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Mezzo secolo Autodelta

Mezzo secolo Autodelta

27 mar 2013



Autodelta compie mezzo secolo . Per festeggiare lo storico traguardo, niente di meglio che un dialogo a Cuore da Corsa aperto con un pilota e poi verace uomo d’automobilismo che è stato cellula preziosa del braccio agonistico Alfa Romeo: Andrea De Adamich. - Andrea, come spiegheresti il fascino Autodelta a un giovane di oggi? «Penso a un panorama sportivo italiano che sul versante tecnico negli Anni ’60 e ’70 viveva di due immense personalità: Mauro Forghieri e Carlo Chiti. Forghieri era sinonimo di Ferrari, Chiti di Alfa Romeo e, soprattutto, l’ingegnere toscano “era” l’Autodelta. L’Autodelta rappresentava per noi tutti l’università delle corse, un centro di sperimentazione tecnica di prim’ordine, una struttura che poteva affrontare e affrontò ogni genere di sfida e anche una grande famiglia. E permettimi di dire che la vera Autodelta nasce all’anagrafe 50 anni fa e termina il suo corso con l’uscita del grande Chiti dall’orbita Alfa Romeo, all’inizio degli Anni ’80». - All’inizio l’Autodelta non era il braccio agonistico ufficiale dell’Alfa Romeo. «Giusto. All’inizio era un’azienda con sede a Udine, della quale Chiti era socio. In poche parole, assemblava le Tz1 che poi venivano messe a punto dall’Alfa Corse di Milano, in via Gattamelata: ecco perché le vetture uscivano targate Udine. Ricordo che fino al 1964 nel mondo Alfa ruotavano diverse entità, tra le quali la Scuderia Sant Ambroeus di Eugenio Dragoni e il Jolly Club di Mario Angiolini, nel Turismo e nei rally, anche con le Giulia Quadrifoglio preparate da Conrero e Bosato». - E poi l’Autodelta divenne il vero braccio agonistico della Casa del Quadrifoglio.

 

«Nel 1965 arrivano la Gta e la Tz2 e le vetture, insieme all’attività sportiva della Casa del Biscione, vengono gestite dall’Autodelta, che nel frattempo era stata rilevata dall’Alfa Romeo e trasferita da Udine a Settimo Milanese. Quindi l’Autodelta, nata come società privata, diventa parte integrante dell’Alfa, a sua volta di proprietà dell’Iri». - Con una differenza sostanziale rispetto a quello che potrebbe sembrare. L’Autodelta era in mano pubblica ma non navigava nell’oro... «Certo, bisogna chiarire. I mezzi economici erano limitati e gli sprechi zero. Si correva per passione e si lavorava per amor di tecnica e del marchio Alfa. Con la fortuna, nel periodo d’oro, di avere un presidente come Luraghi, il quale, oltre che appassionato, era un vero competente di corse. La stessa pista di Balocco nasce e fiorisce in questo humus. Ma guarda che a fare i test lì io ci andavo col furgone, perché i soldi per il bilico mica c’erano». - La prima gioia dell’Autodelta adottata da mamma Alfa? «Il vero debutto coincise con la mia vittoria al Jolly Hotel, come allora veniva chiamato il Giro d’Italia, a fine 1965, al volante della Tz2, col giornalista Franco Lini in veste di navigatore, perché se si vinceva con uno della stampa era previsto un premio di un milione di lire». - E così parte l’epopea... «Be’ già nel 1966 schieriamo la Tz2, con la quale insieme a Bussinello giungo settimo assoluto alla 1000 Km di Monza, sfidando i veri prototipi. Quindi si gettano le basi della 33 all’inizio a motore 2000. Inizia qualcosa di grande...». - E ovviamente non possiamo tacere il Turismo, con sfolgoranti affermazioni a livello continentale. Raccontacele, spiegando al lettore ignaro e imberbe cosa significarono quei trionfi. «Nel Turismo europeo c’era una dominatrice che sembrava imbattibile, ossia la Lotus Cortina. L’Alfa Romeo Gta 1600 arrivò e sbaragliò il campo. È vero, correvamo in classe 2000 e i titoli venivano suddivisi, eppure la mia 1600 era capace di fare un sol boccone anche delle rivali più potenti. Quindi nel 1969 arrivò la Gt/Am, portata a 2000 cc, ma il cuore di Chiti batteva sempre per la F.1». - Parliamo di più dell’ingegnere toscano... «Un personaggio fantastico. Un genio tecnico e un uomo caldo, coinvolgente, onesto. Una persona meravigliosa, con questa sensibilità sviluppatissima, sia per gli uomini che per gli animali. Pensa che un anno a Buenos Aires vide un cagnolino in pista che rischiava d’essere investito dai prototipi sfreccianti e non esitò a scavalcare il muretto con un salto funambolico e inatteso per un uomo della sua mole, rischiando di venire investito pur di salvare la bestiola. Lui era così. Un vero capo, ma anche un vero uomo. Ironico, irascibile ma correttissimo. Con me s’arrabbiò una volta sola a Sebring, perché difendevo Nanni Galli e lui mi disse: “ovvia ma smettila te di fare l’arcangelo azzurro!”». - Chiti era stato cacciato a fine 1961 da Enzo Ferrari, per poi dar vita alla sfortunata Ats, nel 1963. Il suo sogno segreto era tornare in F.1 per avere la rivincita e tramite l’Autodelta ci riuscì, in tre ondate diverse, a coinvolgimento progressivo. «È vero. Si cominciò nel 1970 fornendo un motore 8 cilindri alla mia McLaren nei Gran Premi, ma la verità è che quello era un propulsore concepito per l’endurance e per la F.1 l’Autodelta non era ancora preparata. Malgrado questo, le prestazioni erano dignitose anche se quell’anno la mia stagione fu inficiata dalla regola dei qualificati d’ufficio, che a volte mi fece perdere ingiustamente il posto nella griglia di partenza per favorire piloti privilegiati a tavolino».



