La gestione Binotto convince per serietà, competenza e modi ma meno quanto a risultati. Tanto che al suo fianco si sente la mancanza di un cattivissimo e sgamato squalo-racer
Stavolta in casa Ferrari in condizioni gara non s’è rotto nulla e in pratica non ha sbagliato niente nessuno. Affidabilità praticamente a posto, errori tattici zero, strategie pressoché sensate e nulla da dichiarare alla dogana. Però, proprio per questo, il Gran Premio di Ungheria diventa a ben guardare il più sconfortante dell’intero mondiale.
Gara di rimessa, fatta tirando a campare, costantemente con l’occhio al fuel saving - ossia con attenzione al consumo e all’esigenza di risparmiare carburante - specie nel finale per Leclerc, che si è fatto superare da Vettel, il quale peraltro aveva meglio gestito le gomme, ma son particolari -, nonostante le prestazioni mediocri della power unit, se raffrontate a quelle della concorrenza d’elite. E, dopo la sosta ferragostana, ci si prepara per Spa e soprattutto per Monza, posticini in cui cavalleria e prestazioni certo non sono gentili con la legna da ardere. Un altro bel problema.
Ed ecco che il terzo e il quarto posto di Vettel e Leclerc, a più di un minuto dal vincitore Hamilton e dalla regina Mercedes, cioè quasi un giro di distacco, per una volta presentano il retrogusto tombale dell’assenza di soverchie aspettative nel futuro.
In altre parole, se perdi così, poi la faccenda non la risolvi mica in due balletti.
E come sempre, quando in gara non ti stai giocando nulla, non hai reali chance né niente da perdere, all’Hungaroring le Sf90 filano che sembrano orologi, ma scarichi.
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Piuttosto, resta l’impressione che ormai l’insoddisfacente ruolo narrativo di terza forza del campionato - al di là dei riscontri aritmetici del mondiale Costruttori -, per la Ferrari è sempre più realtà acquisita, con la quale bisognerà fare i conti, addentrandosi passo dopo passo nella seconda metà del calendario.
In quanto lassù a lottare per la vittoria sembrano candidati a confermarsi a turni forzati Lewis Hamilton su Mercedes e Max Verstappen su Red Bull-Honda, mentre staccati inesorabilmente adesso ci sono quelli che si giocano il mondialino dei depressi, vale a dire i mancati protagonisti ferraristi Vettel e Leclerc, più Bottas, in caduta libera con la seconda Mercedes, e Gasly, al volante sempre più traballante della seconda Red Bull. Poi, certo, tutto può succedere. Nulla vieta di pensare e immaginare una Rossa capace di prove d’orgoglio, resurrezioni improvvise e soprendenti, di rinnovata e ritrovata consistenza. Dalle parti delle Ardenne, in zona mito, ovvero avvertendo alle narici l’aria di casa e lo stormir di fronde del Parco Reale di Monza, l’humus è tale da chiamare a concretizzazioni di una vocazione all’impresa che fa parte del Dna Ferrari.
Però due cosine è ora di dirsele, del tutto a prescindere da ciò che accadrà perfino da qui alla fine del campionato, che ormai ben poco ha da dire, quanto a verdetti di base. Ecco, la Ferrari che esce dalla tredicesima prova iridata su ventidue in programma, di spunti e di riscontri per operare una sommaria diagnosi ne ha forniti a sufficienza.
E tutti indicano in modo piuttosto chiaro almeno una cosa. Questa: la Rossa di Binotto, quella dei sorrisi educati e della simpatia, delle minimizzazioni e delle carinerie unite alla competenza e alla laboriosità operosa e corretta, ha in sé, oltre che ottime valenze, anche zone e lacune in cui intervenire prima possibile. La prima, quella più scoperta e drammaticamente allarmata e allarmante, vede la Ferrari del tutto sguarnita al di qua del muretto di belve da corsa aggressive e cattive, di antiche bestie da combattimento, sì, insomma, della figura del racer puro.
