare e ottenere per ben gestire i rapporti d’onore e anche di forza dai quali arriveranno le decisioni sugli equilibri critici e determinanti tra le forze in campo, affidati ai dosaggi di prestazioni e handicap che son sempre terni a lotto, portando a riazzeramenti a volte crudeli, altre incomprensibili e spesso comprensibilissimi quanto odiosi.

Uno come Coletta a oggi se l’è sempre cavata alla grande nel dialogo con le autorità sportive e proprio la sua attitudine alla dialettica unita al galantomismo potrebbero brillare ancora come l’asset invisibile ma ipercalorico dell’interno programma. Non dimenticando che, come recita la Bibbia, all’occorrenza, “terribile è l’ira del mansueto”. Questa è anche una storia di cabala e strizzate d’occhio numerologiche, poiché i numeri di gara 50 e 51 prescelti da una parte omaggiano il giubileo del ritorno a Le Mans dopo mezzo secolo, dall’altro glorificano i due contrassegni di gara che in questi anni recenti hanno rappresentato il meglio per la Ferrari in Gt, con le due vetture schierate dalla stessa AF Corse. E basta aggiungere un innocentissimo zero e abbiamo il 500 fatidico, che di recente è diventato l’invidiabile e impressionante traguardo di vittorie della Ferrari 488 GT3, la Gran Turismo della svolta, quella che ha fatto venir voglia di sogni passibili e possibili di diventate realtà prototipiche.

Questa, signori, è anche la storia di un’umiltà, di un approccio sorvegliato ma non sottotraccia, sottovoce sol perché educato ma mai timoroso, che porta lo stesso Coletta a dire chiaro che i nomi altisonanti, i piloti mammasantissima acchiappa clic e mangiatitoli provenienti dalla Formula Uno non sono la priorità di questo progetto. A Coletta medesimo piacciono, ancor più dei driver famosi, figure funzionali al sistema, collaudate, affidabili, in grado di rappresentare e fare una squadra, caratterizzandola con un’individualità forte e allo stempo malleabile. No, lasciamo stare i nomi, qui è più interessante e anche logico parlare di un metodo ben preciso, di idee chiare, non di voglia di stupire ma di volontà di costruire, sapendo cosa e come. Meglio utili che vip, dunque, e viva gli italiani, perché un’altra delle grandi priorità del lungo ciclo Ferrari-AF Corse Gt è sempre stata la trazione e l’attrazione tricolore, che nell’era più recente vede Alessandro Pier Guidi centravanti d’attacco e anche instancabile play maker.

Questa è anche una storia di colori, laddove al rosso aggressivo si mescola una fascia gialla che vuole essere omaggio alla città di Modena, e ci mancherebbe il contrario, ma anche citazione cromatica dell’era meravigliosa della 312 PB. L’ultimo prototipo iridato di Maranello frutto dell’ingegno di Mauro Forghieri e dell’inventiva tenace di Enzo Ferrari, appena prima che decidesse di dire ciao alle gare di durata per dedicare il reparto corse alla rifondazione by Montezemolo, Lauda e Regazzoni, poi divenuta a sua volta ciclo tecnico e fonte di titoli F.1, leggende e cuore meravigliosamente Rosso. Così quel giallo è anche il segno della continuità, il senso d’una dinastia importante, il fluire del fiume della storia che mutando acque non cambia il colore della sorgente. E chissà se la seconda 499P sarà anch’essa gialla ovvero avrà una sua caratterizzante striscia verde o blu, proprio come le vantavano le 312 PB ai bei tempi per lasciarsi distinguere tra loro, mentre sfrecciavano...

Questa è anche una storia di sigle, perché perfino la denominazione del modello frutto d’un numero equivalente alla cilindrata unitaria abbinata alla P che sta per prototipo, guarda indietro. Questo era il metodo identificativo delle Ferrari di Enzo Ferrari, ma butta l’occhio anche al domani quando, a Dio piacendo, ben si potrebbe pensare a una P2, P3, e P4, al punto che solo a dire P4, magari tra dieci anni, vien da sorridere e piangere di commozione e rimpianto, nonché afflitti dalla sindrome di Stendhal tipica di chi troppo si sofferma sulle opere d’arte del 1967.

Questa è anche una storia di Presidenza sulle prime tutta da decifrare. Perché, da quando è salito al timone della Ferrari John Elkann, egli è stato battezzato e giudicato in tanti, troppi modi, ma alla fine è la realtà a configurarlo e a dargli una dimensione sorprendente quanto meritata sul campo. C’è chi lo definiva un freddo finanziere, un ferrarista quasi per forza e invece, alla fine, è stato lui e proprio lui, in realtà entusiasta e real sportsman innamoratosi del fascino endurance, a premere il pulsante della valigia dei sogni e a far detonare la più costruttivamente e romanticamente nucleare delle visioni. La Ferrari che rientra nel Wec e a Le Mans, laddove non vince l’assoluta dal 1965. Quella della Ferrari che torna alle radici, individuando un futuro alternativo, sostenibile, convivente e compatibile con l’attività della F.1. Quello di una Rossa che vuole essere non solo grande ma anche grandiosa, che sa assumersi la responsabilità della sfida totale nei Gran Premi e nelle maratone. Un onere e un onore che solo la Porsche potrebbe (e farà di tutto per) eguagliare, peraltro senza avere l’eclettismo, il duplice pedigree e l’epopea onnicomprensiva della tradizione di Maranello, col primo iride F.1 nel 1952 e tra le Sport nel 1953.

Questa è una storia favolosa, molto più grande della macchina che la sintetizza. Questa è una storia importante e di cui andare orgogliosi, perché grazie alla Ferrari, e soprattutto a questa Ferrari, l’automobilismo da corsa dimostra al mondo di non essere solo Formula Uno, candidandosi come alternativa e possibile polo nuovo d’attenzione, passione ed emozione. Ed è così che 499P, solo a digitarla nel croguiolo dei sogni di tanti sportivi di tutto il mondo, diventa la password per un mondo nuovo, per una civiltà delle corse che ossequia ciò che fu, facendo palpitare il cuore per tutto quello che sarà. Per tutto questo, comunque vada, grazie, Ferrari.


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