Sul fatto che Dio esista o no , possiamo parlarne. Che la Ferrari debba nascere per forza a Maranello, è un’altra di quelle cose che non sta scritta da nessuna parte. Misteri della fede. Due faccende sono certe. Giusto un quarto di secolo fa si comincia ad accettare l’idea che la Rossa possa concepire le sue F.1 in un sacrilego Altrove, in questo caso l’Oltremanica, perché in quel momento si pensa che un dio - benché laico, terrestre e britannico -, esista eccome. Con competenze limitate, piuttosto che alle anime, alle scocche in carbonio e poteri riguardanti l’autoclave anziché il libero arbitrio. Dio è John Barnand. Londinese di Wembley, classe 1946 e neppure laureato. Da semplice perito industriale, inizia disegnando lampadine, prima di passare alle auto facendo pratica con Lola, McLaren, Parnelli e infine Chaparral, in F.Indy. Da lì in poi le lampadine gli si accendono in testa e a 34 anni d’età cambia la storia delle corse. Disegna la Chaparral 2K e sbanca la Indy 500 facendo portare al vecchio Ruherford, pilota che ha otto anni d’età più di lui, una gialla monoposto che sembra un clone della Lotus 79, introducendo le wing-car pure sugli ovali. La 79 Barnard la conosce, perché Rebaque gliel’ha fatta studiare, sezionare e clonare per concepire la Rebaque Hr100, che corricchia a fine 1979 e poi sparisce. In quel momento al messicano Barnard confida un’idea pazza: concepire una Rebaque tutta in carbonio. Hector pronuncia una frase che rimpiangerà tutta la vita: «No mas». Non sarà mai più costruttore e quell’idea Barnard la passa al suo successivo datore di lavoro, Ron Dennis, che nel frattempo entra alla McLaren, rifondandola. Nasce per il 1981 la Mp4/1, prima monoposto della storia tutta in carbonio. E quando arriva il mostruoso turbo Tag-Porsche le McLaren di Barnard spiccano il volo e vincono tre titoli mondiali. Nel 1986, a 40 anni d’età, JB in F.1 è la cosa più simile a una divinità vivente. Da un’altra parte del mondo Enzo Ferrari - quasi 90enne, sempre più divinità e sempre meno vivente - lo fa cercare. La Casa di Maranello attraversa un digiuno che sarebbe più lecito definire carestia. Non rischia di ghermire il titolo dal 1985, anno in cui, al Gp di Germania, Michele Alboreto ha colto l’ultima vittoria. Crisi di risultati, stasi tecnica, impotenza agonistica. Se Barnard è un dio, deve togliere la Ferrari dalla croce. JB impone alla Ferrari di non trasferirsi a Maranello, limitandosi a concepire, indirizzare, schizzare e realizzare le sue geniali idee tecniche da una remota antenna tecnologica, situata a Guildford, piccolo centro circondato da boschi, a una sessantina di chilometri da Londra e a un tiro di schioppo dall’aeroporto di Gatwick. Sembra la famosa battuta di Boris Makeresko: «Mamma, voglio andare al circo». «No, se ti vogliono vedere, vengono loro». «Non volevo trasferire la mia famiglia a Maranello - spiega Barnard . Primo, perché desideravo mantenere le mie abitudini. Secondo, perché temevo la politica che ruota attorno alla Ferrari. Stando in Italia, avrei passato gran parte del mio tempo in interminabili riunioni strategiche e giochi di potere». Il primo biennio di Barnard alla Rossa, il 1987-1988, in realtà è pura transizione. Partito Postlethwaite, si corre con la macchina concepita da Brunner, che nel 1987 rompe il ramadan vincendo in Giappone e Australia con Berger e nel 1988, poco dopo la scomparsa del 90enne Drake, trionfa al Gp d’Italia piazzando un commovente bang-bang con Berger e Alboreto. È la fine d’un’epoca e con Barnard s’inizia a fare sul serio. La sua Ferrari della rinascita ha un che di fascinoso e inquietante. Il sovrano dell’aerodinamica e dei telai, lo scopritore del retrotreno a bottiglia di coca-cola, stupisce il mondo con l’apparizione a Fiorano della cosiddetta “Papera”, per quel generoso muso a becco, che gira e arranca col collaudatore “Pupo” Moreno. Oltre alle forme controcorrente la monoposto contiene due bombe intellettuali: il cambio semi-automatico e il paddle-shift, il meccanismo di cambiata a farfalla che rende obsoleta la classicissima leva. E c’è dell’altro. Si tratta di un’impostazione che ha varcato il confine di non ritorno. Se va bene, bene, sennò sarà impossibile riconvertire la vettura alla soluzione tradizionale. O si vince o tutto finisce nella spazzatura. Roba da far venire l’ansia a Chuck Norris. Di sicuro l’ipocondria prende a Ghidella, uomo forte Fiat e nuovo action man in quel di Maranello, che chiede ragione allo stesso Barnard di una scelta così radicale, che sembra tanto un salto acrobatico fatto senza rete. «Le cose stanno così, io ci credo e questo è tutto», si motiva laconico l’uomo della Ferrari dell’Altrove. «Se non vi va bene, stracciatemi il contratto. Vorrò essere pagato solo per i giorni lavorati e non un’ora di più». Al di là degli aspetti legali, il primo giro di valzer tra la Rossa e Barnard, finirà più o meno in quel modo, al termine della stagione.
