Domenica 5 ottobre segnò una doppia tragedia nel mondo della F1, con l'incidente a Suzuka di Bianchi e quello in moto a Roma di De Cesaris
Dieci anni fa, una terribile domenica. All’alba il dramma di Jules Bianchi sotto il diluvio di Suzuka, poche ore più tardi la morte di Andrea De Cesaris a Roma sul Raccordo Anulare. Una giornata da incubo quel 5 ottobre 2014, trapassata dal dolore.
Alle prime luci del giorno dal Giappone arrivarono immagini agghiaccianti. Un dramma vissuto in diretta con la Marussia del pilota francese che, proprio nella via di fuga, rimase incastrata sotto a una ruspa, entrata in pista per spostare la monoposto incidentata di Adrian Sutil. Jules entrò in coma, rimase aggrappato alla vita per 285 giorni, prima di spirare il 17 luglio del 2015. Un incidente sconvolgente per la dinamica con tanti aspetti mai chiariti e che continua a imbarazzare certe coscienze.
Passarono poche ore dal crash di Bianchi a Suzuka e arrivò un’altra terribile notizia. Nel pomeriggio perse la vita Andrea De Cesaris mentre in moto percorreva il Raccordo Anulare nella Capitale. Ricordo gli sguardi stralunati di tutti noi in redazione ad Autosprint e un silenzio che faceva rumore. Il Circus della Formula Uno da sempre sforna campioni degni di entrare nel paradiso delle leggende ed altri, che intraprendono una strada parallela, restando nell’ombra. C’è chi li dimentica in fretta o chi preferisce ricordare quelle imprese mai riconosciute a dovere e sempre lasciate dietro le quinte di un sipario che troppo spesso non si alza sui piloti veloci, aggressivi, coriacei. De Cesaris era uno di questi.
Sembrava essere immortale, impossibile scalfirlo. Forse di questa realtà se ne era convinto pure lui, uscito indenne da incidenti terrificanti, collisioni multiple, capottamenti. I numeri relativi alla sua carriera in F.1 non gli rendono giustizia. 15 anni di presenza continua, dal 1980 al 1994, 208 Gp disputati, 5 volte sul podio, una pole position, nessuna vittoria. Nella sua lunga carriera aveva corso per la McLaren di Ron Dennis e John Barnard, per la grande Alfa Romeo di Gerard Ducarouge, ma anche per la piccola Rial di Gunther Schmidt o la Jordan al debutto. In una intervista rilasciata nel 2000, De Cesaris raccontava: «Sono quello che ha il record di oltre 200 Gran Premi senza una vittoria: forse finirò in una domanda di qualche quiz. Ma anche questo non è mai stato un problema, perché io ho sempre corso per me e non per gli altri».
Era un giovanotto buffo, con la faccia da ragazzetto “de borgata” di un film di Pasolini, pieno di tic e sempre sorridente, come se la F.1 fosse il giocattolo che aveva trovato sotto l’albero di Natale. All’inizio con la McLaren, quando era troppo giovane per lasciare il segno; quell’esperienza, anzi, ne segnò la carriera: troppi gli incidenti, troppa l’esperienza del compagno John Watson e troppo frettolosa certa stampa. Il soprannome “De Crasheris” non se lo sarebbe più scrollato di dosso. Andrea De Cesaris, Elio De Angeles, Michele Alboreto e Riccardo Patrese, erano i grandi ambasciatori italiani in F1 e l’orgoglio di tanti tifosi che in quegli anni dividevano il loro tifo e loro passioni. Un’epoca che ha lasciato un solco profondo e memorie indimenticabili. Un’epoca nella quale Andrea è stato un simbolo.
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