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In F.1 c'è nostalgia di imprevedibilità

I Gp sono belli ma le macchine non rompono e i piloti non sbagliano, così il mondiale diventa scontato...

In F.1 c'è nostalgia di imprevedibilità

Mario DonniniMario Donnini

14 ott 2024 (Aggiornato il 15 ott 2024 alle 10:36)

C’è una cosa che manca a questo mondiale e a tutti i mondiali ormai asettici e denuclearizzati come questo, ed è l’imponderabilità. Il fattore destino, il tocco della sorte. Nell’ansia di prevedere tutto, di imbrigliare, di razionalizzare e di ottimizzare, la Formula Uno ha quasi completamente perso uno dei suoi aspetti più affascinanti e crudeli. Ossia, l’imprevedibile.

La fragilità capricciosa della monoposto, anzitutto. C’era una volta la vettura che si rompeva. Tu eri primo, avevi una vita di vantaggio, potevi perfino aver doppiato il campione del mondo in carica, ma, come Bruno Giacomelli a Watkins Glen 1980, la bobina ti diceva ciao e la tua corsa era finita. E la sola occasione di vincere un Gp in vita tua era sfumata per sempre.

Che so, un motore poteva saltare, una bancata cedere o una biella andarsene per fatti suoi. Peggio ancora, una sospensione rompersi, e allora guai.

NON SI ROMPE PIU' NULLA

Ora no. Non più. Mai più. Tutto è fatto per durare un’ora e tre quarti. Anche il pilota. Meglio così?

Le macchine non si rompono più e, a parte qualche glitch, qualche rara falla di sistema, non si ritira più nessuno. Tanti al via, tanti al traguardo, tutti in processione. Secondo logica, punto.

Fateci caso, sono otto corse che non entra la Safety-Car. Non che la SC sia il rimedio, la finta panacea che riporta entusiasmo o sorprese, per carità, però è un segnale importante.

Di esterno, di laterale e di eventuale, non capita quasi più niente.

Anche di sbagli, non se ne fanno più. Anni fa a Monza Pescarolo mi disse: «Il fascino delle corse è sempre stato racchiuso in un paradosso, cioè questo: se facevi una curva importante a un chilometro in più del limite, uscivi e avevi perso. Se la facevi a un chilometro in meno, andavi piano e avevi perso. La ricerca del limite era il mistero affascinante dell’automobilismo e anche la sua benedizione e la sua maledizione. C’è chi nella mia generazione si è fatto molto male per cercarlo, quel limite, chi s’è giocato delle corse per inseguirlo e chi ne ha vinte tante o anche una e basta, perché riusciva a capirlo quasi sempre o anche una volta sola. Adesso il limite preciso te lo spiega la telemetria, te lo rivela e tu non hai che da eseguire, se puoi. Niente mistero. Zero rischio. Solo esecuzione precisa».

Come fare le parole crociate conoscendo la soluzione. Basta scrivere nitido ed è fatta, no?

Fateci caso. Okay, le macchine non si rompono più, ma, parallelamente, proprio per questo, neanche i piloti sbagliano più e picchiano assai meno.

Tra la fine degli Anni ’70 e l’inizio degli ’80 Gilles Villeneuve creò la leggenda dell’uomo che distruggeva monoposto perché cercava sempre e comunque eroicamente e ossessivamente il limite, incurante delle conseguenze.

Enzo Ferrari non ne era strafelice, di ’sta cosa, perché doveva buttare telai uno dopo l’altro, però la sfida ci stava e rapiva cuori, reclamava stima, sprizzava coraggio, eccitava empatie.

Poco dopo, correva il 1981, Andrea De Cesaris sfoderava uno stile letteralmente senza paura che ben presto lo vide licenziato dalla McLaren e pochi anni dopo anche dalla Ligier, perché sbatteva troppo spesso. Ma Mandingo nell’ambiente era uno rispettato assai, altroché, consideratissimo, tanto da trovare monoposto e impieghi per quindici stagioni consecutive, in F.1, perché di uno così ti potevi fidare. Sempre.

