Chi era Ayrton Senna per te?
«Un argomento quasi sacro. Come per chi ama questo sport. Un nome che fa ancora oggi tremare le pareti. Per me, come per tanti appassionati è stato soprattutto un esempio per inseguire quel tipo di carriera in cui lui è diventato il punto di riferimento. La sua vera grandezza è stato proprio diventare una di quelle persone che per ciascuno di noi rappresenta qualcosa di speciale. Non è solo la figura del grande campione ma anche la persona con cui vorresti andare a bere un caffé, a cena, parlare a lungo: quello cui avresti mille cose da chiedere, magari un aneddoto su un sorpasso che forse hai visto mille volte ma che nel tuo cuore tende ancora a destare un’emozione. Per me Senna è stato tutto questo».
- Quando si sono incrociate le vostre strade?
«La prima volta presto, molto presto. Anche se lui non l’ha forse mai saputo. È successo quando lui aveva appena lasciato il karting e io ci stavo entrando. Tra noi c’erano sei anni di differenza, un’età che all’epoca impediva di misurarsi direttamente. Mi trovai a correre con la stessa marca di kart che aveva guidato Senna, la Dap. Ed ero orgoglioso di girare con sopra il casco l’adesivo che aveva avuto anche lui. Ricordo di aver patito una grandissima delusione quando Parrilla, il proprietario della Dap, scelse per la squadra ufficiale Vincenzo Sospiri al mio posto dicendo che a velocità eravamo pari, ma lui era più fortunato di me. Ci stetti male perché per me seguire nel kart le orme di Ayrton guidando il kart della sua squadra sarebbe stato un sogno. Per fortuna il team mi fece comunque correre da semiufficiale ».
- Perché Senna era già un mito allora fra voi kartisti?
«Perché delle sue imprese ci parlavano i più esperti, quelli che il kart lo masticavano da anni e che avevano visto fare a quel giovane brasiliano delle cose assolutamente da pioniere. Ayrton era quello che aveva inventato uno stile di guida speciale. Quello che staccava la mano dal volante in frenata per ingrassare la carburazione; quello che guidava costantemente su due ruote col piede che sembrava saldato al fondo corsa dell’acceleratore».
- Quel primo contatto fra voi fu praticamente a senso unico. Quando invece siete davvero incontrati e parlati la prima volta?
«A Barcellona, al briefing del Gp F.1 di Spagna 1991. Io dopo aver vinto in F.3000 fui ingaggiato all’improvviso da Eddie Jordan a fine stagione per sostituire Michael Schumacher che era passato alla Benetton. Accadde tutto così in fretta che mi sembrava di vivere un sogno. Ma il vero shock non furono le prove, ma il briefing dei piloti la domenica mattina del Gp. Entrare nella stanza e vedere Patrese, De Cesaris, Mansell, Prost, tutti quelli che erano i miei idoli da adolescente, che scherzavano tra loro, mi fece un grosso effetto. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Cominciavo a perdere fiducia in me stesso al cospetto di questi grandi piloti che mi ignoravano. Poi per ultimo entrò lui, Ayrton. Buttò uno sguardo alle sedie rimaste libere, mi vide in un angolino in disparte e io sono certo che venne a sedersi apposta vicino a me, non per caso ma per uno scopo. Mi diede la mano e mi disse: “Ciao, io sono Ayrton”. A me non venne niente di più intelligente da dire che rispondergli: “Lo so”. Capìi chiaramente che lui aveva in quattro e quattr’otto intuito la situazione che io stavo vivendo e aveva deciso di sedersi apposta vicino a me per tranquillizzarmi ».
- Come fai a dirlo? Poteva essere stato un caso, no?
«No perché subito cominciò a parlarmi dicendomi: “Stai tranquillo, la Jordan è una buona macchina. Sei stato fortunato a debuttare con quella. Perciò non fare cazzate: tu sei un buon pilota, fai quel che ti senti, non strafare, la macchina è buona, vedrai che basterà”. Ricordo che me lo ribadì in inglese: “Do not overdrive the car”, non forzare la macchina. Mi colpì tantissimo. Voleva a tutti i costi trasmettermi quel messaggio. Stemperare la mia ansia, mettermi a mio agio. Questo dimostra che era una persona di forti sentimenti ».
Anche se dal punto di vista dei sentimenti è stato spesso messo sotto accusa. Si diceva fosse un egoista, un altezzoso, un arrogante. Quando invece la sua era soltanto timidezza, desiderio di non aprirsi completamente. «Ayrton era un uomo di sentimenti e di forti passioni. Nel bene e nel male. È arrivato a fare il massimo che un pilota di talento può fare alla guida di un’auto da corsa. E lo ha fatto con uno stile unico: osservare il giro secco di Senna in qualifica era come vedere un pittore all’opera; era una cosa meravigliosa, traspariva nel suo gesto atletico il sentimento e l’amore che aveva per l’auto da corsa. Traspariva nel suo guidare la cura e la perfezione per come aveva preparato quel momento».
- Però a volte si faceva trasportare dal suo personaggio quando cominciava a esternare sul misticismo, sulla religione, sul sacrificio. Quando si trasformava da pilota in filosofo, o quasi in oracolo.
