È il più speciale dei trionfi di Max: proprio come ai tempi del pilota italiano è il titolo più umanizzante dell'epoca post-eroica recente dalla Formula 1, quella che non aveva mai visto l'uomo prevalere sulla monoposto
A La Vegas 2024 Max Verstappen perfeziona l’impresa più grande della Formula Uno moderna, vincendo un mondiale piloti con una monoposto che, con ogni probabilità, arriverà terza nel mondiale Costruttori. E non solo e non tanto per colpa di Sergio Perez, quanto per un motivo semplice e inquietante: perché da un bel pezzo va meno delle altre. Presumibilmente, nella seconda parte del mondiale, in certe gare anche meno della quarta, ovvero la Mercedes, vedi Las Vegas.
Sarebbe bene sottolinearla mille volte, questa cosa, perché è decisamente anomala, all’interno di una stagione che più strana e inconsueta non si potrebbe reimmaginare. A due stadi, del tutto bipolare, con un inizio quasi banale, burocratico, di dominio totale di Max e della Red Bull sulla scorta delle due stagioni precedenti, salvo prendere una piega completamente diversa, da Miami in poi. Con l’addio alla squadra del genio Adrian Newey, che tramuta il dream team in drink team.
Ecco è da Miami in poi che Max Verstappen compie l’impresa seriale più grande nella storia recente del Circus. Prodezza che non ha niente di matematico o anagrafico: in fondo nel 2013 Sebastian Vettel con la Red Bull-Renault divenne quattro volte campione del mondo a ventisei anni, ovvero con un’annata anagrafica di vantaggio sull’olandese, quindi niente di nuovo sotto il sole, anzi, nel buio illuminato a giorno di Las Vegas.
No, stavolta la faccenda si pone in termini diversi, perché la F1 moderna è di regola contrassegnata dalla superiorità del pilota più bravo, invariabilmente al volante della macchina migliore. A parte il 2021 anomalo e animato dall’assoluta eguaglianza di prestazioni tra Mercedes e RBR e il 1994 segnato dalla tragedia di Senna e quindi sincopato, falsato e rovinato dall’autoscontro finale di Schumi vs Damon Hill, di solito la macchina più forte ed efficace vinceva sempre, punto.
La stessa BrownGp del 2009, da metà stagione soppiantata quanto a sviluppo dalla Red Bull di Newey, era comunque sempre fortissima (vedi Barrichello che vince a Monza) e in grado di tenere a bada le rivali, dall’alto di una classifica Piloti e Costruttori stradominata. E anche quando Prost e Senna si scambiavano mondiali in casa McLaren, lo facevano con una vettura nettamente superiore alle altre, ovvero con Ayrton che si vendica nel 1990, tarpando le ali alla Ferrari di egual lignaggio, sempre a Suzuka. Sempre Prost, nel 1986, fa il bis iridato con una McLaren non più al top, ma, più che una prodezza sua, è un harakiri Williams...
Insomma, se si può evidenziare un anno in cui al top iridato va un pilota con una vettura nettamente inferiore alle altre, il paradosso dice che quello è il 1982, con Keke Rosberg e la Williams. La stagione dell’ultimo centro mondiale del motore aspirato, il leggendario e vecchissimo Cosworth DFV, che aveva debuttato in campionato addirittura nel 1967 con le Lotus di Clark e Grahm Hill.
Ma il 1982 non è certo l’anno dell’uomo che sopperisce alla macchina, ma il momento più buio e sfortunato per la Ferrari turbo, prima devastata dalla morte di Gilles Villeneuve in prova a Zolder, poi sfiancata dal crash di Didier Pironi ad Hockenheim e infine messa knock-out dall’infortunio alla spalla del supplente Patrick Tambay, nell’ultima parte della stagione. Cioè, quel mondiale se lo giocano al Caesar Palace Keke e John Watson con vetture che hanno in certe condizioni ben oltre cento cavalli in meno della Ferrari che ormai, per pura sfiga, nulla può più.
Un discorso simile a quello del 1976, quando, senza il dramma di Lauda al Nurbrurging, mai Hunt con la pur buona McLaren M23 avrebbe potuto beffare Lauda con la dominante Ferrari 312 T2.
No, stavolta Max vince il titolo con una monoposto, la RB20, che dal dopo Barcellona per dieci gare consecutive fatica addirittura ad andare a podio, riprendendosi alla stragrande nella gara più bagnata dell’anno, in Brasile, a Interlagos, laddove nell’uragano le prestazioni dell’uomo tutto finalmente possono. Con l’Olandese Vogante in grado di realizzare un’impresa che sembra tanto fare pari con quelle di Coppi al Giro, Pantani al Tour o Nuvolari alla Mille Miglia, quanto a incidente pura dell’uomo, del manico sul vil metallo. E questo avviene in parallelo alla parziale disgregazione del team Red Bull, che perde morale, a volte decenza, tranquillità, pezzi pregiati nell’organigramma, competitività e fiducia nelle proprie capacità, rimanendo aggrappata solo al tetragono istinto d’autodifesa aggressiva tipico del suo pupillo...
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