C’era una volta un bravo ragazzo. Era figlio di un artigiano, Norbert, e di una casalinga, Heike. Aveva due sorelle, un fratellino e tre idoli con lo stesso nome: Michael Jackson, Michael Jordan e Michael Schumacher. L’ultimo dei tre, il piccolo Seb lo andava a vedere dal vero sui circuiti, dove il papà portava tutta la famiglia, col camper. Questo negli anni Novanta: perché poi, divenuto grande, Sebastian vide Schumacher soprattutto negli specchietti retrovisori. Era una perla di ragazzo, il giovane Seb. E quando, dopo una fugace apparizione con la Bmw F.1, vestì la tuta della Toro Rosso, in squadra divenne l’idolo di tutti. Perché era gentile senza distinzioni, generoso, non se la tirava. E in più andava forte. Maledettamente forte. Tanto da non sopportare che qualcuno gli stesse davanti.
Qualche anno dopo, marzo 2013, il bravo ragazzo è diventato il “Mostro della Red Bull”. Il pilota per il quale John Watson, 5 gran premi vinti in F.1, oggi invoca la sospensione per almeno una gara, causa “disobbedienza agli ordini di scuderia”. Flavio Briatore, ai microfoni di Radio Rai, tuona contro Sebastian perché «non si può fare sia il pilota che il team manager». Jenson Button dice che Vettel «pagherà le conseguenze» per quello che ha fatto. Per avere - tanto per rinfrescare la memoria ai più distratti - superato il suo compagno di squadra, in Malesia, quando gli ordini erano di congelare le posizioni.

Almeno in questo (e sorvolando sul fatto che con Webber ha un rapporto di management) Briatore ha ragione. Il ragazzo che piaceva a tutti adesso gioca a fare il boss. A Sepang si era lamentato via radio di Webber,
«va troppo piano, toglietemelo di torno». Non gli hanno dato retta, l’ordine era di mantenere la posizione, in questa F.1 2013 non si sa mai quanto possono durare le gomme. Guillaume Roquelin, il suo ingegnere, ha provato più volte a dargli consigli che volevano essere ordini:
«Non usare il Kers per sorpassare... attivalo solo nei punti previsti... Usura delle gomme troppo alta, davanti e dietro...».
Niente da fare: Vettel aveva già deciso di farsi giustizia da solo. Perché non sa, o non vuole, aspettare. Perché chi lo conosce bene sa che è molto più “istintivo” di quanto suggeriscano le apparenze. Davanti a lui, sopra di lui, non c’erano un compagno di squadra, o gli ordini del muretto. C’era un altro pilota che andava più piano. E come tale doveva essere attaccato, sorpassato, annichilito.
La parabola professionale di Sebastian Vettel - non quella prestazionale, ovviamente - si è conclusa. Da supertalento dell’ultima generazione a pilota “che gioca a fare il capo”. Ci sono passati tutti i grandi, da Senna a - ovviamente - Schumacher. Anche di Alonso si dice spesso che in squadra comanda lui. Anche lui, nel 2010 in Germania, si lamentò via radio («questo è assurdo!») che Massa, davanti a lui, non gli desse strada. Ma per amore di onestà, la Ferrari è stata criticata finora per avere applicato fin troppo gli ordini di squadra, non perché il pilota non li ha rispettati. Paradossalmente, invece, quella popolarità che Vettel ha inseguito per tanto tempo, adesso l’ha raggiunta in negativo. Neppure Helmut Marko lo ha difeso, almeno pubblicamente.Poi, giovedì scorso, ha specificato:
«C’è stata una stretta di mano fra i due e per noi il problema è risolto. Non c’è bisogno che siano amici per la pelle, ma ci deve essere una solida collaborazione di lavoro».
La F.1 ha da tempo la sindrome del mostro. Un paio di anni fa era stato Lewis Hamilton a finire nel mirino, per le sue intemperanze, per la battuta di cattivo gusto sui commissari di gara che «ce l’hanno con me perché sono nero». Ancora prima, Schumacher era stato il “cattivo”. Potremmo partire da Silverstone ‘94 (bandiera nera ignorata) per passare alla penalizzazione “schivata” sempre in Inghilterra, quattro anni dopo, e via discorrendo. Certo che Button o Raikkonen, anche loro campioni del mondo, non si sono mai visti piovere addosso questo genere di critiche. Loro appartengono all’altra tipologia, quella dei “buoni”. Sarà per questo che, a più di trent’anni, hanno vinto un titolo solo contro i tre di Vettel? Ecclestone, indirettamente, ha appoggiato Seb:
«Io non credo - riporta il “Telegraph” -
che in questa fase del campionato ci dovrebbero essere ordini di scuderia, non importa rivolti a chi. A tre quarti del campionato ci può stare. Da un certo punto di vista, sono stati stupidi tutti e due. Sarebbe toccato a Sebastian mollare il gas. Però stavano correndo: tutti e due vogliono vincere». Poi, però, aggiunge: «
Mettiamo che a fine anno questi due abbiano la possibilità di vincere il campionato. Non esiste proprio che Mark aiuti Sebastian. E magari lui arriverà a un punto in cui di quell’aiuto avrebbe bisogno... Sebastian è un combattente. Non vuole saperne di perdere. Mostratemi uno che sa perdere, e io vi mostrerò un perdente».

