È il segno dei tempi.
Quindici-venti anni fa Ecclestone voleva portare - e le portò -, montagne di soldi in Formula 1 attraendo i più grandi Costruttori del mondo, ancorché privi di una reale tradizione nei Gran Premi, per rendere il Circus lo show sportivo più globale, tonitruante e faraonico del pianeta Terra. Adesso che non gira un euro, la strategia è cambiata. Spazio al fascino del sogno nostalgico. Avanti tutta con l’operazione da romantici cuori vintage alla ricerca di stagionate e agognate professoresse nei tempi del liceo che fu. Tutto il contrario di prima. Ora la parola d’ordine è “evocatività”. Ci vogliono nomi grossi, assenti, rimpianti. Sussurri di leggenda, flatus vocis sinonimi di gesta antiche e disfide mai dimenticate per autosuggestionarci che in fondo, motoristicamente parlando, le belle storie non muoiono mai. Semplicemente vanno, vengono e a volte ritornano, come certi amori della nostra vita che si comportano da stelle, pulsanti quando pare a loro.
Sulle ali del ricordo
Insomma, la Lotus è già tornata da un pezzo e qualcuno spera che rientri pure la Brabham - sulla scia del medesimo ceppo di famiglia da cui la Casa automobilistica ebbe origine - rilevando ciò che resta della disgraziata Hrt. Solo che adesso ad agitare il bandierone c’è David, veterano dell’endurance e, soprattutto, figlio del fondatore “Black Jack”. Ma, nostalgia canaglia a parte, per che cosa è importante il nome Brabham? Perché, subliminalmente o meno, stimola nei vecchi marinai dell’asfalto rugoso e nei giovani surfisti youtube oriented sensazioni forti e avvolgenti d’un passato fatto di conseguimenti - se non quantitativamente - qualitativamente unici?
Le prodezze di “Black Jack”
L’australiano Jack Brabham, classe 1926, per noi è nel dna e nella storia avendo vinto il primo casco iridato di Autosprint, al termine della stagione 1966, a quarant’anni suonati. L’anno del ritorno della potenza dei 3000 cc, che vede il “Vecchio” trionfare grazie al casareccio motore Repco, col monoblocco in alluminio derivato dalla produzione di serie Oldsmobile. Per lui è il terzo titolo dopo i due conquistati sull’onda dell’epopea Cooper e soprattutto rappresenta il caso unico di un pilota- Costruttore che con la sua figlioccia metallica diviene campione mondiale. Ma a colpire è che la sua creatura bazzica i Gran Premi fin dal 1962. Come? Semplice. Jack si è associato a fine 1961 col connazionale Ron Tauranac, di un anno più vecchio di lui, fac-totum nato nobilmente plebeo e tagliato per tutto ciò che sa di corse salvo guidare, dal versante organizzativo a quello tecnico. Così la sigla delle monoposto costruite e vendute in tutte le categorie possibili è Bt, che sta per Brabham e Tauranac.
L’affaire MRD
Quanto al marchio, al cognome del pilota pluriridato s’aggiunge l’acronimo MRD, che sta per Motor Racing Developments. Quando il giornalista “Jabby” Crombac lo viene a sapere ride a crepapaelle e commenta secco: «Voglio proprio vedere come riuscirete a piazzare le vostre monoposto che si chiamano con una sigla che nei paesi francofoni si pronuncia “merde”». Prendiamola così: passa il tempo e la cosa come minimo porta fortuna. Fino al 1970, l’anno dell’addio alle corse dell’ormai 44enne Jack Brabham, le creature nate nel britannicissimo Surrey- mai rivoluzionarie e puntualmente concepite anonimamente e risparmiosamente per vincere -, sono sempre là davanti a inseguire o a lottare per il successo. Tanto che già nel 1967 pure il neozelandese Hulme è campione del mondo con una Brabham-Repco e “Black Jack” sembra un attore che improvvisamente si mette a vincere Oscar pure da autoriale regista. Nel 1971 il team resta in mano al solo Tauranac e la BT 34 si segnala per l’originalità e la bruttezza degli originali radiatori anteriori, i “lobster claw” (la chela d’aragosta), i quali comunque non mettono le ali a una monoposto che vivacchia con al volante l’ormai stanco e demotivato Graham Hill.
Nel 1972 inizia l’era Ecclestone
L’arrivo successivo del 41enne Bernie Ecclestone cambia la storia della squadra e, nondimeno, il destino della F.1. Perché la Brabham si trasforma geneticamente, trasmuta in una sorta di laboratorio telescopico di tecnologia applicata al marketing, all’interno del quale verranno sperimentate in vitro tutte le successive pensate in grande del suo nuovo boss, ex manager di Jochen Rindt. Colpi d’ala capaci di ridare vitalità al team e, nei decenni, di costituire idee valide per lanciare a livello mondiale il prodotto Formula 1. Bernie, dopo una fugace parentesi con Ralph Bellamy, nel 1974 affida la responsabilità tecnica al giovane ingegnere sudafricano Gordon Murray, del quale ha fiducia assoluta. Se Murray decide di rischiare, sa cosa fare. La sua è una genialità razionale- conservativa e mai avventurosamente fine a se stessa. La Brabham BT44 è un capolavoro estetico, oltre che essere valida e competitiva. E risplende nella meravigliosa livrea Martini. Anche perché esteticamente Bernie vuole macchine telegeniche, perché il futuro della categoria dovrà essere catodico. Il capo capisce anche che non ha senso insistere a tutti i costi col motore Cosworth che hanno tutti i team inglesi e nel 1976 aggancia l’Alfa Romeo col suo 12 cilindri piatto. L’iniziativa farà rumore ma non avrà gioie mondiali, anche se è il primo esempio di un Ecclestone in grado di (ri)coinvolgere grandi Case nel Circus.
