La leggenda McLaren

27.07.2010 ( Aggiornata il 27.07.2010 14:25 )

Quando Bruce McLaren se ne andò, il 2 giugno 1970, non aveva ancora compiuto 33 anni. Aveva il volto dell’eterno ragazzo, gli volevano bene tutti, era un punto di riferimento. Scappò dal mondo in punta di piedi, il terribile botto di Goodwood non venne immortalato da nessuna telecamera e ci fu un triste tam-tam in giro per il mondo: Bruce è morto. Piansero in parecchi perché perdere un compagno di strada in quel modo lascia a bocca spalancata, ti fa pensare al destino e alla sua ingiustizia, perché Bruce aveva appena concluso l’ennesima lotta contro sé stesso e stava avviandosi verso un finale di carriera sereno, soddisfacente, con un futuro da grande costruttore assicurato e un solido passato da asso dell’automobilismo alle spalle. Stava infatti concretizzando ciò che aveva ipotizzato molti anni prima, raccogliendo il frutto della propria ostinazione, di una cocciutaggine che non traspariva dai lineamenti dolci e da quello sguardo sempre intriso da una sorridente malinconia. 




INFANZIA CON LE STAMPELLE
Chi ha dimestichezza con le cose neozelandesi o con il continente australe in genere, lo sa. È gente tosta, semplice, che crede nei valori fondamentali e che pur nascendo in un’isola ha quasi un American Dream da portare avanti. La Nuova Zelanda è terra di magia e di colore verde, di tramonti speciali, di silenzio e di grandi aziende agricole, di pecore e allevamenti, di rugby e grandi bevute. I neozelandesi sono forti, atletici, potenti, se accade di incontrarli sul cammino si sa che non si arrenderanno mai, nemmeno all’evidenza, ma ci proveranno fino all’ultimo. Gente tosta. McLaren era uno di loro con l’aggravante di un benvenuto nella vita di pessimi auspici. Prendete un bimbo, privatelo della gioia dei suoi 9 anni, bloccatelo, impeditegli di correre a piedi con gli amici, di inseguire le prime fidanzatine, di calcare i campetti di rugby. Ditegli, come accadde a Bruce Leslie McLaren, nato il 30 agosto 1937, che qualcosa non funziona, che ha contratto la malattia di Perthes nella forma più grave. Costringetelo a dire basta alla sua infanzia, a restare tre anni in terapia, a muoversi con l’ausilio delle grucce e a rassegnarsi ad avere una gamba più corta dell’altra per sempre, a smettere di giocare al suo sport preferito, il rugby. È ingiusto, è assurdo, a un bambino queste cose non dovrebbero succedere. Ma a Bruce McLaren accadde. Avrebbe dovuto scattare come un ronzino dietro ai purosangue, già sconfitto, in partenza. Invece no, quella sofferenza, quel disagio fisico, quel maledetto colpo del caso furono i comuni denominatori della voglia di farcela, di arrivare ugualmente, non nel gruppo, non con gli altri, ma davanti, per primo. Camminava con le stampelle e i muscoli delle braccia divennero tesi, arrotondati, potenti. Quando le gettò nella spazzatura, riuscì a celare la zoppìa attraverso speciali suole ortopediche che pareggiavano o quasi la lunghezza della gamba malata con quella sana. Papà Les capì che suo figlio non avrebbe mai vissuto nell’ombra, non si sarebbe mai sentito differente dagli altri. Con Bruce aveva un rapporto speciale: se lo portava nella propria officina, gli permetteva di curiosare tra gomme e motori nella stazione di servizio a Remuera, nei sobborghi di Auckland.

