Meravigliosamente bella . Se tutte le auto da corsa sono d’annunzianamente femmine, la Ferrari 330 P4 del 1967 è la più femmina di tutte. Superbamente armoniosa, metallicamente flessuosa, fascinosamente complessa. Capace di cambiare vita e carriera a chiunque l’abbia sfiorata, portandola al massimo. In grado di ridicolizzare la più potente e clamorosa armada mai vista nella storia delle corse, quella Ford, nel lasso di corsa più severo, le 24 ore, e per giunta a casa sua, a Daytona. Sì, femmina perché spiazzante. La sera del 6 febbraio 1967 sui telegiornali statunitensi i composti annunciatori si schiarirono la voce imbarazzati, recitando più o meno la stessa frase: Davide ha battuto Golia. Poco importa che poi a Le Mans il gigante ebbe la rivincita. La guerra, piuttosto che la battaglia, fu infine appannaggio della leggiadra P4 che nella classifica finale riservata agli Sport Prototipi oltre 2000 cc ebbe ragione della Porsche con due beffardi e decisivi punti di distacco. Femmina perché rara e sfuggente. Ne furono costruite solo quattro, con numeri di telaio 0856, 0858, 0860 più la 0846, che è una P3 aggiornata alle specifiche P4. Femmina perché dal portamento strepitoso e sprezzante. La più gloriosa è quella marchiata 0858, al top a Daytona, dove al traguardo le Rosse inscenarono sontuose una stordente parata, simbolo d’umiliante trionfo. Con due P4 ufficiali al top e una terza, la più datata 330 P3/P4 (ufficialmente designata 412) schierata dalla Nart di Luigi Chinetti, a completare l’apoteosi. Missili rossi paralleli affondati nel cuore della corazzata Ford. Femmina perché pensata da un uomo, Mauro Forghieri, che 45 anni dopo la ama ancora come il primo giorno: «La P4 nasce da un’idea molto semplice - racconta il suo progettista - battere la Ford. Gli americani stavano progettando l’arma totale, la MkIV, e il tema tecnico era interessante: surclassare i loro motori 7000 cc con un propulsore di 4000 cc. Noi avevamo la P3, ma con un’unità vecchia, monoalbero. Avevamo bisogno almeno di 1000 giri in più di rotazione. Da lì la mia idea di utilizzare per il mondiale marche 1967 il 12 cilindri 3 valvole con cui Scarfiotti aveva vinto il Gp d’Italia F.1 1966. Rispetto alla P3, simile nelle forme, la P4 muta completamente filosofia, perché ha un cambio nuovo, con frizione tra il cambio stesso e il motore, come in F.1, e un propulsore maggiorato nella cilindrata e inedito per l’endurance, capace di buona coppia e discreto allungo. In pratica è una macchina da Gran Premio carrozzata». Femmina, insomma perché speciale anche nelle forme: «Aerodinamicamente - sottolinea Forghieri - la P4 ha meno resistenza della P3, più deportanza e un assetto più picchiato, studiato nelle gallerie del vento di Pininfarina e di Stoccarda. Ed è un frutto maturato in un megatest invernale a Daytona dove andammo in dodici, una cosa eccezionale per la Ferrari di quei tempi, mentre per la P3 avevamo fatto solo una simulazione di 24 Ore a Balocco, nella quale mentre cronometravo avevo in testa una specie di profilattico di nylon per difendermi dalle zanzare. Vado oltre: la P4 aveva più depressione nella parte posteriore e più aria che passava sotto il veicolo, con i flussi interni migliorati. Non era mai parallela a terra, aveva quasi sempre il muso giù ed esprimeva deportanza costante».
