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Legends 4 AS 27 - Lotus 79 e Mario Andretti

Legends 4 AS 27 - Lotus 79 e Mario Andretti

18 feb 2013





La Lotus 79 non è una semplice monoposto, ma un’opera d’arte sfrecciante. La vedi black and gold, nei fiammanti colori Jps, e più che d’un’auto noti l’impatto estetico di una gran dama in abito da sera. Incarna qualcosa di completamente diverso dal passato e di assolutamente omogeneo al futuro. Oggi, 34 anni dopo il suo debutto, a guardarla bene la 79 Jps mkIV non è invecchiata d’un giorno. Se un alieno chiedesse cos’è una F.1, piuttosto che mostrargli un qualsiasi modello 2012 a naso scalinato si farebbe più bella figura a spedirgli il jpeg della murena nera che rese imprendibili Mario Andretti e Ronnie Peterson nel corso della stagione 1978, dal Gp del Belgio in poi. Perché rappresenta l’equilibrio perfetto tra estetica ed efficacia. Vincente a guardarla ma bella anche nei dettagli, per esempio con quel leggiadro roll-bar carenato che sembra nato per farla ammirare quasi folgorati, a rischio di Sindrome di Standhal. Perché nella hall of fame della F.1 la 79 ci sta come la Gioconda al Louvre. Condannando, all’apparire, rivali e discendenti a inchinarsi alla sua filosofia e obbligandole ad affinarla e giammai a disconoscerla. La 79 è frutto dell’ultimo vero colpo di genio effettivo di Colin Chapman. Non arriva improvvisa come uno sparo nel buio ma è frutto di mesi e mesi di studi e miglioramenti al tavolo da disegno e in galleria del vento, accompagnati da un’applicazione pratica che inizia dal 1977, con appendici a spazzola testate sulle fiancate di una Lotus che dà i primi forti segnali di uscita da una lunga crisi d'identità. La mk78 che arriva infatti è uno passo deciso nell’ignoto e presenta la prima rudimentale materializzazione dei principi delineati da Peter Wright e Martin Ogilvie in un gruppo di lavoro che comprende ovviamente lo stesso Chapman oltre a Geoff Aldridge e il vecchio Tony Rudd. Lo scopo in teoria sembra affascinante quanto pazzesco: a parità di motore e potenza e senza sensibili variazioni di spese realizzative, si tratta di trasformare una monoposto in una vera e propria macchina da guerra in grado di demolire avversari e record impennandone magicamente le prestazioni, soprattutto in curva. Come? Non inventando nulla ma applicando aerodinamicamente e strutturalmente uno scibile antico. Quale? L’effetto Venturi, fenomeno studiato e codificato dall'omonimo fisico italiano e noto - ai meno, ovvio - sin da fine 1700. La monoposto si comporta come un’ala rovesciata grazie anche alla funzionalità dei pontoni laterali, nei quali vengono alloggiati i radiatori. Grazie alla presenza di appendici aerodinamiche mobili che agiscono a serranda, le cosiddette minigonne, la parte inferiore della vettura è convenientemente sigillata tanto da costituire a tutti gli effetti un canale convergente-divergente, ovvero un condotto di Venturi. 



L’aria convogliata subisce quindi un’accelerazione all'interno, provocando un sensibile decremento della pressione statica. In parole povere, si ottiene così un fortissimo aumento della deportanza. In sintesi, la vettura è in grado di percorrere le curve restando perfettamente incollata al suolo, accusando soltanto un trascurabile incremento dei valori della resistenza aerodinamica. Effetto suolo, tubo Venturi, minigonne, vetture ala. In pochi mesi il mondo della F.1 cambia letteralmente terminologie e punti di riferimento perché i due missili terra-terra di Chapman riscrivono il futuro della categoria. In gara la si vede per la prima volta nel piovosissimo e confuso weekend dell’International Trophy a Silverstone 1978, corsa non valida per il mondiale, che vede ben presto Mario Andretti ritirato. Ma pochi giorni dopo, al Gp del Belgio a Zolder, la 79 torna in scena bella cattiva, in un solo esemplare nelle mani del pilota statunitense e per gli avversari proprio non v’è scampo. Poi il bis in Spagna, sempre con “Piedone”, ma in Svezia a sbaragliare il campo ci pensa la Brabham Bt46B fan car, ossia dotata di ventilatore, che affida alla ventola la creazione dell’effetto sigillo così elegantemente assicurato dalle fattezze della 79. Col nuovo aspirapolvere rosso Niki Lauda sbaraglia il campo sub-iudice e poco dopo la Federazione Internazionale convalida la vittoria decretando però la soppressione definitiva della ventola. La Lotus a quel punto non ha più rivali e trionfa con Mario in Francia, Germania e Olanda, lasciando allo scudiero Peterson il successo in Austria, al termine di una delle corse più bagnate, rocambolesche e spettacolari della F.1 che fu. Il giorno dell’incoronazione iridata è previsto nel weekend del Gp d’Italia e Mario è campione, ma le cose vanno tutte storte. Già nel warm-up Peterson ha problemi che lo portano a scegliere per la gara il muletto mk78. Poi, al via, una manovra improvvisa di James Hunt scatena una carambola infernale dalla quale Vittorio Brambila esce gravemente ferito alla testa e Ronnie Peterson con fratture agli arti inferiori. Contrariamente alle prime notizie che vogliono solo l’italiano in pericolo, poche ore dopo lo svedese volante muore per embolia grassosa. Al suo posto la Lotus ingaggia Jarier che domina in Canada prima che un sasso gli fori il radiatore. La competitività della 79 termina così, soppiantata l’anno dopo dalla Ferrari, dai cloni migliorativi di Williams e Ligier e dall’ambizione di Chapman che con l’avveniristico e abortivo progetto Lotus 80 voleva estremizzarne i principi. La sua storia finisce qui. Ma la leggenda continua.