Il tipo mezzo mercenario e mezzo no, l’uomo forte che nella vita ne ha viste di ogni, che nel paddock parla con tutti e che da tanti è stimato ma da tutti è temuto, e che con un paio di cuffie in testa può e sa essere pericoloso per gli avversari.
Uno per niente simpatico, magari poco carino coi giornalisti, tutt’altro che galantuomo, ma irrespirabile per gli avversari interni e esterni, capace di mettere disumanamente sotto pressione tutti e in grado d’essere catalizzatore potente tra tanti se non tutti i reparti del team.
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Un, anzi, IL Grande Bastardo, insomma.
Laddove Grande Bastardo è denominazione d’origine controllata che assume per la squadra da risollevare valenza positiva, antidepressiva, tosta e rigenerante.
Sì, uno spietato che sappia dare colla di cemento, consistenza, anima di ferro pure al talento dei piloti, perché in Ferrari sia Vettel che Leclerc mostrano sempre più spesso, oltre al talento, anche occhi un po’ smarriti e espressioni a tratti psicologicamente vulnerabili, loro malgrado, da coniglietti smarriti e arruffati.
Dopo che la crisi di Seb ha toccato vette preoccupanti, anche quella di Charles mica scherza, perché l’errore in Q1 in Ungheria arriva a pochi giorni da quello terribile in gara di Hockenheim e fa tris con l’altro nelle prove ufficiali di Baku, a dare la misura di una temperatura psicologica tendente al surriscaldamento, tra i maestri del volante del Cavallino Rampante.
Nulla da dire contro e su Binotto, può andare benissimo, ma al suo fianco e magari con mansioni a lui subordinate, ci starebbe benissimo uno di quei soldati di tutte le guerre, un veterano di mille battaglie, una vita da mediano e mediano da una vita, capace di fare da detonatore, essenza feroce & Anima Nera, all’interno di una squadra che adesso, quale peggior difetto, sembra avere una sorta di quieta, gentile e carinissima rassegnazione.
Se è vero che questa è ciò che resta della Ferrari nobilmente orizzontale fortemente voluta da Marchionne, è anche vero che Marchionne medesimo questa Rossa l’aveva immaginata con sé in plancia di comando, da condottiero in servizio, tutt’altro che tacito, arrendevole e neutrale.
E proprio lo schema restato in piedi, quello della Ferrari di Marchionne giocoforza, ahinoi e ahilui, senza Marchionne, lascia intendere chiaramente che qualcosa va riconsiderato, ricalcolato e sottoposto ad aggiustamento.
Questa che resta, dopo la fine sfortunata e fulminea del Condottiero Vero, è una Ferrari troppo buona, per niente ignorantissima col nemico, sia in pista che non.
Lieve perfino coi rivali, con la Federazione e con le Autorità Sportive.
Troppo cortese, in un momento delicato come questo, perfino con se stessa.
È una Ferrari che non si deve stravolgere ma solo energizzare e fortificare. Non deve cacciare nessuno, epurare, emarginare ovvero battezzare capri espiatori o teste da far rotolare. No, no, no.
Ma è una Rossa che si deve incattivire.
Riacquistando la capacità di soffrire, se vuole tornare a infliggere sofferenze vere ai rivali.
Per questo non mi interessa granché, sinceramente, cosa la Sf90 combinerà a Spa e Monza, ma, più prosaicamente, la vorrei vedere sul mercato del retropaddock irretire, sfruculiare e cercare, tra i vecchi lupi della F.1, quello che, più spaventosamente di tutti, possiede le terrorizzanti, galvanizzanti e cardiotoniche caratteristiche di colui che a questo punto invoco senza esitazioni. In funzione coadiuvante e antiemolliente, al fianco di chi c’è già.
Magari venisse il tuo regno alla Rossa, dunque, Grande Bastardo.
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