Femmina perché stordente perfino nei dettagli. Prosegue Forghieri: «Era impreziosita da particolari curatissimi, da orologeria svizzera. Per esempio, avevo rinunciato al radiatore classico per l’olio, ricorrendo a tubi alettati per evitare perdite di carico. Già nei test invernali a Daytona capimmo di avere in mano un’arma micidiale. Non tanto nei tempi sul giro, quelli potevano farli pure le Ford, quanto nella costanza, nel passo. Potevamo friggerli e così andò. Forse scoprimmo le carte presto, pungolando la loro terrificante reazione in chiave Le Mans, che fu vinta dalla Ford, ma a fine stagione il campionato fu nostro. La P4 ce l’aveva fatta». Femmina perché ammaliante a prima vista. Da lasciare senza parole. E capace di restare tale a dispetto del tempo che passa, dei decenni che la sfiorano come carezze lievi quasi fossero la luce degli sguardi ammirati di generazioni di appassionati, fortunati pur solo di poterla contemplare. «Eppure - chiosa Forghieri -, non esiste un segreto per la sua bellezza. Nell’ufficio tecnico Ferrari ci muovemmo come architetti d’alta scuola, per i quali l’esterno diventa un’acquisizione dell’interno di ciò che viene progettato: ciò che è funzionale, alla fine, non può che essere bello. L’unica cosa che mi dispiace, è averne fatte costruire solo quattro. Ora una P4 all’asta va via a suon di 30-32 milioni di dollari... Mi viene da ridere a pensare che proprio io andai da Enzo Ferrari a metà 1967 e gli dissi: “Basta così.Ormai che senso ha farne altre?”». Già. Femmina, pure perché indimenticabile e svanita presto. Più attesa e rimpianta che goduta appieno. Presenza fatta di qualità e non quantità. Perché le amanti fatali insegnano che a volte “less is more”. Il meno è più. Se ne andò via, portata a 4,2 litri e alesaggio maggiorato a 79 mm, a correre la Can-Am. Poi finì in Australia e da matura e indipendente - perché vecchia non divenne mai, nemmeno ora -, si fece onore in Sudafrica, nella serie Springbook. E se è vero che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, il mito Ferrari è un concetto maschio che nella sua crescita edificatrice tanto deve alla muliebre 330 P4. Vestita solo dall’aroma ispirato a gocce d’olio nebulizzato dagli scarichi del 12 cilindri 3 valvole. La fragranza preferita dalla più femmina di tutte.
FU L'APOTEOSI DELLE 3 VALVOLE
Forghieri adattò il motore che aveva trionfato a Monza '66 in Formula 1
Nel solco della tradizione originaria Ferrari, la 330 P4 deve il suo numero di sigla alla cilindrata unitaria del motore 3 valvole, quindi 330,62 cc, in questo caso approssimato per eccesso. Pur simile esteticamente alla P3, la P4 varia oltre che nella filosofia motoristica di base per tanti piccoli particolari (ad esempio nelle prese d'aria sugli sportelli e nelle forme delle rispettive aperture della ruota di scorta), anche se in sintesi va ricordato che la P4 è più lunga di 1,5 cm, più larga di 3 e più alta di 5. Altra differenza è quella con la 412 P detta anche 330 P3/P4, cioè le vecchie P3 ricondizionate e vendute ai privati (Maranello Concessionaires, Ecurie Francorchamps, Nart, Filipinetti e Piper) nel '67, visto che in quel momento la Ferrari non cedeva le P4.
LA SCHEDA TECNICA DELLA 330 P4
MOTORE - Tipo: V12 di 60°, in posizione posteriore centrale longitudinale, con funzione portante; Cilindrata: 3989,56 cc; Cilindrata unitaria: 330,62 cc; Alesaggio e corsa: 77x71 mm; Compressione: 11:1; Potenza: 450 cv a 8200 g/m; Distribuzione: a 2 alberi a camme in testa per bancata, 3 valvole per cilindro; Cambio di velocità: Ferrari a 5 rapporti; Frizione: a dischi multipli;
CARROZZERIE E TELAIO - Tipo: berlinetta biposto corsa GR.5, con carrozzeria integrale in lamiera di alluminio; Telaio: a traliccio tubolare in acciaio; Freni: a disco sulle 4 ruote; Sterzo: a cremagliera; Passo: 2400 mm; Carreggiata anteriore: 1488 mm; Carreggiata posteriore: 1450 mm; Lunghezza: 4185 mm; Larghezza: 1810 mm; Altezza: 1000 mm; Peso a secco: 792 kg.