- Nel frattempo il prototipo 33 si leva belle soddisfazioni nell’endurance. «Diciamo che in F.1 nel 1971 si prova a usare un telaio March per il motore Alfa, ma le cose non migliorano e si decide di lasciar perdere. Intanto l’Autodelta fa grandi cose dando sviluppo alla 33 prototipo. Ricordo nel 1970 la vittoria con Courage alla 200 Km di Buenos Aires e anche il mio trionfo, guidando in solitaria, alla corsa di Zeltweg. Quindi nel 1971 due successi iridati di livello assoluto, quali quelli di Brands Hatch, con me insieme a Pescarolo e a Watkins Glen, dove corsi in coppia col grande Ronnie Peterson. Ebbene, credo sia giusto dire che a Brands Hatch quel giorno Chiti pianse. Perché erano trascorsi 20 anni esatti dall’ultimo successo dell’Alfa in F.1 e tornare a vincere una competizione iridata, anche se nell’endurance, voleva dire aver ricominciato e dato continuità a una grande storia». - Siamo a parlare del 12 cilindri piatto dell’Alfa Romeo, un motore simbolo dell’epopea Chiti. Una leggenda metropolitana o meno vuole che fosse piuttosto ispirato a quello della Ferrari. C’è anche un pilota pronto a giurare d’aver visto i lucidi del disegno originale portati da Maranello alla sede Alfa. Cosa ne dici, Andrea, leggenda o realtà? «Non lo so. Faccio un ragionamento diverso e stai certo che è quello giusto. Tra il 12 cilindri piatto della Ferrari e quello dell’Alfa c’era una fondamentale differenza filosofica, al di là di quelle tecniche. Per la Casa del Cavallino si trattava di un motore di F.1 adattato alle specifiche endurance. La Ferrari faceva le gare di durata con propulsore, sospensioni e piloti da F.1, l’Autodelta con l’Alfa percorse il tragitto contrario. Il suo 12 cilindri nacque studiato per le corse endurance e poi solo in seguito fu adattato alle esigenze della fornitura a un team di F.1, nella fattispecie la Brabham, dal 1976. Quindi si presentava strutturalmente pesante, ingombrante e sulle prime non così estremo da poter immediatamente ben figurare su una monoposto da F.1».

