Ma per caso queste F.1 sono troppo facili?

Ma per caso queste F.1 sono troppo facili?

L’esempio di Nico Hulkenberg che si ritrova in pochi giorni dal divano di casa alla seconda fila in qualifica è stupendo ma fa anche un po’ riflettere. E lascia aperto un dubbio: in F.1 è più semplice guidare che avere le amicizie giuste?

10.08.2020 12:41

Una delle più belle storie del Mondiale 2020, comunque vada a finire, è eresterà la chiamata in extremis di Nico Hulkenberg alla Racing Point persostituire Sergio “Checo” Perez positivo al Covid-19, nel doppio Gran Premio sul circuito di Silverstone. Ancora una volta il tedesco si dimostra pilota pieno di stile, personalità, consistenza e velocità. Perché non solo passa dopo nove mesi di inattività dal divano di casa all’abitacolo della Mercedes rosa senza alcuna difficoltà, ruggine muscolare o mentale e timore reverenziale.

No, Hulk fa molto di più, prendendo in mano addirittura le sorti della squadra, appena multata e penalizzata dalla FIA per la questione delle parti di riproduttibilità proibita, stampando un meraviglioso crono in Q3, tale da finire con la Mercedes rosa a grattare i talloni alle Mercedes nere, anche se a più diun secondo di rispettosa distanza. Il che significa che un prepensionato che per mesi e mesi se ne sta con la testa da un’altra parte, se avesse avuto a disposizione una W11 invece di una RP20 sarebbe stato lì a giocarsi la pole con Hamilton e Bottas, poche storie.

Questo da una parte rende ancor più simpatico l’incredibile Hulk ma anche, sinceramente non troppo Hulk e non del tutto incredibile, perché quest astoria, lateralmente, sta anche lì a suscitare un altro fondato dubbio e cioè questo: non è che per caso siamo arrivati a un punto in cui guidare queste F.1 è sempre più facile, fino a diventare addirittura troppo facile?

Poi Hulkenberg merita solo un plauso, perché in qualifica riesce a battere a parità di macchina il compagno di squadra Stroll, il quale persoprammercato è pure figlio del padrone di casa, quindi chapeau. Però la questione sta in piedi lo stesso. E porto un altro concetto a rafforzare la facoltà di prova. Già nei test per giovani basta che lo sconosciuto Nikita Mazepin salga sulla Mercedes a Barcellona 2019 nei teste già i cronometri impazziscono, rivelando tempi e passo da urlo, quasid’aver a che fare con una specie di tarantolato del volante. E invece Mazepin, altro figlio di papà ricchissimo e ben introdotto, è un ragazzo simpatico, onestissimo e capace, ma, ecco, diciamo che Juan-Manuel Fangio era un’altra roba, toh.

Tanto che sembra quasi che la F.1 ormai pare un posto al ministero: rispetto al passato la fatica e la selezione per arrivarci sono molto più spietate, ma poi arrivato lì stai sicuro, sei in un ventre di vacca, hai il posto fisso e tutto sto stress mica c’è, neh. La scorsa settimana, proprio in questa rubrica, sostenevo che questo inizio mondiale sta rivalutando il fattore uomo, perché a parità dimacchina uno come Verstappen fa vedere i sorci verdi a un bravissimo professionista come Albon, mentre Leclerc le suona sempre di più a Vettel e Ricciardo sta spiegando a Ocon come si guida una monoposto in qualifica, tanto per limitarmi a tre esempi.

Ma il problema non è questo. Il campione esce fuori sempre, certo. Il manico tira ancora, avoja, non è vero che queste F.1 potrebbe guidarle anche mia zia mentre mi fa una crostata, no, no, no, non è mica questo il punto. Io qui sostengo una cosa diversa e molto più preoccupante e cioè questa: per come vanno e funzionano, le monoposto di questa generazione creano la differenza tra piloti a parità di mezzo, ma contano talmente tanto da annullare completamente l’importanza del pilota stesso nel confronto con le vetture rivali. E questo è un problema di cui si dibatte dagli Anni ’70, ma che adesso sembra aver toccato vette e livelli non più tollerabili.