PRIMA VITTORIA A 15 ANNI
Gli anni con le stampelle vedevano Bruce darsi da fare: montava, aiutava. La meccanica gli piaceva, le voci delle automobili emettavano urla che nella sua testa andavano a sostituire l’Haka il canto di guerra maori degli All Blacks. Fu tra i 9 e i 13 anni che McLaren junior vide davanti a sé la strada della vita. Ne ebbe la certezza quando in officina giunse un’Austin 7. Papà Les non era a digiuno di corse: aveva gareggiato in moto. Quando salì su quella vettura il signor McLaren la definì troppo potente per le sue capacità, avrebbe voluta venderla ma Bruce si oppose, a lui la “7” andava a genio, ci saliva a volte non visto dal genitore, ci giocava. A Bruce, Les non poteva dire di no. E anche se gli avesse negato il permesso, contro il figliolo non l’avrebbe avuta vinta. Perché Bruce sapeva già guidare a 14 anni, perché Bruce quella macchina la sentiva molto sua, perché Bruce aveva deciso di correrci. E lo fece, di nascosto dal padre, a 15 anni, appena ottenuta la patente, in Nuova Zelanda le cose erano più semplici che in Europa. Se ne andò una mattina, «tanto per fare un giretto», disse a Les e invece si prese ntò a una corsa in salita, una delle tante che hanno tenuto a battesimo una generazione di piloti di lingua anglosassone. Il pomeriggio la riportò intonsa a casa. Varcò il portone dell’officina, poi si presentò a Les con una coppa: aveva vinto la prima corsa della carriera, dimostrando al genitore che quell’Austin era meno “terribile” e inguidabile di quanto l’avesse giudicata. La prima pietra per la costruzione della leggenda era stata posata.




L’INCONTRO CON JACK BRABHAM
Tra Bruce e l’Austin scoppiò l’amore. McLaren jr si divideva tra gli studi in ingegneria e la preparazione della sua auto. Nei week end andava a correre, vinceva quasi sempre, era uno sbarbato con un grave difetto fisico da nascondere, ma con il piede destro, il fondoschiena, le braccia e la testa del campioncino. Molto intelligente Bruce: alla prestazione giungeva attraverso la tecnica. Conosceva in ogni sua sfumatura il mezzo meccanico, s’inventava modifiche, le provava e collaudava, le azzeccava. Non aveva dubbi sul futuro, non c’era bisogno che sfogliasse la margherita. Sarebbe diventato un pilota professionista. Nel 1956 McLaren compì il salto di qualità: non aveva ancora compiuto 19 anni. Acquistò una Cooper-Climax di F.2 usata: non una delle tante, ma quelle di Jack Brabham, l’orso australiano. Trascorse tutto l’inverno a inviare lettere a colui che sarebbe diventato 3 volte iridato per avere delucidazioni sulla monoposto. Il silenzioso Brabham rimase stupito da quella curiosità, si segnò il nome del ragazzino. Non lo trovava impertinente, anzi, bensì pieno di interesse e di voglia di fare. Nel 1957 Jack, non ancora Sir, seguì le evoluzioni di Bruce in pista, capì che dietro la curiosità esisteva il talento.
Quando nell’inverno Brabham giunse in Nuova Zelanda per il Gp, inserito nella Coppa Tasmania, portò con sé una Cooper in più da destinare a Bruce. E McLaren non lo deluse: si aggiudicò il concorso “A Driver for Europe”, la borsa di studio per il miglior talento neozelandese: per Bruce il 1958 sarebbe stato scandito da una Cooper ufficiale e dalla residenza in Inghilterra sotto l’ala protettrice di Jack Brabham. Il mentore Jack insegnava allo sbarbato Bruce i segreti del mestiere. Bruce imparava in fretta a tal punto da essere schierato il 3 agosto del 1958 al via del Gp di Germania, che all’epoca e fino al 1967 permetteva anche alle monoposto di F.2 di prendere il via. Il Nürburgring non è mai stato circuito semplice: tra tutti è quello che ancora oggi ha il maggior fascino, presenta le maggiori difficoltà. Chi non ha talento nella Nordschleife annega. Su 26 qualificati Bruce McLaren si classifica 15° e 1° tra coloro che guidano le meno potenti monoposto della categoria cadetta. In gara dietro a Brooks, Salvadori, Trintignant e von Trips, al 5° posto, c’è lui, vincitore di categoria. A fine anno arriva 12° assoluto e 2° tra le F.2 al Gp del Marocco, quello dell’affermazione nel mondiale costruttori della Vanwall e della morte di Lewis-Evans. Così diventa naturale pensare a Bruce McLaren come componente del team Cooper nel mondiale F.1 del 1959. A Montecarlo arriva 5°. Ripete il risultato in Francia. Ad Aintree diventa il più giovane pilota nella storia a salire sul podio, conquistando il 3° posto. E dopo i ritiri in Germania, Portogallo e in Italia, Bruce entra nelle statistiche di ogni tempo: il 12 dicembre a Sebring vince il Gp degli Usa. Ha appena compiuto 22 anni, è il più giovane ad avere colto il successo in F.1. Il suo record resisterà per molti anni.
L’affermazione coincide col primo titolo di Jack Brabham. Il presente della Cooper e il suo futuro sembrano assicurare al team vita facile per il prossimo quinquennio. In pochi, tra i giovani del mondiale, posseggono il talento scientifico di Bruce, la sua visione tattica, la sua precisione nel mettere a punto la vettura. McLaren vince il primo Gp del 1960 a Buenos Aires. Poi fa da scudiero a Brabham ed è 2° nel mondiale, andando a podio in tutte le corse alle quali partecipa, tranne che a Zandvoort. In inverno gareggia in Oceania nella Coppa Tasmania, continua a frugare tra i segreti delle officine e dei progettisti e si ritrova senza il proprio punto di riferimento a fine 1961, quando Brabham decide di diventare costruttore. Charles Cooper che ha già perso la prima guida, non vede di buon occhio la curiosità di Bruce negli affari della meccanica. Per lui il giovane McLaren dovrebbe essere solo un pilota. Conosce le sue simpatie per Brabham e soprattutto teme che gli possa passare informazioni. A poco a poco i rapporti si raffreddano ma Bruce è una persona amabile che alla Cooper regala risultati importanti anche in periodi di vacche magre. Nel 1962 McLaren vince a Montecarlo, tiene su una baracca che sta cedendo sulla spinta della maggiore competitività di Brm e di Lotus. Cooper non può fare altro che assecondare il desiderio del suo pilota, quando a fine 1963, Bruce gli chiede il permesso di fondare una propria scuderia, la Bruce McLaren Motor Racing Limited per schierare due Cooper nella Coppa Tasmania con motore Climax 2700. 