RAPPORTO PESO/POTENZA: 1,777 kg/Cv
LA P4/5 COMPETIZIONE OGGI VOLA SULLE ALI DEL MITO
La vettura del milionario statunitense Glickenhaus è un omaggio alle forme della 330 P4, a testimoniare una storia che non muore mai
In pista qualcosa resta e aleggia ancora oggi, della Ferrari 330 P4, quasi fosse un sogno diventato immortale realtà. Certo, guai a chiamarla Ferrari, visto che all’anagrafe è apocrifamente P4/5 Competizione, clone derivativo-filosofico rigorosamente non certificato dalla Casa madre. Ma alla sua leggendaria progenitrice forghieriana il prototipo s'ispira chiaramente nelle linee di pura e classicissima bellezza. Nasce dalla passione del ricchissimo collezionista americano James Glickenhaus, già innamorato proprietario della Ferrari 330 P3/4 del 1967. La P4/5 by Pininfarina, nelle forme è stata armonizzata dallo stilista capo Ken Okuyama, con oltre 200 componenti create appositamente rispetto alla Ferrari Enzo da cui deriva, ed è stata presentata il 18 agosto del 2006 al Concorso d’eleganza a Pebble Beach. Il secondo step è stato quello dell’utilizzo in competizione dell’idea P4/5, perché come tutti i collezionisti il patron Glickenhaus segue un tema ossessivamente preciso: adora vetture che vantino un consistente pedigree agonistico pur avendo l’omologazione stradale. Questo porta Glickenhaus a concepire un’operazione complessissima di trapianto-espianto. Per avere il titolo di omologazione stradale, negli Usa si procede all'acquisto di una Ferrari 430 Scuderia e dalla Scuderia Italia viene rilevata una 430 Gt2 espiantata di motore, cambio e sospensioni, organi tutti trapiantati sulla prima, che vanta le linee P4/5 Competizione in piena armonia col tema collezionistico-filosofico di Glickenhaus. Il progetto è ascritto a Andrea Adamo, l’aerodinamica curata da Sergio Beccio. Il debutto alla 24 Ore del Nurburgring 2011 con Larini, Giovanardi, Cappellari e Salo è più che dignitoso, con un 39. posto assoluto in classe E1-Xp2. E nel 2012, anno del 45° anniversario della P4, la nuova nata si fa onore alla maratona della Nordschleife, seguita non più dalla N-Technology che l’aveva progettata, ma dalla Lm Gianetti di Torino, dotata di Kers e in gara come vettura di categoria speciale, la E1-Xp. Con Larini, Giovanardi e Lauck giunge infatti 12esima assoluta, pur penalizzata dal centinaio di chili in più dovuti al dispositivo ibrido piazzato nel vano passeggero. L’opera d’arte che fu di Forghieri, fattasi sogno e poi clonata in un'idea nuova, quasi mezzo secolo dopo, sfreccia ancora.
AMON SULLA P4 COLSE I SUCCESSI PIU' BELLI VINCENDO IL TITOLO MARCHE '67
Il neozelandese svela tutti i segreti della Ferrari che amò e condusse al trionfo, iniziando la sua stagione con Bandini e finendola con Stewart
Chris Amon, neozelandese classe 1943, è arcinoto per essere considerato il più grande pilota a non aver mai vinto un Gp iridato di F.1. Ma nell’endurance trionfò nelle corse più importanti e nelle edizioni più belle di sempre, con Ford a Le Mans nel 1966 e poi, in quel magico 1967, su Ferrari P4 a Daytona. È lui l’uomo giusto per capire mito e segreti della P4: «La Ferrari 330 P4 è uno dei prototipi più proporzionati di sempre - spiega Chris -. E non solo dal punto di vista estetico, visto che è stupenda, ma anche per il rendimento in pista. Rispetto alle Ford che ho guidato in prova e in gara, la Gt40, la MkII e la J-car, la P4 era molto più agile, cedendo alle vetture americane sul piano della potenza e della coppia. Ma a Daytona, pur pagando pegno sul banking, potevamo fargli dei giri intorno sul tormentato infield. Per capire la differenza, le Ford erano da tracciati ultraveloci con 7 litri di cilindrata, mentre la P4 andava bene ovunque. Prendiamo Le Mans, pista velocissima. La Ford MkIV pesava circa 1225 kg, mentre la P4 in assetto gara 1000 kg