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Demolition men

Demolition men

8 mag 2013

Balla qualcosa di poetico e istantaneamente struggente nella vicenda capitata ad Alonso al 1° giro del Gp di Malesia 2013. Perché per una volta l’uomo non pare alleato, simbionte o servo della macchina, ma la maltratta, la porta all’estremo, quasi se ne emancipa librandosi solo in un rettilineo immenso per attimi infiniti con la sua voglia di vincere contro tutto e tutti sino a finirne sublimamente fregato. C’è qualcosa di esteticamente e filosoficamente bello in ciò, un impeto che sa di fuga da un’epoca in cui il pilota è prigioniero passivo di tecnologie, tattiche, nanomillimetri di gomme usurabili e psicologicamente usuranti, mero guardiano di apparecchiature in una microastronave divenuta improvvisamente escrescenza inutile da cui fuggire, per tornare a essere semplicemente se stesso. Un uomo che anche nell’errore è in grado di assaporare l’amaro affascinante della sua più dolce ragione di vita: correre. Correre e basta.



Chiamalo se vuoi luddismo agonistico
All’inizio del diciannovesimo secolo in Inghilterra lo chiamavano “luddismo” ed era un movimento di protesta operaia, caratterizzato dal sabotaggio della produzione industriale. Adesso il luddismo come parola vive ancora in tutte le forme di lotta violenta contro l’introduzione di nuove macchine e, per estensione e con intento denigratorio, indica ogni resistenza operaia al mutamento tecnologico. È proprio questo il punto. Certe volte nelle competizioni l’errore non sembra una bruttura tout court ma la protesta inconscia del pilota che quasi si ribella al potere stesso del suo mezzo liberandosene, quasi a voler stabilire un rapporto diretto e privilegiato tra il suo io e la velocità. Non sono stati molti, i “luddisti delle corse”, non si riesce ad avere spazio e modo di descriverli tutti, eppure quei pochi sono stati ardentemente amati più degli altri, quasi che alle masse non possa mai sfuggire quel tocco melò che imbeve certe gesta romanticamente folli.



Nivola, nostro signore dei luddisti
In fondo Tazio Nuvolari strega l’anima perfino di chi non l’ha mai visto per come sa vincere ma soprattutto per come riesce a perdere. Staccatissimo in fondo al gruppo alla Coppa Brezzi del 1946, con una Cisitalia priva di volante, oppure a far piangere l’Italia muta all’ascolto della radio, nella 1000 Miglia del 1948, quando s’invola in testa letteralmente sbriciolando la sua Ferrari 166 Sc perdendo il sedile, un parafango, quindi facendo volare addirittura il cofano motore a Rigali di Gualdo Tadino, in provincia di Perugia, arrivando al controllo orario del Ponte Milvio a Roma come un guerriero invitto che ormai combatte solo contro la sua corazza. No, non importa vincere. Chi vince non sa quello che si perde. È una gloriosa sconfitta quella che lo attende a Villa Ospizio di Reggio Emilia, davanti a un bimbetto di 9 anni che si chiama Romano Prodi. Cede anche una balestra, la macchina è devastata il suo secondo Sergio Scapinelli, che oltre a essere collaudatore è anche fine meccanico, tanti anni dopo ricordava commosso: «Lui voleva vincere, quel giorno, certo. Ma anche qualcosa di più. È come se avesse sognato di arrivare a piedi, in quella 1000 Miglia, quella Ferrari gli sembrava d’impiccio».



Gilles come Conan il distruttore
L’ultimo grande, vero e squarciante grido di libertà lo lancia al mondo Gilles Villeneuve, che vive e coerentemente muore sbriciolando monoposto. Arriva alla Ferrari e spiega subito all’universo attonito che a lui le ali non servono, Ne alza e ne perde una a Imola 1979 toccandosi con Lauda, in Canada 1981 guida sotto la pioggia a vista e a guida persa con lo spoiler anteriore che s’è messo sull’attenti, come un’inutilità subordinata, quasi che Gilles stia raccontando a tutti l’inconscia favola che ha di dentro, che nella sua riga più calda ricorda e chi lo guarda che un uomo vero non ha bisogno di ali per volare. Forse neanche di ruote per strisciare liscio, se è vero che fa a meno della posteriore sinistra per rientrare ai box di Zandvoort 1979 in un oceano di scintille, con la sospensione sbriciolata e quel suo braccio alto che i freddi interpretano come una resa, ma gli avveduti vedono come gesto di vittoria perché quel pomeriggio maledetto Gilles Villeneuve rinuncia al titolo mondiale centrando un traguardo ben più grosso e pulsante: il cuore della gente. Il terminale vibrante d’un’emotività collettiva che riceve la sfilata luddistica d’una monoposto arresa a strisciar l’asfalto quasi fosse carezza che non si dimentica più.