«Io non ho mai elogiato lui quando faceva queste esternazioni plateali, quando si metteva a parlare di sacrificio e dedizione. Una volta litigammo anche a distanza per una sua esternazione. Avvenne al Gp di Spagna ‘93, sempre a Barcellona. Io guidavo la Lotus, ero quinto e ruppi il motore alla penultima curva del penultimo giro. Invece di gettarmi nei box, in un impeto di orgoglio schiacciai la frizione per arrivare sullo slancio fino al traguardo e farmi classificare con un giro in più. Ma così facendo riempii di fumo e olio l’asfalto; lui che stava sopraggiungendo in lotta con Schumacher per il secondo posto, slittò sul mio olio e perse la posizione. Si arrabbiò moltissimo dicendo che andavo sanzionato. Io gli ribattei di seguire le regole e parlarne non con la stampa, come aveva fatto, ma con i commissari».
- Colpiva in lui questo doppio aspetto: estremamente prepotente ed egoista come pilota, estremamente corretto e generoso come uomo. Per te quale dei due aspetti prevaleva?
«Era molto generoso come sportivo. Perché cercava di trasmettere qualcosa di sé in quanto sentiva di avere un dovere nei confronti dei tifosi che lo osannavano. Ci sono altri piloti che non comprendono bene il valore di quel momento. Chi ha la grandissima fortuna di fare una cosa così meravigliosa qual è guidare un’auto di F.1 lo deve anche alla gente che lo sostiene e lo incoraggia. Perciò si deve dare qualcosa in cambio a questi tifosi. Invece sempre di più vediamo grandi campioni che alla domanda del cronista rispondono a monosillabi. Dovresti capire che dall’altra parte c’è gente che ti ammira. A loro devi riuscire a dare di più: descrivere la tua passione scavando nel tuo cuore, renderli partecipi delle tue emozioni. Per me, da pilota, è un dovere. Senna era un professore in questo perché l’aveva capito a fondo. Da lì si evince la sua umanità. E anche perché esercitava un magnetismo così grande sui tifosi».
- Immaginiamo un ipotetico “sliding doors”, come nel film omonimo di alcuni anni fa. Le porte del destino si schiudono, cambiano gli eventi di quel 1 maggio a Imola; la Williams curva regolarmente al Tamburello. Che piega avrebbe preso secondo te la storia della F.1 da quel momento in avanti?
«Tante stelle che da allora sono esplose luminose nel cielo non avrebbero brillato così tanto. Senna avrebbe vinto quella corsa e il titolo mondiale del 1994 perché la Williams stava diventando competitiva. Non dimentichiamo che con la stessa Williams con cui lui nelle prime gare dell’anno lottava con Schumacher, Damon Hill prendeva un giro di distacco. Visto che Hill ha lottato fino all’ultima gara con Schumi per il campionato, se tanto mi dà tanto, Senna avrebbe vinto agevolmente».
- E nella “trappola” di Schumacher ad Adelaide ‘94 Senna non sarebbe caduto come un pollo come invece Damon Hill, aggiungo io. E nel 1995 come sarebbe finita?
«Probabilmente avrebbe dominato ancora Senna. E a quel punto sarebbero stati cinque titoli mondiali. Avrebbe eguagliato Fangio. Il suo grande obiettivo. Ma sarebbe stato interessante capire cosa sarebbe potuto succedere dopo...»
- Proviamo ad immaginarlo. Senna ha ormai vinto cinque titoli mondiali, il contratto con la Williams è in scadenza e alla Ferrari non sanno come uscire dalla crisi...
«Invece di prendere Schumacher, che non è il numero uno ma il numero due in quest’epoca, la Ferrari ingaggia Senna. La scelta logica per entrambi. In fondo Ayrton ha sempre sognato la Ferrari e gli italiani sognano lui. Senna vincendo così tanto e facendolo a modo suo è uno dei pochi campionissimi che abbia conquistato il cuore dei tifosi indipendentemente dalla macchina che guidava. Schumacher ha dovuto vestirsi di rosso per ottenerlo. Senna l’aveva conquistato già da avversario della Ferrari. Con Ayrton a Maranello sarebbe stata un’apoteosi ».
- Sarebbe riuscito a vincere altrettanto quanto Schumacher in Ferrari?
«L’unico dubbio è questo: se Senna fosse andato in Ferrari avrebbe saputo ricostruire il team? A Schumi tanti danno il merito - che per me non ha avuto - di aver identificato i problemi della Ferrari e di averli risolti con la sua bravura di collaudatore. Invece no: lì non c’era un problema di vettura, ma una crisi molto più profonda. La grande forza di Schumacher nel 1996, invece, è stata a mio parere il saper imporre al team certe scelte che hanno funzionato. Lui ha preteso un pacchetto di validi tecnici, i vari Byrne e Brawn, che hanno fatto la differenza. Schumacher è emerso come salvatore della patria. Però è l’intero pacchetto che ha funzionato. Secondo me anche Senna avrebbe saputo essere il giusto stratega per guidare la Ferrari fuori dalla crisi in cui si trovava. Magari a modo suo. E in maniera diversa. Ma avrebbe comunque portato Maranello verso il successo. E verso il proprio sesto titolo mondiale. A quel punto, raggiunto ormai l’obiettivo, forse si sarebbe ritirato. Di certo con la Ferrari ci avrebbe fatto divertire ancora per anni. Ci avrebbe appassionato. Avrebbe esteso la striscia dei suoi record. E oggi la storia lo ricorderebbe come il più grande non solo perché lo dicono i nostri sentimenti, ma perché lo provano le statistiche. Purtroppo quelle porte il destino le ha chiuse invece di aprirle...»