I piloti: McLaren stesso e un giovane americano di nome Timmy Mayer. Come team manager viene convinto il fratello di Timmy, Edward Mayer detto Teddy. Il capomeccanico è portato in dote dai Mayer: si chiama Tyler Alexander. Il team domina la serie ma Timmy Mayer muore durante le prove dell’ultima corsa. Suo fratello Ted decide di restare a fianco di Bruce, così come Tyler Alexander. Nasce la McLaren. Pur continuando con la Cooper in F.1, Bruce si convince sempre più a diventare costruttore. Da Roger Penske acquista la Zerex Special, un telaio ex Cooper F.1 modificato per ospitare due posti. La ribalta e la ricostruisce secondo i propri concetti, la porta in corsa a Mosport in Canada vincendo, poi la presenta in Europa. Nel frattempo sta realizzando la prima McLaren della storia: la M1 che nasce nel Middlessex a Feltham. È una biposto a motore Oldsmobile. Il 26 settembre 1964 debutta a Mosport con una vittoria. Da questo momento Bruce McLaren si divide: è pilota professionista tra i più capaci. Corre ovunque: nel 1965 per la Cooper in F.1, per la Ford con la leggendaria GT40, nelle sport con la sua vettura auto costruita. È l’ultimo anno con la squadra che lo ha tenuto a battesimo nelle corse europee e che lo ha fatto grande nel mondiale. Nel frattempo Bruce ha incontrato un giovane ingegnere molto promettente: si chiama Robin Herd, ha collaborato spesso con l’industria aeronautica, è esperto di materiali e aerodinamica ed è questo incontro che determina la decisione finale: lasciare la Cooper e imitare in tutto e per tutto Jack Brabham, diventando costruttore al 100%. C’è solo un problema: trovare un motore competitivo per la formula 3 litri che è andata a sostituire la gloriosa 1,5. Bruce è pilota ufficiale della Ford,Teddy Mayer un abile stratega.
Da Detroit ottengono il permesso per sperimentare un propulsore derivato da un Ford 4700 di Formula Indy, ridotto a 3000cc. Mayer si fa promettere un aiuto finanziario dal colosso Usa nel caso il motore ottenga buoni risultati. La prima McLaren di F.1 è svelata a fine 1965: è siglata M2B, ha un telaio disegnato da Herd e realizzato in Mallite, un laminato composito. L’idea è rivoluzionaria ma la prima McLaren paga l’assenza di un motore competitivo. Dei 330 cv originari, il propulsore ne riesce a erogare solo 300, molto meno del Repco. Inoltre si rompe spesso. È un disastro. Dopo appena un Gp, la McLaren accetta l’offerta della Serenissima del Conte Volpi che mette a disposizione del team un Ford V8 modificato dall’ingegner Massimino, ex Ferrari, e sviluppato dall’ex meccanico di Stirling Moss, Alf Francis. I cavalli sono ancora meno, appena 260, ma è ben più robusto, in teoria, dell’altro che nel frattempo giace al banco in fase di modifica. La collaborazione si rivela disastrosa e quando il Ford V8 originale torna in pista, la McLaren soffre sempre rispetto alla concorrenza. Bruce si consola vincendo la 24 Ore di Le Mans in coppia con Chris Amon sulla Ford GT40. 