Brambilla demoliva per costruire
A fine Anni ’70 in Brasile Brambilla nelle prove libere va dritto in un curvone d’Interlagos, quando farlo voleva dire prenotare a San Pietro un bed and breakfast in paradiso. Vittorio tornò ai box con l’ignifuga legata alla vita e il petto nudo proteso verso il piombo nemico, cioè l’incazzatura di John Surtees, il suo team principal. Brambilla lo vede ed è laconico come un guerriero greco: «Roba da niente, mi è partita, ma la macchina s’è fatta tanto così» - dice mostrando la falange di un indice. Il resto è il racconto sorridente e ancora innamorato di John Surtees medesimo: «Poi il carro attrezzi portò al box la macchina devastata. C’era da chiedersi come un uomo normale fosse uscito vivo da quel groviglio e solo a pensare a Vittorio che tranquillissimo, col cuore a 70 battiti, mi mostrava una falange per minimizzare, provai più rispetto per lui che dispiacere per la macchina. Sono momenti in cui capisci che il nostro è uno sport per uomini e il metallo in fondo non è così importante». Vittorio pochi anni prima aveva vinto un Gp nell’uragano in Austria 1975 scomponendosi nell’esultanza di tagliare il traguardo primo, tanto da perdere il controllo della sua March e finire contro le barriere, polverizzando il musetto. Quel giro d’onore col braccia alzato e il pugno chiuso nella pioggia sembrava il risultato di una selezione spietata, con l’uomo che era restato sano a irridere la sua macchina con la faccia a pezzi.



Il miracolo di Barth a Le Mans 1977
Ficcatevelo bene in testa. L’auto da corsa è una bestia a sangue freddo. Questo è uno sport per chi ha palle, testa e cuore. Metalli, liquidi e benzina sono un veleno necessario, tutto lì. Ma quelle creature sono ragni velenosi, la tua macchina t’è nemica tanto quanto le altre, perché se vuole ti beffa, ti ferisce, t’uccide perfino. Prendiamo la 24 Ore di Le Mans 1977. Ickx corre con Pescarolo sulla Porsche 936 di punta, ma dopo poco, mentre guida Henri, gli parte un pistone. L’asso belga non ha ancora guidato e vien dirottato sulla n.4. L’equipaggio è composto dal tester Jurgen Barth, dallo statunitense Hurley Haywood e dal tecnico Eberhard Braun. Okay, no problem: prendono Braun da una parte e gli spiegano che il suo sogno di correre Le Mans con un prototipo non si materializzerà, perché sarà Jacky Ickx a sostituirlo. Ickx sale rilevando la 936 in 48esima posizione e il resto è leggenda. Corre nella notte come un uomo che nella vita non ha nulla da perdere: «Non era un’endurance race, ma un Gp di 24 Ore. Feci esplodere tutto e tutti perché quella notte non rispettai la macchina, ma la trattai come una monoposto agli ultimi giri di un Gp. Il pomeriggio dopo il campo di battaglia era pieno dei relitti nemici, ma la mia 936 era diventata l’ultima vera rivale. Era ferma ai box a un giro dalla fine con un pistone bucato. Solo un uomo al mondo poteva essere così tecnicamente sensibile da portarla al traguardo sfidandola e allo stesso tempo rispettandola: Jurgen Barth. E così fu. Al rallentatore il tedesco completò il giro e la macchina spirò sulla linea del traguardo ». Tale e quale alla Porsche di Haywood-Holbert- Schuppan nel 1983. Perché a volte col luddismo si vince anche.



Il dramma di Hildebrand
E che dire dello statunitense Jr Hildebrand che perde agli ultimi metri dell’ultimo giro la Indy 500 del 2010, consegnando il trionfo a uno stupito Wheldon e finendo col tagliare il traguardo al volante di una monoposto malinconicamente distrutta. Be’ non importa. Forse Hildebrand col suo errore autolesionista sarà ricordato più che se l’avesse fatta sua, quella corsa. Perché gratta gratta noi in questo sport l’anima non la regaliamo solo a chi vince ma molto più volentieri a chi dimostrandosi più uomo della sua macchina sa regalarci un attimo infinito di poesia.


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