   

   

- Andrea, didascalizza un’immaginaria foto di famiglia del box Autodelta nell’era d’oro. «Era un gran gruppo, all’inizio degli Anni ’70. Primo fra tutti c’era Nanni Galli, pilota molto veloce e uomo spontaneo. Con Chiti era legato in modo viscerale, aveva un feeling speciale, tutto toscano. Poi c’era Stommelen, bel personaggio. Un manico e un ragazzo intelligente e buono. Veniva dalla Porsche, era tedesco eppure con noi si sentiva a casa sua. Pensa che a me per pura carineria aveva regalato un orologio Porsche bellissimo, perché non si era solo compagni di squadra, ma anche amici. Quindi Pescarolo, un signore dell’endurance e dotato di una personalità accesa, da leader, tanto che poi è diventato team manager e Costruttore e non è un caso. Dell’olandese Hezemans direi che fosse un buon secondo che sapeva ben sfruttare il lavoro dei compagni, mentre Helmut Marko era un signor pilota, uno con le palle, alla Pescarolo. E non dimentichiamo, anzi, diamo il giusto valore anche a due altri uomini: Carluccio Facetti, conduttore di livello e tester sopraffino, oltre che dotato di grandissime conoscenze tecniche. Sul piano della prestazione pura era superiore a un altro uomo simbolo dell’Autodelta, cioè Teodoro Zeccoli, il collaudatore per eccellenza, al quale Chiti era legatissimo, avendolo portato con sé dalla Ats. Poi come non ricordare due grandi professionisti arrivati poi, quali Vittorio Brambilla e Arturo Merzario, forse legati più alle rispettive e bellissime carriere piuttosto che a un marchio solo, ma comunque simboli dei due mondiali vinti coi prototipi nel 1975 e nel 1977». - In F.1 le cose non andarono come sperato col 12 cilindri Alfa Romeo. «Come dicevo, adattare un motore nato per le gare di durata non fu facile. Mentre l’Alfa nel 1977 vinceva il suo secondo Mondiale Sport col prototitpo 33, arrivato alla metamorfosi finale, con la Brabham le cose andarono in modo dignitoso ma le grandi soddisfazioni attese non ci furono». - L’avvento dell’effetto suolo rese obsoleto il boxerone perché troppo ingombrante, anche se l’Autodelta di Chiti in pochi mesi mise in campo un nuovo motore “stretto”, che tuttavia non ebbe fortuna, tanto che a fine 1979 la Brabham ripassò al Cosworth, mentre l’Alfa Romeo tornava davvero nel mondiale con l’Alfa-Alfa di Chiti, da dove mancava dal lontano 1951. «Sì, Giacomelli fu il prescelto, dopo che si era ben lanciato in F.2. Peccato che Bruno non sia riuscito a vincere il Gp Usa East 1980 per un guasto, dopo aver dominato». - Se quel giorno “Jack O’Malley” avesse tagliato il traguardo primo, la storia dell’Autodelta, dell’Alfa e della stessa F.1 sarebbe un po’ cambiata. «È andata come è andata. E voglio sottolineare che in quel periodo Chiti fece correre un altro manico che gli piaceva tantissimo: Andrea De Cesaris». - Nella prima metà degli Anni ’80 l’avventura Alfa in F.1 viene quindi affidata alla gestione Euroracing e poi termina senza acuti. Chiti se ne va e si getta anima e corpo nella Motori Moderni. L’Autodelta allo stato puro diventa un ricordo e ciò che viene dopo è genteticamente un’altra cosa. «Sì, resta comunque la storia unica del marchio del Biscione, irripetibile, come testimonia il museo di Arese. E spero che il marchio Autodelta venga opportunamente ripreso e rivitalizzato, come è stato per quello Motorsport per la Bmw o l’Amg per la Mercedes, perché simbolizzerà per sempre l’orgoglio di guidare una vettura Alfa Romeo»

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