Ode a una piccola storia che ha rubato lo schermo alla Formula 1 vera.
Ancora una volta uno spettatore ruba la scena alle monoposto in lotta per aggiudicarsi la vittoria in un Gran Premio di Formula Uno. E stavolta l’invasione non è la scelta volontaria e pericolosa di un mezzo prete mezzo matto o di un brutalmente licenziato in cerca di vendicar il maltolto, come accadde rispettivamente a Silverstone e Hockenheim, anni e anni fa. No, niente pericolo, nessuna safety-car provocata, zero scompiglio in pista.
Semplicemente, ecco il volto inconsolabile di un bambino, un baby tifoso di Kimi che piange in mondovisione all’immediato ritiro del suo adorato per cozzo alla curva 1. Poco dopo, a sorpresa, mentre impazza il 50° giro e con esso ciò che resta della lotta tra Vettel e Hamilton, le telecamere mostrano Iceman accogliere il rasserenato pargolo all’hospitality Ferrari, regalandogli gli attimi più simpatici, intensi e inattesi che avrebbe mai potuto immaginare. Beau geste che parte dalla Rossa, quindi, con la Fom utile tramite. L’amore al tempo di Liberty Media, insomma.
Evento nato virale per web e social, che nell’era Ecclestone presumibilmente manco sarebbe mai stato lontanamente concepito. Così il piccolo Thomas in mondovisione impalla in diretta due tra i più forti campioni della F.1 moderna, senza che ti prenda voglia di dire ma dai, che mi frega, reinquadrate Mercedes e Ferrari. No, per una manciata di secondi siamo tutti stupiti e contenti così.
Ecco, il giorno dopo, saltabeccando tra giornali, web e social, leggo perplessità scherzose o meno sull’autenticità della storia e addiritura critiche lievi o trasversali perché come plot sembra troppo bello per essere vero nonché eccessivamente paraculo per brillare dal sacro valore della spontaneità casuale. Secondo me invece, al di là di questo, la baby story del Gp di Spagna resta meravigliosa a prescindere.
Perché oltre a mostrare un bambino felice, il che non fa mai male, va ben oltre ricordandoci subliminalmente quanto la passione per l’automobilismo da corsa faccia in realtà di tutti noi un gruppone indistinto d’eterni bambini. Pronti sì a lacrimare per la festa che si rovina all’improvviso, ma anche a sorridere felici se la sorte ci spiega che c’eravamo sbagliati. E che il nostro eroe del momento è meno iraggiungibile di quanto possa sembrare.
La baby story di Montmelò ricorda a noi tutti che l’amore immenso per le corse è una malìa strana e meravigliosa.
Che avvolge due tipi d’umani a fasce d’età che sono anche percorsi esistenziali: bambini che hanno fretta di sentirsi uomini e uomini che non sapranno mai rinunciare a essere bambini. Per questo, poche storie, indipendentemente dai dettagli - quando si parla di pura poesia non v’è niente più smosciante dei dettagli -, la baby story di Montmelò resta un momento meraviglioso. Non solo perché ha un bambino per protagonista, ma anche perché fanciullo, diciamolo, è anche ciò che noi grazie all’automobilismo, alla F.1, a Indy, Le Mans, ai rally, alle salite e a quant’altro torniamo dolcemente, struggentemente, poeticamente e perdutamente a essere.
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