Perez e Russell gli eroi di una domenica che invece avrà strascichi per Bottas, il tutto mentre la Ferrari annuncia l'addio di Resta e Grosjean saluta tutti
Tra Città del Messico e Sakhir ci sono nove ore di fuso orario ed un distacco abissale in termini di cultura motoristica. Perché in Messico, benché siano mancati i fenomeni, le quattro ruote sono sempre piaciute. Hanno avuto solo due piloti in grado di imporsi in un GP, per tre vittorie totali. Ed hanno dovuto aspettare 50 anni (GP Belgio 1970, vittoria per Pedro Rodriguez) per festeggiare di nuovo, per ascoltare di nuovo l'inno messicano su un gradino più alto del podio. Inutile dire che ormai non ci speravano quasi più, a casa di Sergio Perez. Uno che si ritrova con un piede e mezzo fuori dalla F1 (non è neanche un mistero che la famiglia Verstappen stia "sponsorizzando" Hulkenberg) nel momento della piena maturità agonistica, un patrimonio che il Circus farebbe bene a non sprecare. Ha vinto come sanno vincere i grandi, cioè senza perdere la calma, sorpassando e non facendosi sfuggire gli unici aiuti arrivati in una gara. Senza safety cara all'inizio la domenica di Perez sarebbe finita con l'incidente in curva 4, ed invece quello gli ha permesso di riaccodarsi subito, di cancellare l'incidente e di riporre la fiducia nel suo piede destro. Un piede caldissimo, per chi non se ne fosse accorto, già da qualche tempo. Viene a mente il suo trascorso nell'Academy Ferrari e quello in McLaren: lasciò il Cavallino perché si sentiva pronto per un top team, ed invece finì su una McLaren deludente che non si fece troppi problemi a silurarlo dopo appena un anno per colpa di un carattere troppo esuberante, in pista e fuori. Sembrava fuori, ed invece arrivò la Force India. Entrambi avevano bisogno dell'altro: la squadra di un pilota forte, giovane e veloce, anche se inizialmente un po' arrembante; a Checo invece serviva un team in cui poter completare la fase di maturazione, senza le luci della ribalta ma con il potenziale per fare qualche sortita in top-5. Sono cresciuti insieme, il pilota e la squadra, nel frattempo diventata Racing Point, con grande aiuto da parte dello stesso Perez, che si dice abbia fatto più di quello che si crede per salvare il team dalla bancarotta nell'estate 2018. Quella di Silverstone è gente che sa soffrire: quando si chiamavano Jordan, partirono dal niente per poi arrivare ad un 1999 magico, accarezzando il titolo con Heinz-Harald Frentzen, per poi proseguire tra alti e bassi ma tutto sommato in una situazione di agio; poi la futura rockstar Eddie Jordan vendette tutto ed il team si chiamò Midland, prima di diventare ben presto Spyker; infine arrivò Vijay Mallya e, nonostante sia stato e sia tutt'ora inseguito dalle banche di mezzo mondo, riuscì a far progredire una squadra che, pur nelle difficoltà economiche, era diventata una struttura appetibile per un magnate come Lawrence Stroll. Quando l'anno prossimo si chiamerà Aston Martin, Checo Perez non ci sarà, ma la sua storia sarà sempre legata al team che ha fatto crescere e con cui è cresciuto, e viceversa. Per l'ultimo dei messicani, siamo al momento del commiato: auguriamoci per lui e per il suo popolo di vederlo ancora in F1, perché di altri piloti in grado di prendere il suo posto non se ne vedo ed a Città del Messico, di un eroe nazional-popolare, hanno un gran bisogno. Per ritrovarsi a festeggiare, ancora, una corsa in notturna all'ora di pranzo.
Perez: "10 anni che sogno questo momento, non so cosa dire"
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