La verità è semplice e allarmante. Prendi la Mercedes W11, assettala bene, convoca un pilota ben sperimentato al simulatore, uno tra i primi trenta del mondo quanto a capacità, curriculum ed esperienza, e vedrai che riuscirà senza problemi a piantarla minimo in seconda fila. Se poi lo fai girare senza Hamilton e Bottas, da solo, alla Mazepin, magari ci sta che faccia anche di meglio. Ecco, questa non è una soluzione: è un problema. E bello grosso. Perché già i conduttori sfruttano piste sempre più facili, poco infide, quasi bonificate dal rischio e dalla cattiveria, già si giovano di un climax amico e di un ambientazione gentile. In più si ritrovano un arco di performance in gran parte garantito, influenzato eassicurato dal mezzo stesso.

E le prove di quanto dico si ritrovano inconfutabili anche in quanto è cambiato negli anni il concetto stesso di incidente e di uscita di strada, nella filosofia delle competizioni e dei rapporti tra pilota e team. Negli Anni ’80, per esempio, uno che sbatteva non era considerato necessariamente un pilota sbagliato. Anzi. Grazie a Dio uno come Giles Villeneuve della capacità di andare continuamente e costantemente oltre il limite aveva fatto una filosofia di vita e di corsa, facendosi non solo amare da milioni e miliardi di tifosi ma ammaliando anche Enzo Ferrari e Mauro Forghieri. Vado oltre.

Andrea De Cesaris, ai tempi della sua militanza in McLaren, era stato ribattezzato De Crasheris, ma godeva comunque della stima dovuta a uno che ci prova tanto e ci prova sempre, perché la verità è che in quella F.1 se non sbattevi mai e proprio mai evidentemente eri uno che non dava tutto se stesso. Tanto che lo stesso Derek Daly si sentì dire da Ken Tyrrell, per scherzoma non tanto, che "Se mi distruggi una macchina okay, due vuol dire che dai tutto te stesso, ma con tre sei licenziato, così come sei cacciabile se non fai mai un segno alla carrozzeria, perché indica che non ti sei impegnato abbastanza".

Adesso no. Parliamoci chiaro: se esci e sbatti, sei un coglione. Una, due volte e sei nel mirino. Il povero Antonio Giovinazzi in Cina 2017, il primo anno della sua militanza in F.1, in condizioni non facili finì due volte fuori e per poco non lo mettono al rogo, giusto per dirne una,misconoscendo il debutto da urlo in Australia.

E tutto questo per un motivo semplice e ignobile. Le monoposto di oggi sono talmente scontate, hanno un limite così sistemico, che non ha alcun senso agonistico e filosofico gettare il cuore oltre l’ostacolo per provare a andare oltre il tempo target stabilito a tavolino. Se sui saliscendi e tra i rail del Watkins Glen ci mettevi il cuore, il limite della tua McLaren M23 lo decidevi tu, evitando d’affettarti le gambe tra i rail. E se provandoci devastavi la scocca, tanto di cappello.

Adesso no. L’obbiettivo è già perfettamente noto, raggiungibile e certificabile in simulazione. Tu puoi e devi toccarlo confortato dalla telemetria e da una cadenza scandita al millesimo e sostenibilissima. Tutto qui. Poi certo, a parità di scrivania, un Premio Nobel rende molto, infinitamente di più di un Impiegato, ma se i compiti da svolgere non sono troppo complessi, molti onesti e solerti impiegati possono muoversi facendo discrete figure a confronto con dei geni.

Pertanto quando si parla di evoluzioni e rivoluzioni, di studi, di teorie per facilitare i sorpassi, mi viene da ridere. Basterebbe pensare a macchine potentissime, mai gentili, pesanti, scorbutiche, inguidabili, quasi inapprocciabili, ipotecnologiche, basiche e ruvide. Così facendo tanto, se non tutto cambierebbe.

Invece continuiamo con questa F.1 che per cambiare volto da una settimana all’altra si limita a gonfiare un po’ più le gomme ai piloti, ignorando che sta sempre più gonfiando i coglioni agli appassionati.


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