5 LE 79 COSTRUITE
Quattro furono realizzate nel corso della stagione '78. L'ultima debuttò in Sudafrica 1979



A partire dall'inizio del 1979 in tutto furono realizzati cinque esemplari della Lotus 79, che terminò la sua carriera alla fine della stagione successiva, dopo che l'annunciata e attesissima 80, che doveva esasperarne i dettami aerodinamici facendo praticamente a meno delle appendici alari, si era trasformata in uno dei fiaschi più clamorosi della F.1 moderna. Nel corso del 1979 furono costruiti ben tre talai della nuova 80 che fu provata e timidamente schierata salvo venire ben presto ritirata dalle corse. Tornando alla 79, nel corso del 1978 furono realizzati quattro telai siglati rispettivamente Jps 19, Jps20, Jps21 e Jps22, mentre il quarto, il solo dotato 1979, è semplicemente chiamato 79/5 e viene portato per la prima volta in gara al Gp del Sudafrica. Tutte e 5 le 79 prodotte sono tutto esistenti e circolanti. Due sono in Inghilterra, due negli Stati Uniti e una in Australia.

LE VITTORIE
Mario Andretti:
Gp Belgio, Spagna, Francia, Germania e Olanda 1978
Ronnie Peterson: Gp Austria 1978
Mario Andretti al termine della stagione è campione del mondo con 64 punti
La Lotus è prima nella coppa Costruttori con 86 punti

LA SCHEDA TECNICA
Lunghezza
: 4,420 m; Larghezza: 2,146 m; Altezza: 0,965 m; Peso: 575 kg; Carreggiata anteriore: 1,730 m; Carreggiata posteriore: 1,630m; Passo: 2,718 m; Trazione: posteriore; Cambio: meccanico a 5 rapporti più retromarcia; Freni: pinze in alluminio; Motore: Ford Cosworth Dfv, 8 cilindri a V 90°, 2997 cm cubi, aspirato, circa 480 Cv.

Corse: 26; Vittorie: 7; Poles: 10; Giri più veloci: 5





DAL DEBUTTO LA 79 DIVENNE UN MODELLO DA IMITARE
Dopo l'esordio della Lotus da mito, l'Ats aveva già realizzato un clone. Poi toccò alla Tyrrell ma Williams e Ligier seppero fare di meglio...



In una F.1 in cui le monoposto si vantavano d’essere una diversa dall’altra, la Lotus 79 fu il primo smaccato caso in cui un’auto vincente dette vita a dei veri e propri cloni. Il primo fra tutti fu l’ATS D1, scopiazzata in fretta e furia nella seconda parte del 1978 senza peraltro applicare rigorosamente i principi della caposcuola, tanto che in uno dei primi test il pilota Jochen Mass fu protagonista di un grave incidente terminando la stagione in ospedale. L’anno dopo, il 1979, tutto il Circus della F.1 si ispirò ai dettami del ground effect, anche se va riconosciuto il merito alla Ferrari di aver seguito con la 312 T4 una strada esteticamente ben diversa (e decisamente brutta, per la cronaca) ma alla resa dei conti vincente. Non solo: la creatura di Forghieri, pur attingendo a piene mani alle idee di Chapman e soci, si muoveva con dei limiti strutturali evidenti, montando il motore 12 cilindri Boxer che aveva ingombri massimi rispetto al Cosworth Dfv a 90°, tipico dei team “assemblatori”. Invece l'Alfa Romeo realizzò un nuovo motore 12 cilindri con bancate a V di 60° al posto del suo Boxer per la Brabham Bt48. 



Le avversarie più fiere della 79 a parità di Cosworth, ossia Ligier Js11 e Williams Fw07, ripresero i concetti dell’effetto suolo migliorandone l’efficacia, mentre la Tyrrell 009 si limitò a proporre una copia in carta carbone della vettura di Chapman, entrando ben presto in crisi d’idee e sviluppo. Diverso e più interessante, anche se fugace, fu il caso della Rebaque Hr100 realizzata dal team dell’omonimo pilota messicano. Costruita presso gli stabilimenti Penske a Poole, in Inghilterra, rappresentava un’evoluzione della progenitrice partendo dai disegni originali, anche in considerazione del fatto che lo stesso Rebaque aveva acquistato due dei telai 79 dallo stesso Chapman.