secchi. Questo ci favoriva in accelerazione, considerando anche la minor sezione frontale - 140 contro i loro 150 decimetri cubi -, e il minor peso ci dava vantaggio anche in frenata. Però ogni volta che percorrevamo il rettilineo dell’Hunaudiérés sapevamo di perdere 2”5 solo in quel tratto, che nell’ottica di una corsa di 24 ore vuol dire partire con un quarto d’ora preciso di svantaggio. Cioè proprio i 4 giri che la P4 di Parkes e Scarfiotti si ritrovarono a pagare alla fine sulla MkIV vincente di Gurney-Foyt». La sua più bella vittoria endurance? «Il trionfo di Daytona ’67 con la Ferrari. E l’ho conseguito con Bandini. Visto quello che capitò tre mesi dopo al povero Lorenzo, morto in F.1 a Montecarlo, ho fatto tesoro di quei momenti meravigliosi, ancora felici ma per poco. Fu bello anche per lui, che tirò fuori molta credibilità da quella vittoria». A chi venne l’idea dell’arrivo di Daytona con le tre Ferrari in parata? «Al diesse Ferrari Franco Lini e fu una bella pensata perché quell’immagine fece il giro del mondo e divenne universalmente sinonimo di trionfo. Lo è ancora oggi, no?». E da incorniciare in quel fantastico ma terribile 1967, c’è l’apoteosi P4 di Monza, alla 1000 Km, sempre con Bandini. «Fu una sfida al calor bianco con la velocissima Chaparral, protagonista di una gran battaglia con Lorenzo. Ancora mi ricordo quanto era sconnessa la pista d’alta velocità. Durante la corsa pensai: “Grazie a Dio oggi guido una Ferrari, senz’altro la vettura più robusta”. Ebbi ragione. Fu proprio per quello che vincemmo. Perché la P4 era pure magnificamente affidabile, lì non avevamo rivali. È strano, la P4 corse col tetto e senza e a Daytona nei test non trovammo una gran differenza tra le due soluzioni, tanto che usai la vettura aperta a Le Mans, mentre a Monza corsi con quella chiusa. E per far capire il contesto in cui la P4 divenne grande, ricordo ai più giovani che il 1967 fu un anno per certi versi disumano. Ancora oggi conservo una foto dell’inverno 1966, durante il quale per battere la Ford, per umiliarla, provammo molto la nuova Ferrari simulando la 24 Ore di Daytona. In un momento di pausa ci scattarono una foto a me, Bandini, Scarfiotti e Parkes. Uniti, sorridenti, felici. Tempo pochi mesi e io ero restato il solo a poter ancora sperare nella carriera di pilota. La chiave del leggendario trionfo fu quel test, in cui i più veloci fummo io e Bandini. Io volevo il posto in F.1 e mi impegnai al massimo facendo da pungolo a Lorenzo. Quanto a Parkes e Scarfiotti, non è che con lui legassero più di tanto. E, a proposito di 1967, quando penso alla P4 ancora oggi ho rimpianti per quell’edizione della 24 Ore di Le Mans...». Racconti pure... «Volevo vincere per onorare la memoria del caro Lorenzo, ma tutto sfumò per colpa di una foratura. Con la gomma a terra, la sospensione posteriore cominciò a strisciare per terra e a fare scintille, tanto che si sviluppò un incendio. Fine della storia. Fu un vero peccato, perché contro le velocissime Ford MkIV stavamo andando davvero alla grande, al di là dei calcoli logici che ho spiegato prima. Ricordatevelo: la vittoria di Gurney e Foyt sarebbe stata tutt’altro che scontata, senza quella gomma bucata». Ma la gara decisiva di Brands Hatch fu l’apice di un’annata da ricordare, col titolo vinto per due punti sulla Porsche: «La Ferrari aveva ingaggiato il giovane ma già grande Jackie Stewart e l’aveva messo in coppia con me. Toccava a noi inferire il colpo decisivo alla Porsche. In gara accusammo una perdita di carburante, non ricordo perché, forse per problemi al tappo, eppure riuscimmo a finire secondi e a vincere il titolo per la Ferrari. Poi con la P4 modificata ho corso anche nella Can-Am, ma l’eccessivo peso e la poca potenza non ci davano possibilità contro la Lola di Surtees e la McLaren di Bruce McLaren».