Bernie ha sempre avuto un buon rapporto con Vettel. Ma si è reso conto che Seb, stavolta, ha esagerato. Con buona pace di John Watson, non esiste una regola che possa sospendere un pilota da un Gp solo perché ha sorpassato il suo compagno di squadra contro gli ordini del muretto. Quella tra Vettel, Webber e la Red Bull resta una questione privata. Speriamo che non lo diventi anche il campionato.
Quei
giochi (molto) pericolosi
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A ciascuno i suoi ordini. Lewis Hamilton, dopo la Malesia, ha criticato la Red Bull, sostenendo che lo screzio fra Vettel e Webber nasce proprio dalle politiche della squadra. In sostanza, Horner e soci se la sono cercata perché
«alla Red Bull hanno sempre avuto ben chiaro che ci sono un numero 1 e un numero 2, mentre da noi è diverso». È un po’ strano - almeno nella F.1 di oggi - che il pilota di un altro team intervenga nella disputa. Però c’è un motivo (lo ha rivelato di recente Bernie Ecclestone) ed è che Hamilton, prima di andare alla Mercedes, era pronto e deciso a prendersi il volante di Webber in Red Bull. Forse la... bibita non bevuta gli è rimasta sullo stomaco. Comunque la gara di Sepang 2013 è tutta un campionario di ordini di squadra non rispettati o eseguiti controvoglia. Proprio Ross Brawn, anche la settimana dopo la gara insiste sul fatto che il podio “rubato” a Rosberg, in condizioni di superare Hamilton per il terzo posto nel finale, è stato una necessità dovuta al fatto che entrambi dovevano risparmiare carburante. Ma dopo la gara Niki Lauda ha attaccato la decisione, sostenendo che
«da un punto di vista sportivo è sbagliata. Avrebbero dovuto lasciare che Rosberg facesse la sua corsa. Se questa è la strategia da qui in avanti, dovremo parlarne a Ross».

Ora, non è proprio un segreto che Lauda sia arrivato in Mercedes (su “invito” di Ecclestone) anche per cercare di far fuori Ross Brawn. Niki e Toto Wolff, nel caso-Malesia, hanno fatto la parte dei due poliziotti (il buono e il cattivo), visto che Wolff ha invece appoggiato la decisione di Ross. Comunque, Rosberg è stato chiaro all’arrivo della gara: «Questa ve la dovrete ricordare». Come dire che da ora in avanti Hamilton gli deve un favore. E magari Nico si aspetta anche che glielo restituisca....
E poi c’è il caso della Ferrari. Non che a Sepang ci siano stati ordini di squadra, anche perché non ce n’era bisogno, visto quanto è durata la gara di Alonso. Anzi, al via si è visto Felipe puntare con decisione verso destra, dal lato del compagno di squadra (ed è stata l’unica azione efficace della sua partenza). Però hanno colpito le sue affermazioni nel dopo gara, in merito all’incidente del compagno di squadra.
«Quando l’ala è piegata come era la sua, di solito si rientra ai box». A un Massa “tonico” come lo abbiamo visto in certi sprazzi di questo 2013, forse sarebbe difficile imporre ordini dal muretto. Ma in Ferrari la disciplina è tutto.
di Alberto Antonini
Da Autosprint n.13 del 2 aprile 2013