Nel cuore della Gto di Guildford
Intendiamoci, non è mica l’epoca della F.1 faraonica. Durante la fatidica stagione 1989 nella Gto, succursale inglese che vanta il glorioso nome della più magica delle Ferrari - con un acronimo che qui sta per Guildford Technical Office -, operano non più di 25 cristiani, con tanto di autoclave e utensili. Barnard lavora ancora al tecnigrafo. Niente roba lunare. Tra i suoi gregari, mentre fa la spola raccordando Maranello ai campi di prova e di gara, ci sono Gordon Kimble, antico compagno d’armi alla Chaparral, e il catalano Joan Villadelprat, già commilitone in McLaren, nel ruolo di capomeccanico. L’inizio dell’era Barnard coincide col divieto per i meccanici di bere vino rosso in pausa pranzo. Alla stampa italiana JB sta mediamente e mediaticamente simpatico come un ictus la notte di natale, da quando ha specificato che gradisce esser appellato “Mr. Barnard”. Però a essere preponderante e a contare davvero è l’aspetto del know how, della cultura che quest’uomo porta. Dunque, l’arrivo di Barnard in Ferrari coincide anche con la realizzazione della prima galleria del vento del Cavallino e nel tunnel, per farlo funzionare, bisogna saperci stare. Il ricordo dei primi approcci di JB tra i flussi d’aria Rossa fa saltare dalla sedia: «Venivo dalla McLaren, dove c’era una cultura aerodinamica raffinatissima. Alla Ferrari, agli inizi, non c’era niente di tutto ciò. La verità è che in galleria non sapevano gestire le variazioni dell’altezza da terra della monoposto, né il beccheggio, né tantomeno le prove della maquette mobile». Volente o nolente, la Ferrari con e grazie a Barnard inizia a colmare il gap con le belve ipertecnologiche britanniche, che si chiamano McLaren e Williams.
Vittorie poche ma buone
Quello che succede in pista è un’altra storia. Al debutto la 640 col cambio al volante minaccia catastrofi d’affidabilità. Alla vigilia del debutto in Brasile, non ha ancora completato una simulazione, tanto che i tattici della Rossa vorrebbero farla partire con un bicchiere di benzina, giusto per ben figurare nei primi giri. Ma Barnard ci crede. Ancora e sempre. «Non si sa mai. Assettiamola da gara e vediamo. Deciderà la sorte». Ed è così che Nigel Mansell -. l’uomo che col primo test del cambio al volante aveva dichiarato di non aver mai sognato nulla di meglio -, tra lo sconcerto e l’entusiasmo generale, vola a vincere il suo primo Gp in Rosso. Comunque vada, l’ultima grande, pazza, romantica scommessa del Grande Vecchio è vinta postuma. La Ferrari è tornata frangiflutti tecnologico, impiantandosi nella perfida Albione.
La 641 va forte ma senza Barnard
Poi nel 1989 altri due centri nobili: il rimontone da urlo di Mansell in Ungheria e il successo di Berger in Portogallo. Lampi belli in un cielo rannuvolato da un’affidabilità fantasma. Così a fianco di Mansell arriva Prost, viene sviluppata la 641, con un serbatoio più grande e l’elettronica migliorata. Barnard non c’è più, eppure la figlia della sua creatura sfiora il mondiale con Prost. Una mezza sconfitta che sa di mezza vittoria. Barnard finisce alla Benetton, per due stagioni e tre vittorie, mentre peggio va alla Gto, che ancor più sacrilegamente viene ceduta alla McLaren, per divenire base del Progetto F1 Gtr destinazione Le Mans.
Dalla Gto si passa alla Fdd
Quella tra Barnard e la Rossa è una storia lunga, singhiozzante e inquieta. Perché nella seconda parte del 1993, all’alba della nuova era Montezemolo, si ricomincia, sempre in Inghilterra e di nuovo dalle parti di Guildford, ma stavolta precisamente a Shalford, con la Fdd, che sta per Ferrari Design Department. Nascono due bei mostri, la 412 T1, al top con Berger in Germania 1994, e la 412 T2, prima con Alesi in Canada 1995. Da lì si dice addio al 12 cilindri, con l’arrivo di Re Michael Schumacher, che pure amava il motorone, dopo un test a Estoril. Fatto sta che la F310 “ballerina” di Barnard del 1996, col 10 cilindri, vince tre Gp con Schumi, il quale con la miglioratissima F310B l’anno dopo sfiora il titolo. Siamo al tramonto della lunga storia, durata quasi nove anni, con in mezzo l’interruzione di tre. Todt vuole riportare tutto a Maranello, a Barnard viene offerto un “prendere o lasciare” e Mr. B lascia. Rieccolo a Guildford, stavolta al timone della B3 che fa consulenza e Racing & Development prima per la Arrows, nel ’98, e poi per la Prost. Il resto è cinema: a fine 2001 JB è addirittura nel motomondiale, come direttore tecnico del team di Kenny Roberts, mentre nel 2008 vende la B3 Technologies. Adesso fa il designer con Terence Woodgate, sfornando tavoli da salotto in carbonio che possono arrivare a prezzi sui 50.000 euro ciascuno, in grado di sopportare il peso di una Mini. Perché poi si debba parcheggiare una Mini là sopra, resta da capire. Fatto sta che tre anni fa la 641 del 1990, che così tanto deve a Barnard, nel 2010 è finita esposta al Museum of Modern Art di New York. Il frutto ultimo del sogno finale di Enzo Ferrari e dell’impeto più ardito di JB, il cui seme era fecondato a Guilford, aveva completato la sua storia complessa, strana e affascinante, trasformandosi in opera d’arte.