L’anno seguente McLaren monta un Brm nella speranza che la situazione migliori: arriva 4° a Monaco, ma a tre giri e poi fa collezione di ritiri. Le sue vetture, in compenso, diventando le regine della Can Am con Bruce che vince il titolo del 1967. Ma il chiodo fisso si chiama F.1, dove le cose non girano per il verso giusto a causa dell’ormai accertata ipercompetitività del Cosworth DFV e dell’affidabilità del Repco. Ad aumentare l’amarezza di Bruce giunge la notizia prima della fine dell’anno che Robin Herd abbandonerà il team per andare a lavorare al progetto della Cosworth 4 ruote motrici di F.1. In tempo utile, però, per aver ultimato una nuova monoposto, la M7A che sarà dotata di un motore competitivo, il Cosworth DFV. Al posto del geniale Herd viene promosso il suo assistente, Gordon Coppuck. Come nelle migliori tradizioni, la musica cambia in meglio nei momenti di difficoltà. Bruce compie il colpo del mercato invernale assumendo in squadra il campione del mondo Denny Hulme. I due dominano la Can Am e soprattutto diventano presenze importanti in F.1.
La M7A è semplice, raffinata, adattabile, il Cosworth è il degno compagno di un telaio sul quale Herd ha corretto gli errori dei primi modelli, raggiungendo la quasi perfezione costruttiva. Dopo due ritiri in Spagna e a Monaco, Bruce firma l’atto finale del proprio sogno: il 9 giugno vince il Gp del Belgio. Tutto in poco più di 12 anni. La McLaren lotta anche per il titolo con Hulme, che vince a Monza, senza alettone per aver più velocità e in Canada. La voglia di McLaren per la tecnica lo porta anche al successo in F.Indy. L’inesauribile Bruce, però, vive in modo complesso il 1969: Bruce è 3° nel mondiale di F.1 ma la McLaren vince solo l’ultima corsa dell’anno con Hulme in Messico. Il pilota-costruttore capisce che ormai il dividersi nella doppia veste può procurare più danni che benefici. Il fido Teddy Mayer lo indirizza a occuparsi più degli aspetti gestionali, cerca di convincerlo ad ipotizzare il ritiro dalle corse. Potrebbe accadere nel 1971 e per Bruce inizia a palesarsi il dubbio se non sia il caso di smettere. Ma guidare è una droga: pilotando le proprie creature può comprendere se la strada intrapresa è giusta e sbagliata. Non molla, almeno nel 1970 decide di proseguire in F.1. Deve compiere 33 anni. Non c’è ragione per dire basta. Almeno in quell’anno perché va ancora forte ed è un riferimento per chiunque. Nel 1970 inizia la stagione con un ritiro a Kyalami, arriva 2° al Jarama, poi abbandona il campo a Montecarlo con una sospensione rotta. È il suo ultimo Gp. Il 2 giugno si reca a Goodwood per collaudare l’amatissima M8D Can-Am che Hulme non può sviluppare perché a Indianapolis ha subìto un bruttissimo incidente ed è momentaneamente fuori gioco. Bruce adora guidare i 650 cv del motore Chevrolet. Si allaccia le cinture, mette in moto, prende la via della pista, che ormai da anni è fuori da qualsiasi giro di corse importanti e non rappresenta il massimo per la sicurezza. All’uscita di una curva, perde il retrotreno, la vettura caracolla, finisce contro una postazione in disuso dei commissari. Bruce muore sul colpo, forse con quel sorriso malinconico che lo caratterizzava, con la serenità di sapere che ciò che aveva fondato, grazie a Teddy Mayer, non sarebbe morto con lui. Aveva raggiunto il proprio scopo. La malattia, la lotta per superarla ne avevano fatto un uomo forte. L’insensato destino gli aveva offerto le spiegazioni per quelle stampelle e per la gamba più corta. Ma non avrebbe mai spiegato a chi gli stava accanto il senso di una morte in un normale giorno di giugno, quando la routine del lavoro ha solo una cosa da regalarti: la fine.

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