MARIO ANDRETTI, IRIDATO 1978, SVELA I PUNTI DEBOLI DELLA 79
Dopo metà gara la Lotus castigamatti finiva puntualmente in crisi di freni ma Chapman preferì non cercare alcun rimedio...



Mario Andretti e la Lotus 79 resteranno legati per sempre. In fondo l’uno ha propiziato la fortuna dell’altra, facendo incetta di Gran Premi in quel magico 1978. O forse c’è qualcosa di più, perché “Piedone” vanta paternità anche ideologiche su quella fantastica monoposto: «Ricordo benissimo che in un briefing tecnico nell’inverno 1976 e quando mi si disse di mettere sul tavolo qualche idea, io dissi di guardare alla monoposto più interessante e meno sviluppata che avevo guidato in vita mia, ossia la March 701 del 1970, la quale presentava delle generose fiancate laterali, come il profilo di un ala. Fine della faccenda. Fatto sta che arriva la 78 e a vederla sfrutta proprio quell’idea. L’altro lampo d’intuizione arriva durante un test a Hockenheim, quando capisco che una macchina così in situazioni di massimo carico aerodinamico più e bassa e meglio rende, perché in curva finisce per incollarsi letteralmente al suolo. Chapman ci pensa su e manda a comperare della plastica in un vicino negozio di ferramenta. Proviamo e la cosa funziona, solo che le primitive minigonne si consumano subito, allora lui prova delle spazzole. Comunque da lì in poi capiamo che siamo sulla strada giusta. In fondo la 79 è solo un affinamento di questi concetti, a metà strada tra l’intuizione e le prove pratiche». Chi fu il primo a provarla? «Ronnie Peterson in Svezia e disse subito che era un missile. Ma a volerla subito in corsa fui io, mentre Chapman avrebbe preferito aspettare per renderla più collaudata e affidabile. Alla fine la realtà mi dette ragione perché la nuova Lotus sbaragliò subito il campo». Una monoposto forse perfetta, eppure non imbattibile proprio a causa dell’affidabilità non assoluta... «Altroché, c’erano dei problemi col nuovo cambio che trasmetteva puntualmente troppo calore ai freni posteriori e da metà corsa in poi perdevamo potere frenante nel retrotreno. Il rimedio era più tattico che tecnico... si trattava di partire a razzo, fare il vuoto e andare in fuga perché nella seconda parte della corsa presumibilmente ci saremmo dovuti difendere. Questo era il punto debole della 79, al quale si sommava il difetto tipico di quel genio che fu Colin Chapman». Cioè? «Era un integralista, uno che ti dava una macchina fantastica ma poi accettava il dialogo e l’interscambio tecnico col pilota fino a un certo punto. Fino al Gp di Monza, il giorno dell’incidente di Ronnie, continuai a dirgli che da metà corsa in poi correvamo coi dischi bolliti, ma lui niente. Esaminava l’impiantistica con calma solo nel dopo corsa, quando le temperature si erano già abbassate e tutto era tornato a funzionare normalmente». Al di là di questo, ti riconosci dei meriti particolari per quanto riguarda lo sviluppo e la crescita della Lotus 79? «Guarda, a me Ronnie piaceva immensamente come pilota, perché aveva un controllo di macchina assoluto e un feeling fantastico in situazione-corsa. Però va detto che non possedeva indiscusse doti da tester per raggiungere la sintonia fine della monoposto al momento della individuazione dell’assetto ideale. Bisogna dire la verità, senza alcun problema: lui ha sempre corso con le regolazioni che facevo io. Detto questo, che non sminuisce minimamente la sua figura, Ronnie Peterson è stato un grandissimo campione e per quanto mi riguarda la Lotus 79 la sento una monoposto particolarmente vicina al mio modo di concepire la macchina da corsa ideale, perché rispondeva proprio alla mia sensibilità nella messa a punto». Perché la 79 sfondò e la 80, l’anno dopo, fallì? «Per un motivo semplice: perché la 80 torceva e cambiava comportamento da una sezione all’altra della pista. In poche parole bisognava rinforzare la scocca. Ciò però comportava una specie di sacrilegio per il credo tecnico di Colin Chapman: in poche parole bisognava appesantire la nuova monoposto. Per lui questa era una sofferenza intollerabile e piuttosto che mettere a posto la 80 preferì buttarla alle ortiche anche se secondo me la situazione era rimediabile». Nel 1978 tu eri il caposquadra, Ronnie era costretto a star buono. «A inizio stagione eravamo liberi di fare ciò che volevamo, poi da metà in poi chi stava davanti doveva essere protetto dall’altro. Lui s’incazzò un paio di volte, prima in Inghilterra e poi in Olanda, ma niente di che». Nel 1979 la Lotus 79 era già superata... «Ci concentrammo dapprima sull’80 poi quando si decise di tornare indietro riutilizzando la vecchia monoposto i rivali avevano fatto troppi passi avanti. Ma io la 79 la ricordo sempre con immenso piacere».

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