Sperimentazioni a go-go
E questo è niente: dalla Martini si passa a sponsor ancora più sfavillanti, con iniziative di marketing su base mondiale, quali la Parmalat, e l’ingaggio del campione più mediatico e costoso di tutti: Niki Lauda. Sarà un altro fiasco, ma Ecclestone continua a eleborare concetti che poi saranno validi e spendibili e legge per tutti. Dopo il ritorno alla razionalità del Cosworth, a fine 1979, i trionfi della stupenda BT49 con l’allevato Piquet, la Brabham diventa la prima monoposto della storia a portare all’iride un motore turbo, grazie alla prestigiosa partnership con la Bmw. Anche se quel titolo è propiziato da un finale di stagione caratterizzato da risultati e carburanti parimenti miracolosi. Pure troppo, secondo alcuni. Va be’, ne riparliamo davanti a un caffè. Il turbocompresso Bmw ben presto diviene - almeno in qualifica - il motore più potente nella storia della F.1, con picchi da serie Can-Am ultimo stadio. Intanto Ecclestone svezza in seno al team Brabham personaggi che gli saranno utilissimi quando diventerà padrone-padrino della F.1. Gente tipo Charlie Whiting e “Herbie” Blash, piuttosto che l’altro meccanico Eddie Baker, che a fine terzo millennio diverrà responsabile di “Bakersville”, il villaggio che al paddock è base della mastodontica produzione televisiva by Bernie The Supreme.
Fu una capsula di futuro
Mediaticità, partnership con grandi Costruttori, rapporti personali forti, gestione spregiudicata dei piloti, spremuti e messi l’uno contro l’altro (rivolgersi a Lauda e Piquet, per esempio) sponsor da sogno, campioni di grido, scatti tecnologici audaci - come il ventilatore lanciato e proibito sulla BT46 nel 1978 -, e financo tattici, come l’idea di Gordon Murray targata 1982 di partire a benzina bassa e rifornire il turbo assetato a metà corsa, guadagnando nel girare il più leggeri possibile, ma anche un occhio alla cassa, con l’ingaggio, quando serve, di pagatori meravigliosi: per dirne solo due Ricardo Zunino e Hector Rebaque. Questa è la Brabham. Nel 1986, la tragica parentesi di De Angelis, che muore a seguito di un crash in prova al Ricard, mentre è al volante della Bt55 “Sogliola”. L’ultima stagione targata Bernie è il 1987, poi stop. A parte la tristezza per Elio, la squadra è comunque nel mito. Se la Lotus c’è entrata per l’innovazione pura e la sperimentazione tecnologica, la Casa del Cobra nell’era Ecclestone scrive pagine di storia per aver innovato soprattutto sul fronte gestionale e del marketing, l’intera filosofia d’intendere la F.1, divenendo per non meno di tre lustri la lama frangiflutti e il battistrada della Foca, la Formula One Constructor Association, alla conquista del potere politico e economico prima nei Gp e poi, con lo stesso Bernie ormai in veste di solista, della gestione della Fia, tramite l’avvocato amico Max Mosley.
Il triste declino
Dopo una stagione di pausa e la cessione a Joachim Luthi, la Brabham torna nel Circus nel 1989. Luhti viene arrestato per frode fiscale, ed il team venne rilevato dal gruppo nipponico Middlebridge. I gloriosi colori bianco-blu non bastano a spingere monoposto mai più sparate da motori al top e fiaccate da un vero e proprio collasso finanziario. Si va avanti fino al 1992, anno del tracollo e della chiusura, con le sole soddisfazioni d’aver dato una chance a Giovanna Amati, ultima donna a tentare la qualificazione in un Gp, facendo anche debuttare in F.1 Damon Hill, esattamente 20 anni dopo la militanza di papà Graham col marchio Brabham.
I cocci di una vita divenuta immaginaria
Il resto è fatto di comunicazioni via internet, intenzioni virtuali e nulla più. Nel maggio 2009 si registra a sorpresa l’invio di una fantomatica domanda d’iscrizione della scuderia al mondiale F.1 2010, anche se l’ultraottuagenario Jack Brabham minaccia di far causa alla Formtech di Franz Hilmer, entità tedesca che rivendica di detenere il marchio Brabham Gran Prix Ltd. Fatto sta che la Brabham non viene inserita nel campionato 2010 e ciao. Adesso ci risiamo. Nei giorni scorsi la famiglia Brabham capeggiata dal virgulto David - che con la squadra corse in F.1 nel 1990 -, ha vinto la battaglia legale preso l’Alta Corte tedesca per ottenere il controllo e la gestione del marchio contro l’imprenditore Michael Trick, che aveva deciso di usare il brand per il tuning e la produzione di macchine stradali. Il sogno non è finito. Anzi, 51 anni dopo il debutto in F.1, parrebbe pronto a ricominciare. Perché nel Circus la parola Brabham è ancora una delle poche in grado di evocare magia, così come una lucertola ricorda romanticamente un drago.