IL LIMITE NON È UN MISTERO

Adesso se un pilota sbatte una volta, alla seconda lo mettono a casa, prendendolo da tonto. Da uno che fa solo danni, per niente. Perché il limite non c’è mica più bisogno di cercarlo. Si sa benissimo qual è, ci sono grafici, disegnini che te lo spiegano come alle elementari e, se tu lo superi, vuol dire che non sei capace, fine.

Peggio ancora, una volta c’erano circuiti, anzi, quasi tutti i circuiti, che offrivano un concetto di limite molto più estremo e difficile di quelli di oggi, che per la maggior parte sono degli stop and go. Leva e metti gas, come quando sei in fila in autostrada. Invece, ricordate? Quei bei tracciatoni a gas fluente, giù il piede e San Cristoforo ci aiuti, non ve ne sono quasi più o li hanno levati, perché gli organizzatori pagano di più altrove, dove costringono a correre su pistine pensate da Tilke, fatte apposta per non esagerare, tale e quale a fare la corrida contro un toro dalle corna accorciate. Se sei in grado di infilzarlo sempre prima che ti infilzi lui, la sfida diventa quasi insopportabile, no?

Ma qui non ci sono Tori e se ci sono sembran Rossi, quindi tutto okay, tanto i cavalli sono a migliaia e i dollari a miliardi, quindi il fiume scorre eccome, ma a modo suo.

Il più bravo pilota del mondo Max Verstappen dice che il circuito più arrapante sarebbe quello del Mugello, ma al Mugello non corrono, perché il comune di Scarperia paga meno di quello di Doha.

Le cose e le corse vanno secondo una logica immutabile, prevedibile, implacabile e si fa fatica a cambiare la corrente.

Prendi, anzi, riprendi questo mondiale. Da Miami a oggi, ovvero dal sesto Gp del calendario su 24,  più 6 garette, la Red Bull non va più come prima, ha smesso d’essere al top, eppure Verstappen in fuga pare quasi imprendibile, perché lui sbaglia poco, diciamo niente, le macchine non rompono mai e, se Max arriva sempre secondo o terzo, gli altri non possono faracela.

COME NEI CARTOON

E così un campionato bellissimo gara per gara, un libro affascinante da leggere in ogni singolo capitolo, offre una trama generale in cui si sa o si teme di sapere esattamente dove si andrà a parare, rendendo il tutto eccitante e divertente in ogni attimo, ma scontato nel finale, come in un cartone animato di Willy il Coyote.

Dal 1963 al 1968 si sapeva che il più bravo e la macchina più veloce coincidevano: erano Clark e la Lotus, ma di mondiali ne vinsero solo due su sei - e mai la gara di Montecarlo -, perché la Lotus si rompeva spesso. E le corse e le cose erano del tutto imponderabili.

Questo ha perso, la Formula Uno, diventando planetaria, straricca e perfetta. L’imperfezione. Quell’essere spuria che la rendeva purissima.

Il più bel libro sul Palio di Siena s’intitola “Il Palio delle Contrade morte” ed è stato scritto dai grandi Fruttero & Lucentini. A un certo punto gli autori dicono una cosa semplice: i cavalli che corrono a Siena in realtà sono undici e non dieci, perché ce ne è uno in più, in gara, l’undicesimo, invisibile, e si chiama destino: incarna la sorte. Ed è la sorte che rende il Palio unico, una corsa che ti strega.

LA MACCINA INVISIBILW

Ecco, in questa F.1 a forza di perfezionare, razionalizzare, ottimizzare, rassicurare, sverminare e bonificare, abbiamo distrutto e vaporizzato quella magica  monoposto invisibile in più. Il destino, il mistero, l’imprevedibilità.

Ora tutto va semplicemente come deve andare. E la somma di attimi sfolgoranti, il computo di milioni di sensazioni forti e di secchiate di adrenalina in Gran Premi bellissimi, alla fine non nasconde che la soluzione del quizzone è comunque prevedibilissima, scontata e quasi ovvia.

Team e Liberty Media non vogliono due macchine e un team in aggiunta e invece dovrebbero capire che ce ne vorrebbe come minimo una in più, per il bene della loro e della nostra F.1.

Quella invisibile, chiamata destino.

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